Smarrimento di documenti contenenti dati sensibili e i filtri della gravità dell'offesa e della serietà del pregiudizio per la risarcibilità del danno non patrimoniale

10 Maggio 2016

Non è risarcibile il danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto alla protezione dei dati personali ove non risulti dimostrata la ricorrenza di una perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato.
Massima

Non è risarcibile il danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto alla protezione dei dati personali ove non risulti dimostrata la ricorrenza di una perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato: come accade nel caso di smarrimento - da parte della p.a - della documentazione contenente dati sensibili relativi allo stato di salute, dal momento che tale circostanza di per sé non implica l'avvenuta conoscenza di tali dati da parte di persone estranee alla funzione amministrativa deputata al loro esame.

Il caso

Un dipendente del Ministero della Difesa - dopo aver posto istanza di riconoscimento per derivazione da cause di servizio di una serie di patologie, al fine di ottenere la concessione dell'equo indennizzo, e aver trasmesso al corpo di appartenenza la relativa certificazione sanitaria – denuncia lo smarrimento di tale documentazione da parte della CMO incaricata del suo esame e richiede il risarcimento del danno provocato dall'illecito trattamento di dati sensibili relativi alla sua salute.

Contro la sentenza del Tribunale, la quale respingeva tale istanza - per non esservi certezza circa l'effettivo smarrimento dei documento da parte della Commissione competente e, soprattutto, per non essere stato provato che i documenti fossero pervenuti nella concreta disponibilità di terzi estranei alla P.a. - viene proposto ricorso da parte dell'interessato.

La questione

La questione affrontata dall'ordinanza in esame riguarda le conseguenze, sul piano risarcitorio, di un comportamento il quale integri la violazione delle norme previste dal D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice della privacy) in materia di trattamento di dati personali. In particolare, si tratta di verificare se la prova circa il mancato rispetto delle prescrizioni previste dall'art. 11 di tale codice giustifichi, di per sé sola, il ristoro di un pregiudizio in capo al titolare dei dati sottoposti al trattamento.

Le soluzioni giuridiche

Il provvedimento della Cassazione verte su un'ipotesi di smarrimento della documentazione sanitaria, da parte della struttura competente al relativo esame, in dipendenza del quale il titolare dei dati sensibili riportati nella documentazione stessa lamenta il verificarsi di un pregiudizio a suo carico.

Posto che, nel caso di specie, era in discussione la stessa ascrivibilità di tale smarrimento alla struttura responsabile del procedimento, la Cassazione rileva che – anche dando per provato tale fatto storico – non potrebbe inferirsi dallo stesso l'avvenuta conoscenza dei dati contenuti nella documentazione da parte di persone estranee alla funzione amministrativa deputata al loro esame. Ciò significa che la dimostrazione dello smarrimento non implica, di per sé, la prova che un danno si sia effettivamente concretizzato in capo al titolare dei dati sensibili sottoposti a trattamento.

La Suprema Corte richiama, a sostegno di tale conclusione, il principio – affermato, in materia di trattamento di dati personali, da Cass. 15 luglio 2014, n. 16133 – in base al quale “il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art 15 (cosiddetto codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost, e dall'art. 8 Cedu, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato”. La conclusione cui perviene l'ordinanza in esame è che “determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 Cod. Privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva”.

Osservazioni

Il provvedimento in commento perviene a una conclusione del tutto condivisibile, mettendo però in campo principi non strettamente funzionali a fondare la soluzione raggiunta.

Il mancato riconoscimento della tutela risarcitoria – nel caso di specie – dipende essenzialmente dal fatto che nessun genere di allegazione risulta essere stata fornita, dal titolare dei dati sensibili sottoposti a trattamento, circa l'effettivo manifestarsi di pregiudizi in dipendenza del (supposto) smarrimento di documenti. Non basta, in effetti, lamentare l'avvenuta violazione di taluna delle regole che presidiano al trattamento dei dati perché possa essere desunta automaticamente la ricorrenza di un danno non patrimoniale. Si tratterà, bensì, di dimostrare che il comportamento illecito ha prodotto una qualche ripercussione negativa di carattere personale in capo al titolare dei dati. A tal fine, quest'ultimo dovrà pertanto, allegare le compromissioni di ordine morale e/o esistenziale che egli considera di aver patito in conseguenza al trattamento illecito; in assenza di allegazione, il giudice non potrà far capo al ragionamento di carattere presuntivo per dimostrare la ricorrenza del danno, visto che nessun pregiudizio risulta essere in concreto lamentato. Conclusioni del genere appaiono scontate, una volta rilevato – in accordo con i principi solennemente ribaditi dalle Sezioni Unite nelle sentenze del novembre 2008 - che il danno non coincide con la lesione, ma è fenomeno conseguente alla stessa; la dimostrazione della violazione di un diritto, ancorché avente valenza costituzionale, non è sufficiente a garantire il risarcimento, non essendo ipotizzabile la sussistenza di un danno in re ipsa (per l'applicazione di tali indicazioni in un caso di illecito trattamento di dati sanitari v. Cass. 3 luglio 2014, n. 15240).

La Cassazione pone, però, ulteriori principi a fondamento della conclusione raggiunta, in quanto richiama le indicazioni formulate in una proprio precedente, relativo al trattamento dei dati personali, che fanno capo alla necessità di applicare – in caso di ristoro dei danni non patrimoniali – il filtro della gravità dell'offesa e della serietà del pregiudizio (criteri che, com'è noto, sono stati enunciati dalle Sezioni Unite del novembre 2008, in termini generali, al fine di respingere le richieste di ristoro, in ambito non patrimoniale, dei c.d. danni bagatellari).

