In attesa del danno da morte (pur con i debiti scongiuri…): questioni “transitorie”, sostanziali e processuali

Maurizio Hazan
10 Febbraio 2015

«La ricostruzione sostenuta dalla sentenza “Scarano” n. 1361 del 2014 (Cass. civ. n. 1361/2014), in tema di danno tanatologico, si fonda sulla diversità ontologica tra danno biologico e danno da perdita della vita. La disomogeneità delle due poste comporta che per invocare la liquidazione del danno da perdita della vita in corso di giudizio, ed a maggior ragione in sede di legittimità, gli attori/ricorrenti dovrebbero averlo specificamente richiesto sin dall'avvio della causa. Non basta, allo scopo, allegare di aver genericamente chiesto il risarcimento di un danno alla salute, anche se terminale ed anche laddove azionato iure hereditatis. La richiesta di risarcimento del danno da perdita della vita svolta da chi in precedenza abbia chiesto il -diverso - risarcimento del danno terminale biologico o da lucida agonia costituisce una domanda nuova, in quanto tale inammissibile in sede di gravame».
Massima

Cass., sez. III, sent. 5 dicembre 2014, n. 25731

«La ricostruzione sostenuta dalla sentenza “Scarano” n. 1361 del 2014 (Cass. civ., n. 1361/2014), in tema di danno tanatologico, si fonda sulla diversità ontologica tra danno biologico e danno da perdita della vita. La disomogeneità delle due poste comporta che per invocare la liquidazione del danno da perdita della vita in corso di giudizio, ed a maggior ragione in sede di legittimità, gli attori/ricorrenti dovrebbero averlo specificamente richiesto sin dall'avvio della causa. Non basta, allo scopo, allegare di aver genericamente chiesto il risarcimento di un danno alla salute, anche se terminale ed anche laddove azionato iure hereditatis. La richiesta di risarcimento del danno da perdita della vita svolta da chi in precedenza abbia chiesto il - diverso - risarcimento del danno terminale biologico o da lucida agonia costituisce una domanda nuova, in quanto tale inammissibile in sede di gravame».

Sintesi del fatto

Tizio e Caio, rispettivamente marito e figlio di Mevia, deceduta in occasione di un sinistro stradale, adivano il Tribunale di Napoli chiedendo il risarcimento di tutti i danni patiti, iure proprio e iure hereditatis, in conseguenza dell'illecito.

Il Giudice, riconosciuta la responsabilità del conducente dell'autovettura investitrice nella misura del 90%, con concorso colposo della vittima pari al 10%, condannava solidalmente i convenuti al pagamento di euro 55.000,00 a titolo di risarcimento del danno morale iure hereditatis, tenuto conto della "brevità della sopravvivenza (venti minuti), dell'età della vittima (anni 68) e delle modalità del fatto (avendo Mevia sofferto intensamente in quel breve lasso temporale); e ancora, di euro 80,00 a titolo di risarcimento del danno biologico iure hereditatatis, tenuto conto proprio della "brevità del tempo di sopravvivenza", tale da consentire l'apprezzamento di detto danno "se non in frazione estremamente ridotta consistente nel suo concreto avverarsi".

Tale statuizione veniva confermata dalla Corte di Appello.

Gli attori proponevano dunque ricorso in Cassazione sostenendo, in primo luogo, che la Corte territoriale non avesse correttamente valorizzato l'entità del danno (biologico) patito dalla vittima ed invocando, a rinforzo delle proprie pretese, il diritto a sentir ristorare il danno da perdita della vita, così come predicato dalla recente sentenza della terza Sezione della Corte di Cassazione, Cass. civ., n. 1361/2014.

Nel rigettare il ricorso, in ogni suo motivo, la Suprema Corte afferma senza esitazioni l'inconferenza del “richiamo alla più recente Cass. civ., n. 1361/2014, giacché la ricostruzione da essa sostenuta si fonda sulla diversità ontologica tra danno biologico e danno da perdita della vita, con la conseguenza che i ricorrenti avrebbero dovuto anzitutto allegare, e comprovare, di aver richiesto sin dal primo grado e, poi, ribadito in appello, quest'ultima tipologia di danno e non già soltanto la prima e ciò per non incorrere in una inammissibile proposizione di domanda nuova; allegazione e riscontro che, tuttavia, non sono stati forniti”.

