La liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di chance di sopravvivenza in favore dei superstiti

Cristiano De Giovanni
11 Ottobre 2016

In caso di decesso della vittima da ricondursi ad attività medica per l'omessa diagnosi di un processo morboso terminale, sussiste la legittimazione ad agire iure hereditatis in capo ai parenti superstiti per vedersi risarcire il danno da perdita di chance di sopravvivenza da liquidarsi in via equitativa ex art 1226 c.c..
Massima

In caso di decesso della vittima da ricondursi ad attività medica per l'omessa diagnosi di un processo morboso terminale, sussiste la legittimazione ad agire iure hereditatis in capo ai parenti superstiti per vedersi risarcire il danno da perdita di chance di sopravvivenza la cui liquidazione, in via equitativa ex art 1226 c.c., deve essere fatta dal giudice tenendo conto dell'età e delle patologie complessive di cui soffriva il de cuius, considerando che il danno derivante dalla perdita di un congiunto viene compensato, utilizzando l'importo minimo dei parametri c.d. del Tribunale di Milano e che la liquidazione del danno da perdita di chance di aspettativa di vita deve ovviamente essere inferiore a quella minima prevista per il danno della perdita della vita stessa ed essere ragionevolmente minore della metà di tale danno.

Il caso

La controversia ha come oggetto la richiesta di risarcimento dei danni per la perdita di chance di sopravvivenza formulata dagli eredi (l'attore quale fratello e le intervenute quali eredi di altro germano) per il decesso di un soggetto cagionato da una infezione contratta dopo il trattamento odontoiatrico presso uno studio medico e il successivo ricovero presso strutture sanitarie.

Nel corso del giudizio è stata espletata CTU che ha escluso la riconducibilità dell'infezione al trattamento odontoiatrico eseguito dal professionista (tanto che l'attore e le intervenute hanno rinunciato alla domanda proposta contro lo stesso con conseguente dichiarazione di cessazione della materia del contendere sul punto da parte del Tribunale) mentre sono emersi elementi di censura quanto alla condotta del personale sanitario dell'Ospedale ove era stato ricoverato il paziente per il mancato trasferimento del medesimo in un reparto di terapia intensiva e di rianimazione con conseguente accertamento che, anche se fosse stata eseguita la condotta omessa, le chances di sopravvivenza non sarebbero state superiori al 25% in quanto lo shock settico e la connessa sindrome da insufficienza multiorgano risultano associate a prognosi infausta.

La questione

La questione in esame è la seguente: accertata la sussistenza di una condotta negligente del medico cui consegua un evento mortale - che è esito certamente infausto della malattia cui era affetta la vittima -, i superstiti possono agire per ottenere, iure hereditatis, la liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di sopravvivenza?

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza in commento il Tribunale - dichiarata cessata la materia del contendere quanto alla posizione del medico, avendo l'attore e le intervenute dichiarato di rinunciare, all'esito della espletata CTU, alla domanda proposta nei confronti del medico - ha accolto la domanda di condanna nei confronti dell'Azienda Sanitaria Locale napoletana.

Il convincimento giudiziale sotteso alla pronuncia in commento trae linfa dai principi enunciati dalla sentenza della Sezione III della Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, sent., 27 marzo 2014, n. 7195).

Quest'ultima, in tema di danno da perdita di chance di sopravvivenza, ha concluso come generi una ipotesi risarcitoria l'errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l'esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.

I punti essenziali del ragionamento della Suprema Corte sono i seguenti:

  • il danno non patrimoniale da perdita di chance di sopravvivenza sussiste tutte le volte in cui il superstite, nonostante l'evento morte sarebbe stato ineluttabile pur in presenza di una condotta ineccepibile dei sanitari, si dolga del fatto che l'accertato erroneo intervento chirurgico abbia fatto perdere al paziente le possibilità di sopravvivenza che le sarebbero spettate se l'intervento fosse stato eseguito correttamente;
  • l'indagine sul piano eziologico implica che il termine di riferimento della causalità ai fini dell'individuazione dell'evento dannoso non è la morte, e, per contro, la mancata guarigione del paziente ma piuttosto la perdita della possibilità, da parte di questo ultimo, di vedere rallentato il decorso della malattia e quindi aumentata la durata della sopravvivenza. La perdita di questa possibilità è l'evento di danno lamentato dai superstiti;
  • il modello d'indagine del nesso causale in caso di perdita di chance è si fondato sulla regola probatoria c.d. del "più probabile che non" (secondo l'insegnamento consolidato di cui alla pronuncia Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576) ma va inteso nel senso che è l'evento perdita di chance a costituire il termine di riferimento della causalità, quale evento di danno risarcibile: una volta individuata una chance, per definizione consistente in mera possibilità (la cui esistenza sia però provata, sia pure in base a dati scientifici o statistici) va indagato il nesso causale della perdita di tale possibilità con la condotta riferita al responsabile, prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance a realizzare il risultato sperato ma reputandola di per sè come "bene", cioè un diritto attuale autonomo e diverso dagli altri, ivi compreso il diritto alla salute;
  • il ragionamento sul piano eziologico va certamente effettuato in termini probabilistici ma al solo scopo di indagare il rapporto tra la situazione fattuale e la perdita della possibilità del risultato utile, vale a dire nel compiere quella che è l'attività di "accertamento" del nesso di causalità materiale così come connotata in ambito civile, con applicazione della detta regola c.d. del "più probabile che non": evento di danno e conseguenze dannose astrattamente risarcibili coincidono, poiché altro è la perdita di chance intesa come danno in sé risarcibile e altro è il danno da perdita di chance, quale conseguenza dannosa risarcibile di un diverso evento di danno, dato dalla lesione di altro bene giuridico (come potrebbe essere il diritto alla salute).