Un primo rilievo, al riguardo, concerne il fatto che – in seno alle pronunce di San Martino – l'applicazione dei due parametri limitativi in questione viene correlata non già ai casi di ristoro del danno non patrimoniale esplicitamente previsti dalla legge, bensì alla sola ipotesi di lesione di diritti costituzionalmente protetti. Va rilevato, a tale proposito, che - per quanto riguarda le fattispecie normativamente previste - è già il legislatore a determinare i presupposti in presenza dei quali il danno risulta ingiusto; la risarcibilità dello stesso non potrà – pertanto – essere collegata alla ricorrenza di ulteriori filtri, che rappresenterebbero un'ingiustificata restrizione rispetto alle indicazioni normative. Restando nel nostro campo di indagine, si tratta allora di riconoscere che l'accertamento della violazione delle norme sul trattamento dei dati personali è di per sé sufficiente a integrare i presupposti di risarcibilità del danno non patrimoniale previsti dall'art. 2059 c.c. (contra Cass. 15 luglio 2014, n. 16133, secondo cui «la mera inclusione da parte del legislatore di un dato diritto/interesse nell'alveo del rimedio risarcitorio del danno non patrimoniale non si risolve, di per sé, nell'affermazione stessa di gravità della lesione del diritto/interesse medesimo e di serietà del danno che ne consegue»).

Resta il fatto che, per far scattare la tutela aquiliana, è necessario che un pregiudizio sia effettivamente venuto in essere. Viene quindi a rivelarsi ultroneo il richiamo di filtri destinati a scattare in termini selettivi, laddove la sussistenza di un danno non risulti (neppure in via presuntiva) dimostrata. Nella fattispecie in esame, i giudici di legittimità non avevano necessità di richiamare i criteri limitativi in questione, dal momento che il ricorrente non aveva allegato la ricorrenza di alcuna compromissione a proprio carico quale conseguenza dell'illecito patito. (Un analogo improprio richiamo ai criteri della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio è riscontrabile in Cass., 3 marzo 2015, n. 4231, relativamente a un caso ove veniva addirittura esclusa l'illiceità del trattamento dei dati personali, per cui non si poneva in radice alcun problema di responsabilità).

Resta da segnalare che molti dubbi si addensano intorno ai filtri selettivi in questione; una sostanziale ambiguità regna, soprattutto, in ordine al significato da attribuire al criterio della serietà del pregiudizio. A tale proposito, l'analisi delle indicazioni che si ricavano nelle sentenze di legittimità sembra evidenziare una sostanziale sovrapposizione fra tale parametro e l'accertamento di una concreta compromissione non patrimoniale in capo alla vittima dell'illecito. Così traspare, in effetti, nell'ordinanza in esame, ove si precisa che la serietà del danno va intesa quale perdita di natura personale effettivamente patita dal danneggiato. Un'indicazione del genere ricalca le considerazioni formulate dai giudici di legittimità nella sentenza n. 16133/2014: pronuncia che riconosce come il criterio in questione si appunti sull'effettività della perdita subita – in quanto il pregiudizio non serio esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione che pur abbia superato la soglia dell'offensività – e, applicando tale indicazione in materia di trattamento dei dati, rileva che l'art. 15 Cod. Privacy, prevedendo la risarcibilità del danno non patrimoniale, «lascia impregiudicato il profilo della sussistenza, o meno, di una perdita (non patrimoniale), effettivamente subita dal danneggiato, non esibendo ulteriori indici significativi dai quali possa evincersi che l'interpositio legislatoris sia giunta sino a configurare un danno in re ipsa». Tali considerazioni rendono evidente come la serietà del danno non venga intesa come criterio selettivo applicabile a fronte di pregiudizi accertati in capo alla vittima dell'illecito, bensì quale indicazione volta a sancire la necessità di verificare la ricorrenza a suo carico di concrete compromissioni non patrimoniali provocate dal torto.

In buona sostanza – in materia di illecito trattamento dei dati - un conto è affermare che la violazione delle regole previste dall'art. 11 Cod. Privacy non implica di per sé la ricorrenza di un danno, la sussistenza del quale dovrà quindi essere provata; altro è stabilire che, pur essendo accertato un effettivo pregiudizio, questo non sarà risarcibile in quanto collocato sotto la soglia della serietà. Poiché le considerazioni dei giudici di legittimità sembrano inclini a collocarsi nella prima prospettiva, appare inutile – nonché deviante – far capo a quest'ultimo criterio.

Più in generale, si tratta di osservare come il richiamo, da parte dei giudici di legittimità, dei filtri limitativi introdotti dalle Sezioni Unite – sulla base dell'idea che esista una soglia di tollerabilità del pregiudizio, sotto la quale lo stesso non risulterebbe risarcibile - finisca, nella gran parte dei casi, per costituire un mero espediente retorico, utilizzato con il solo scopo di ribadire l'irrisarcibilità di un danno la cui sussistenza non risulta essere stata dimostrata (v., ad esempio, Cass. 13 gennaio 2016, n. 349, relativa alla lesione della reputazione lamentata da un carabiniere, a seguito della notifica di un verbale di contestazione per violazione del codice della strada sulla base di un errore di identificazione) ovvero per escludere la tutela risarcitoria in ipotesi in cui manchino addirittura i presupposti per poter qualificare il comportamento che ha generato il pregiudizio nei termini di illecito (V. Cass. 16 dicembre 2014, n. 26367, che richiama i criteri in questione per confermare il rigetto della domanda di risarcimento per il disagio provocato dalla lunga attesa, in una piazzola autostradale, del mezzo deputato al rifornimento di carburante, a causa di un guasto dello stesso).

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