Le questioni

Il tema della risarcibilità del danno da morte in sé e per sé considerato – e, dunque, al di là dei così detti “danni terminali” (biologici o morali) – costituisce, da sempre, terreno di coltura di affascinanti dispute etico filosofiche, prima ancora che giuridiche. La stessa impalpabilità – diremmo meglio – l'inafferrabilità della morte, al di fuori della sfera del “sentire” religioso, condiziona inevitabilmente la stessa possibilità di individuare categorie giuridiche in grado di valorizzarne la dimensione fenomenica con finalità risarcitorie. Non crediamo, dunque, di sbagliare nell'affermare che il problema afferente al ristoro del danno da morte - il quale, ove ammesso, sarebbe necessariamente teso a compensare soggetti diversi dalla vittima - restituisca a chi tenti di risolverlo uno dei più intricati enigmi della responsabilità civile, implicando scelte di politica del diritto assai complesse e delicate. A maggior ragione negli attuali scenari socio economici, nell'ambito dei quali il sistema della responsabilità tende (anche) a garantire la più razionale allocazione dei costi e delle perdite, ispirandosi ai criteri di una solidale compartecipazione ai rischi del moderno vivere civile.

In questo contesto si è posta la rivoluzionaria sentenza “Scarano” (Cass. civ., 23 gennaio 2014, n. 1361), la quale – mossa da uno straordinario slancio ideale - ha avuto il merito di scandagliare tutti i possibili percorsi motivazionali per tentare di affermare la piena (e doverosa, secondo l'estensore) risarcibilità del danno da perdita della vita, sovvertendo il contrario orientamento della Suprema Corte (sancito, in termini perentori, dalle SS.UU. nelle note sentenze gemelle dell'11 novembre 2008).

Del resto, forse proprio a voler superare l'impasse semantica, etica, filosofica e sostanziale, insita nella difficoltà di commisurare un fenomeno ignoto (la morte) ad una cifra risarcitoria, la sentenza “Scarano” gioca attorno a fini argomenti letterali, sino a perorare l'idea della necessità di dover accordare tutela non tanto al danno da morte quanto al danno da perdita del più grande dei beni di cui l'uomo dispone: la vita.

Le dirompenti potenzialità di un tale argomentare, in termini di impatto sullo stesso sistema generale del danno risarcibile, non avrebbero potuto rimanere “sotto traccia”, postulando, anzi, una definitiva presa di posizione della Suprema Corte a S.U, tesa a comporre quel dissidio che, non registrato nel 2008, è emerso, l'anno scorso, in tutta la sua deflagrante portata.

Di qui, quale naturale conseguenza, il rinvio alle Sezioni Unite (Cass. civ., 4 marzo 2014, n. 5056) la cui pronuncia è ormai da tempo attesa (la discussione si è tenuta il 17 giugno 2014) in modo impaziente soprattutto dagli operatori del mercato assicurativo della rc (e della rc Auto in particolare): ove si ammettesse il risarcimento da perdita della vita gli attuali assetti liquidativi del “danno alla persona” risulterebbero sostanzialmente scompaginati, a fronte dell'irruzione di nuove poste risarcibili iure hereditatis rimesse ad una valutazione giudiziale necessariamente equitativa e, almeno allo stato, non ragguagliabile ad alcun canone quantificativo di riferimento. Il che, tanto più nel settore della rc auto – obbligatoriamente assicurato – potrebbe comportare enormi ricadute sull'andamento tecnico del ramo e sul livello dei premi finali di polizza.

Ma già oggi, nell'attesa di un intervento (quello delle Sezioni Unite) che si fa davvero desiderare, lo squarcio aperto dalla sentenza “Scarano” incide sulla dialettica transattiva tra assicuratori ed aventi diritto, arricchendo la “posta in gioco” di nuove possibili componenti risarcitorie.