Pertanto applicando queste coordinate nella ipotesi di responsabilità medica e, in specie, di quella per intervento terapeutico o chirurgico errato, occorre verificare se questo abbia determinato la perdita della possibilità di vivere più a lungo, anche soltanto per poco tempo e una volta accertato il nesso causale tra l'errore medico ed il mancato rallentamento della progressione della malattia o comunque tra l'errore medico e l'accorciamento della possibile durata della vita la perdita di questa chance è risarcibile, quale entità a sè, giuridicamente ed economicamente valutabile.

La percentuale astratta di realizzabilità della chance (nel caso di cui alla sentenza in commento pari al 25% per ciascuna parte istante) è oggetto di indagine solo una volta che occorra addivenire alla quantificazione del risarcimento.

Nel giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance assumono, infatti, rilievo sia l'aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato e sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato.

La liquidazione del danno eventuale non potrà che essere rapportata alla riduzione del periodo di sopravvivenza provocata dall'errore medico, nonché alla percentuale di possibilità astratta di conseguire il risultato massimo raggiungibile, data la situazione concreta: nel caso di cui alla sentenza in commento il CTU ha concluso che il paziente fosse in condizioni cliniche talmente gravi che, seppur trasferito in terapia intensiva e/o rianimatoria le chances di sopravvivenza non sarebbero state superiori al 25% in quanto lo shock settico e conseguente sindrome da insufficienza multiorgano sono associate a prognosi infausta.

Sulla base di tali premesse l'estensore della pronuncia in commento ha, in primis, ricordato che la richiesta risarcitoria sottesa alla perdita di chances di sopravvivenza è domanda distinta e diversa da quella relativa ai danni cagionati dalla morte della vittima come ha precisato la giurisprudenza secondo la quale “la domanda di risarcimento del danno da perdita delle chance di guarigione di un prossimo congiunto, in conseguenza di una negligente condotta del medico che l'ebbe in cura, deve essere formulata esplicitamente, e non può ritenersi implicita nella richiesta generica di condanna del convenuto al risarcimento di "tutti i danni" causati dalla morte della vittima” (Cass. civ., sez. III, 29 novembre 2012, n. 21245).

In secundis ha evidenziato – sul presupposto che il danno da perdita di chance di sopravvivenza spetta anche al malato terminale- che il malato ha diritto a mantenere integre le proprie chances di sopravvivenza essendo la chance un bene intermedio tra quello della vita e quello della salute: bene che è dotato di autonoma rilevanza giuridica rispetto al risultato utile prefigurato.

Pertanto se è vero che gli eredi non possono vantare un danno non patrimoniale connesso alla perdita del proprio congiunto a seguito della omissione medica attesa la impossibilità di formulare un giudizio prognostico - condotto secondo la regola del più probabile che non - sul fatto che la corretta esecuzione della prestazione sanitaria avrebbe evitato il decesso, è altrettanto vero che, a seguito dell'errore medico, una lesione di chance si è realizzata perché l'omessa diagnosi del processo morboso terminale ha anticipato l'esito definitivo dello stesso così facendo venire meno la possibilità di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita nonché la chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli effettivamente vissuti.

In ordine alla quantificazione del danno il Tribunale ha fatto ricorso al potere equitativo di cui all'art. 1226 c.c. liquidando per ciascuna parte istante l'importo di € 20.000,00 a titolo di danno non patrimoniale da perdita di chance di sopravvivenza del comune parente deceduto tenendo conto della età e delle patologie complessive di cui soffriva il de cuius, considerando che il danno derivante dalla perdita di un congiunto viene compensato, utilizzando l'importo minimo dei parametri c.d. del Tribunale di Milano e evidenziando che la liquidazione del danno da perdita di chance di aspettativa di vita deve ovviamente essere inferiore a quella minima prevista per il danno della perdita della vita stessa ed essere ragionevolmente minore della metà di tale danno.