E non solo: le nuove prospettive di un sensibile aumento del danno risarcibile in tutti i casi in cui si discorra di un evento mortale può indurre a tentare di “aggiustare il tiro” anche nel corso di processi già incardinati ed iniziati in epoca precedente al revirement della Sentenza Scarano. È dunque tutt'altro che infrequente imbattersi in casi, quale quello oggetto della sentenza che oggi si commenta, in cui gli attori, in veste di prossimi congiunti della vittima, dopo aver avviato un processo per ottenere il risarcimento dei danni - propri – da perdita del rapporto parentale nonché del danno biologico o morale iure hereditatis, tentino di allargare il thema decidendum e chiedano, ancora una volta in qualità di eredi, il ristoro del danno da “perdita della vita” subito dal de cuius. Vien dunque da chiedersi: una richiesta risarcitoria formulata dagli eredi a titolo di danno biologico terminale o di danno da lucida agonia può, in corso di giudizio emendarsi a tal punto da ricomprendere il nuovo danno da perdita della vita?

La sentenza in parola lo esclude, a chiare lettere: “La richiesta di risarcimento del danno da perdita della vita svolta da chi in precedenza abbia chiesto il – diverso - risarcimento del danno terminale biologico o da lucida agonia costituisce una domanda nuova, in quanto tale inammissibile in sede di gravame”.

Mutatio libelli e perdita della vita

Il tema, in verità, era stato per così dire “sfiorato” dalla stessa sentenza “Scarano”, la quale, a prima vista, sembrerebbe ammettere la possibilità di ampliare il tema di causa anche in corso di giudizio sino a ricomprendere, a fronte di un medesimo evento mortale, un danno da perdita della vita non allegato nell'atto introduttivo: “ai fini dell'accoglimento della domanda è irrilevante l'erronea denominazione del tipo di pregiudizio non patrimoniale di cui si chiede il risarcimento se ad esso sia stato fatto riferimento in un contesto nel quale era stato richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente senza limitazioni connesse solo ad alcune e non ad altre conseguenze pregiudizievoli derivatene (v. Cass., 9 marzo 2012, n. 3718; Cass., 17 luglio 2012, n. 12236, e da ultimo, Cass., 6 agosto 2013, n. 18659)”. Tuttavia, nella vicenda processuale in cui si colloca la sentenza Cass. civ., n. 1361/2014, il problema di una possibile mutatio libelli non pareva porsi in concreto: in quel procedimento i ricorrenti – originari attori – avevano sin dal principio proposto una domanda la cui latitudine (al di là di qualche incertezza espositiva) era effettivamente tale da potervi ricomprendere - almeno astrattamente - anche il danno da perdita della vita; così, infatti, concludeva l'atto di citazione di primo grado: “voglia il Tribunale ... condannare i convenuti a risarcire agli attori tutti i danni da costoro subiti in seguito ai fatti di causa, iure proprio e iure successionis, così come azionati e sotto tutti gli aspetti risarcibili, patrimoniali e non patrimoniali, nella misura che sarà ritenuta di giustizia in esito agli accertamenti istruttori”.

Ora, non vi è dubbio che il principio affermato dalla sentenza Scarano aderisca al prevalente orientamento di legittimità, secondo il quale “una volta identificato il danno(-evento) non patrimoniale la domanda di risarcimento può limitarsi ad una generica volontà di conseguire l'integrale risarcimento di tutte le c.d. voci di danno riferibili all'evento lesivo” (v. su Ri.Da.Re. La domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e le preclusioni processuali applicabili in tema di allegazione e prova).

E tale orientamento, teso a riconoscere la validità di una domanda risarcitoria omnicomprensiva di tutti i danni lamentati, a prescindere dalla specificazione iniziale delle varie voci che ne comporrebbero la liquidazione, pare trovare il suo pendant nella consacrazione del principio della natura unitaria del danno non patrimoniale, affermato dalle sentenze gemelle dell'11 novembre 2008.

Pur tuttavia, tali principi generali non paiono calzare perfettamente al caso di specie: ben al contrario, la sentenza “Scarano”, per affermarne la risarcibilità, ha dovuto porre il danno tanatologico o da perdita della vita in uno spazio a sé stante, disegnandolo in modo eccentrico rispetto a tutti gli altri danni non patrimoniali della persona sino ad allora riconosciuti e liquidati. In tal senso, appare emblematico il passaggio in cui si afferma che “il danno da perdita della vita è altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se nella sua oggettività di perdita del principale bene dell'uomo costituito dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, e dovendo essere ristorato anche in caso di morte cd. immediata o istantanea….”.

La diversa, e peculiarissima, morfologia del danno da perdita della vita si rivelerebbe, poi, nel fatto che “il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente”, sino addirittura a sottrarsi al principio “dell'irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza”.

L'ontologica distanza tra il “nuovo danno da perdita della vita” e gli altri danni non patrimoniali della persona è stata dunque ben colta dalla sentenza n. 25731/2014, che – del tutto conseguentemente - lo ha considerato come una autonoma posta di pregiudizio, tale da non potersi ricomprendere entro una domanda risarcitoria genericamente riferita a danni biologici od altri pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla lesione del diritto alla salute.

In altri termini e semplificando: per aggirare gli ostacoli frapposti dai pretendenti orientamenti consolidati, la sentenza “Scarano” ha dovuto in qualche modo uscire dai ranghi, forzando gli statuti di base e “resuscitando” la categoria logica del “danno evento”, quale unica figura astrattamente idonea ad accogliere, come danno, la morte immediata.

Per meglio comprendere il difficoltoso cammino che la sentenza Cass. civ., n. 1361/2014 ha dovuto compiere per pervenire al proprio dichiarato obiettivo (quello di non lasciar priva di tutela risarcitoria la perdita della vita) può essere opportuno dar conto, pur nei limiti concessici in questa sede, dello status quo ante.

Il consolidato orientamento di legittimità in tema di danno tanatologico ex se

Il danno da morte immediata ha, come anticipato, incontrato un sistematico barrage da parte tanto della Giurisprudenza della Consulta (v. Corte Cost., 27 ottobre 1994, n. 372, GI, 1995, I, 406) quanto della Corte di legittimità (tra tutte si veda, per chiarezza espositiva, Cass., 16 maggio 2003, n. 7632) le quali hanno costantemente riaffermato i seguenti principi:

  • la lesione dell'integrità fisica con esito letale non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute ma incide sul diverso bene giuridico della vita;
  • la perdita della vita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi;
  • non rileva, in senso contrario, la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno;
  • la lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura non può dar luogo ad alcun risarcimento del danno quando tale persona abbia cessato di esistere.

Nel medesimo solco, come già rilevato, si pongono anche le chiare indicazioni rese nelle sentenze gemelle del 11 novembre 2008 le quali hanno ritenuto di doversi astenere da nuove avventurose rivisitazioni della materia, confermando, da un lato, la irrisarcibilità del danno da morte immediata e ratificando, dall'altro, l'unica forma di tutela del danno da fine vita accolta, sino ad allora, dalla giurisprudenza: ci riferiamo alla categoria dei danni terminali, biologici o da lucida agonia, quali subspecie di rimedi palliativi, tesi forse a compensare l'inammissibilità, sul piano logico e civilistico, del risarcimento di un danno – quello da morte immediata – neppure concepibile in capo al de cuius.

È muovendo da questo angolo visuale che può comprendersi, con più solare evidenza, il brusco cambio di direttrice impresso dalla sentenza Scarano, secondo la quale “il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l'illecito non ne avesse causato la soppressione”.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

Non vi è dubbio, dunque, che la predicata ammissibilità del risarcimento del danno da morte passi attraverso una fine elaborazione teorica, quella fatta propria dalla sentenza Cass. civ., n. 1361/2014, tale da aprire una nuova, franca, classificazione categorica all'interno dei danni non patrimoniali, sino ad assegnare al danno da perdita della vita uno spazio a sé stante ed esclusivo; in quanto tale non omologabile al danno alla salute, all'integrità psicofisica e, più in generale, ad ogni aspetto pregiudizievole correlato alla diminuita qualità dell'esistenza.

Ora, a fronte di una così marcata contrapposizione ideologica, tanto spinta da sfiorare i confini del paradosso semantico, rimane un dato certo: quand'anche trovasse conferma nell'attesa pronunzia delle Sezioni Unite, il danno da perdita della vita, se inteso in quei termini, non potrebbe che rimanere altro e diverso da qualsiasi altra categoria di danno risarcibile sin qui elaborata.