Osservazioni

Per un corretto accertamento del danno non patrimoniale in esame occorre, in primo luogo, soffermarsi sul concetto di chance.

È ormai un dato pacifico che la chance rappresenta una aspettativa qualificata e cioè una posizione giuridica automa che può definirsi come lesione della concreta occasione favorevole di conseguire un determinato bene, occasione che non è mera aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione: bene giuridico che è qualcosa di diverso e distinto tanto dal bene “vita” quanto da quello “salute”.

Secondo un primo approccio interpretativo giurisprudenziale (c.d. tesi ontologica) la chance deve essere ricondotta nella voce del danno emergente risolvendosi la stessa nella mera possibilità di conseguire un vantaggio economico o comunque un risultato utile sicché la probabilità di verificazione dell'utilità incide solo sul quantum risarcitorio e non sull'an (Cass. civ., sez. III, 14 giugno 2011, n. 12960) .

Sul piano eziologico, dal momento che la prova della chance non attiene più al legame eziologico tra condotta ed evento ma concerne la consistenza percentuale di un bene già presente nel patrimonio del soggetto, sarà necessario, dapprima, accertare il nesso causale tra lesione e perdita di opportunità favorevole e, una volta risultato ciò, si potrà valutare la sussistenza della ragionevole probabilità della verificazione del danno inteso come perdita chance.
Secondo altra tesi interpretativa della giurisprudenza (c.d. tesi eziologica) la chance deve essere intesa in termini di lucro cessante di modo da riconoscernela risarcibilità solo quando l'occasione perduta si presenta, se valutata con prognosi postuma, assistita da ‘considerevoli possibilità di successo' o ‘ragionevole probabilità di verificarsi' da accertarsi anche mediante ricorso a presunzioni (Cass. civ., sez.III, 11 maggio 2010, n. 11353): la perdita di una chance favorevole non costituisce un danno di per sé, ma soltanto - al pari del danno da lucro cessante - se la chance perduta aveva la certezza o l'elevata probabilità di avveramento, da desumersi in base ad elementi certi ed obiettivi (Cass. civ., sez. III, 10 dicembre 2012, n. 22376).

Ebbene la giurisprudenza, per quanto concerne l'ambito della responsabilità medica e i conseguenti spazi risarcitori, ha fatto ricorso proprio alla chance per ampliare le ipotesi di ristoro dei danni subiti dal paziente: in specie, a quelli derivanti dalla morte del medesimo nel senso che, seppure l'evento mortale risulti essere conseguenza della malattia, se la condotta del medico ha ridotto le possibilità di sopravvivenza del paziente trattasi di una utilità giuridicamente rilevante che deve essere apprezzata e, quindi, risarcita mediante trasmissione del relativo diritto agli eredi.

L'adesione a l'una o all'altra tesi implica effetti diversi anche sul piano probatorio:

  • nell'ottica ontologica, l'onere probatorio, posto a carico del danneggiato (e, quindi, degli eredi come nel caso di cui alla sentenza in commento) è meno gravoso poiché colui che agisce in giudizio deve dimostrare, sia pure per presunzioni, nei limiti di cui all'art. 2729 c.c., che se l'omesso intervento o la mancata diagnosi fossero stati correttamente eseguiti avrebbero senz'altro inciso positivamente sulla durata della vita del paziente e/o miglioratone la qualità (in ciò consistendo la perdita di chance risarcibile) poiché il nesso di causalità non subisce interferenze in quanto la prova stessa deve riguardare la consistenza percentuale di un bene già presente nel patrimonio del soggetto. Di conseguenza il legame eziologico va interpretato secondo il criterio del “più probabile che non” e cioè alla luce di una regola di giudizio che deve però essere integrata dai dati della comune esperienza evincibile dalla osservazione dei fenomeni sociali.
  • secondo la tesi eziologica il danno da perdita di chance è risarcibile purché risulti dimostrato sia il nesso di causalità sia la ragionevole probabilità del suo verificarsi, in base a circostanze certe e puntualmente dedotte.

Resta inteso che eventuali deficienze probatorie e la conseguente difficoltà di provare l'esistenza della possibilità di successo non possono essere colmate facendo ricorso alla valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. perché l'applicazione di tale norma ha quale presupposto che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile, ed è diretta a sopperire all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno (Cass. civ., sez. L, 24 gennaio 1992, n. 781).

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