In questo senso, dunque, ben si comprende la soluzione alla quale perviene la sentenza in commento nella parte in cui, dopo aver dato conto della diversità ontologica tra danno biologico e danno da perdita della vita, finisce per escludere che il secondo possa esser richiesto, in corso di giudizio, ove non precedentemente, ed espressamente domandato: “con la conseguenza che i ricorrenti avrebbero dovuto anzitutto allegare, e comprovare, di aver richiesto sin dal primo grado e, poi, ribadito in appello, quest'ultima tipologia di danno e non già soltanto la prima e ciò per non incorrere in una inammissibile proposizione di domanda nuova”.

Il che, naturalmente, reca impatti pratici di non trascurabile rilevanza, almeno in tutti quei casi in cui la domanda “nuova” non sia proponibile neppure con separato giudizio, essendo nel frattempo maturato il relativo termine prescrizionale.

Ma, di danno da perdita della vita potrà, domani, veramente parlarsi?

Con sentenza n. 4307/2014 del 1 dicembre 2014 la Corte d'Appello di Milano ha seguito pedissequamente l'orientamento della sentenza “Scarano”, riconoscendo e liquidando un danno da perdita della vita quantificato nella misura di Euro 300.000.=, in applicazione di parametri equitativi necessariamente autoreferenziali, in assenza di qualsiasi paradigma a cui rapportarsi.

La sbrigatività di un tale automatismo risarcitorio induce a qualche riflessione circa la pericolosa deriva che un troppo frettoloso sdoganamento del danno da perdita della vita potrebbe implicare.

Non si vogliono, qui, ripercorrere gli argomenti logico/giuridici e sistematici che hanno animato decenni di dibattito sulla possibilità stessa di applicare alla morte le categorie civilistiche del danno risarcibile.

Né si intendono – nemmeno – abbozzare gli inestricabili dilemmi filosofici, prima ancora che giuridici, sottesi al tema (per quanto non possa sottacersi un certo imbarazzo a fronte dell'idea di prezzare la vita, abbandonando – dietro compenso – qualsiasi prospettiva di riscatto spirituale…).

Quel che, qui, si vuole invece evidenziare è che l'apprezzabile slancio ideale attorno al quale gravita la sentenza Scarano è sostenuto da una convinzione a nostro parere precaria. Il cuore motivazionale di quella pronunzia risiede, invero, nella necessità di rispondere all'effettivo “sentire sociale nell'attuale momento storico” che reclamerebbe “…la necessità di ammettersi senz'altro la diretta ristorabilità del bene vita in favore di chi l'ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui”.

Sennonchè, il presente momento storico induce a più caute riflessioni, imponendo di accedere anche ad una concezione economica del sistema della responsabilità civile, da intendersi non improntato a logiche di risarcimento “a tout prix” di qualsiasi evento avverso della vita quanto piuttosto a criteri di una allocazione dei costi, dei rischi e delle perdite efficiente e sostenibile. Un sistema solidale, dunque, che sappia contemperare tutti gli interessi in gioco, tutelando i diritti dei singoli senza compromettere le esigenze della collettività (secondo una formula così ben declinata dall'art. 2 della Costituzione).

In questo senso, del resto, merita di esser letta la recente sentenza della Corte Cost., 16 ottobre 2014, n. 235 la quale, chiamata a pronunciarsi sull'art. 139 Cod. Ass., ne ha affermato la legittimità proprio facendo leva sui principi solidali che governano, di fondo, la materia della rc auto e che, a fronte delle basilari garanzie offerte a tutti i terzi danneggiati, giustificano una riduzione dei valori liquidativi.

Al nuovo millennio si affaccia, dunque, un sistema di tutele ampie e diffuse, che non comporta di necessità – o forse addirittura esclude – una nuova inflazione risarcitoria.

Vi è dunque da chiedersi se davvero la coscienza sociale del nostro tempo possa ammettere che il buon funzionamento di sistemi obbligatoriamente assicurati (quale quello della rc auto o della responsabilità sanitaria) sia potenzialmente pregiudicato dalla pretesa necessità di liquidare voci di danno del tutto incerte, astrattamente sconfinate e poste a beneficio di soggetti (gli eredi – o in loro mancanza – lo Stato … ) che potrebbero non aver subito alcun danno effettivo dalla dipartita della “vittima primaria” dell'illecito.

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