Responsabilità degli amministratori: il giudice non può valutare, a posteriori, l'opportunità e la convenienza delle scelte di gestione

Claudio Tatozzi
12 Febbraio 2015

Il giudice, investito di un'azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori di una società di capitali, non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione censurati, valutandone l'opportunità o la convenienza. La gestione di una società di capitali, infatti, quale attività d'impresa, comporta un alto margine di rischio e richiede il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all'organo amministrativo in relazione alla scelta delle operazioni da intraprendere: se fosse possibile compiere una valutazione sull'opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un'ingerenza negli affari sociali, in pregiudizio all'autonomia ed indipendenza dell'organo amministrativo.
Massima

Trib. Trapani, 1° aprile 2014

Il giudice, investito di un'azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori di una società di capitali, non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione censurati, valutandone l'opportunità o la convenienza. La gestione di una società di capitali, infatti, in quanto attività d'impresa, comporta fisiologicamente un alto margine di rischio e richiede il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all'organo amministrativo in relazione alla scelta delle operazioni da intraprendere: se fosse possibile compiere una valutazione sull'opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un'ingerenza negli affari sociali, in pregiudizio all'autonomia ed indipendenza dell'organo amministrativo. La sussistenza di una responsabilità degli amministratori non può essere affermata sulla sola base delle conseguenze dannose derivante dalle loro scelte discrezionali di gestione, atteso che il nostro sistema giuridico non impone agli amministratori l'obbligo di amministrare anche con successo economico la società loro affidata.

Sintesi del fatto

La società attrice - una s.p.a. attiva nel settore del trasporto aereo, cui è subentrata in corso di causa la curatela del relativo fallimento, intervenuto medio tempore - aveva convenuto innanzi il Tribunale uno dei componenti del proprio organo amministrativo, per sentirne dichiarare la responsabilità ai sensi degli artt. 2393, 2392 c.c. in ragione di taluni fatti di asserita mala gestio. Per quanto il quadro fattuale degli addebiti mossi all'amministratore risulti ricostruito in modo piuttosto generico, si evince che le contestazioni sollevate sono attinenti alla stipula, e alla successiva esecuzione e gestione, da parte del convenuto, di un "contratto di gestione commerciale" con un altro vettore aereo, nell'ambito di una operazione commerciale più ampia, che si sarebbe risolta in una perdita economica per l'attrice. Il Giudice, all'esito dell'istruttoria svolta, ha accertato che l'operazione commerciale, contrariamente a quanto affermato dall'attrice, non risultava aprioristicamente priva della possibilità di generare "un ritorno economico" alla società, né senz'altro idonea a determinare "una sproporzione tra debiti e crediti" nei rapporti con la controparte contrattuale.

La questione

Al di là dell'esito degli accertamenti in fatto compiuti dal giudicante, il Tribunale di Trapani ha posto a fondamento della reiezione dell'azione ex art. 2393 c.c. la risoluzione in senso negativo della questione giuridica inerente la possibilità astratta, per la società, di sindacare in sede giudiziale l'opportunità e la convenienza di scelte di gestione rivelatesi ex post foriere di una perdita economica.

Le soluzioni giuridiche

Con la pronuncia annotata il Tribunale di Trapani aderisce a quello che ormai si può considerare un consolidato orientamento giurisprudenziale (nella giurisprudenza di legittimità: Cass., 27 dicembre 2013, n. 28669; Cass., 16 maggio 2013, n. 11994; Cass., 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 12 agosto 2009, n. 18231; Cass., 22 aprile 2009, n. 9619; Cass., 28 aprile 1997, n. 3652; nella giurisprudenza di merito: Trib. Milano, 24 agosto 2011, in Società, 2012, 5, 493; Trib. Milano, 3 giugno 2008, Trib. Milano, 10 giugno 2004, in Dir. e prat. soc., 2005, 6, 80; Trib. Milano, 29 maggio 2004, in Giur. it., 2004, 2333; Trib. Milano, 14 aprile 2004, in Giur. it., 2004, 1897; Trib. Milano, 20 febbraio 2003, in Giur. milanese, 2003, 221), secondo cui, nei casi in cui l'amministratore non risulti essersi reso colpevole di violazioni dei doveri a contenuto specifico che la legge espressamente gli impone (sulla nota bipartizione dogmatica tra i doveri a contenuto specifico e i doveri a connotazione aperta degli amministratori - tra i quali rientra quello di cui all'art. 2392 c.c. - cfr., per tutti, F. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 162), il giudizio sulla diligenza di quest'ultimo nell'adempimento del proprio mandato, prescritta dall'art. 2392 c.c., non può mai investire il merito delle scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere. Detta regola di giudizio è comunemente denominata, come noto, business judgment rule (da ultimo, D. Cesiano, L'applicazione della “Business Judgement Rule” nella giurisprudenza italiana, in Giur. comm., 2013, II, 943 e ss., ove ampli riferimenti dottrinali e giurisprudenziali). Corollario della business judgment rule è l'ormai ricorrente affermazione, da parte della giurisprudenza, del principio secondo cui l'amministratore incorre in responsabilità soltanto se l'operazione foriera di perdite costituisce il risultato di un'omissione, da parte dell'organo gestorio, «di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità» (così anche le motivazioni della sentenza in commento, che mutua una massima tralatizia nella giurisprudenza di legittimità; cfr., per tutte, Cass., 12 febbraio 2013, n. 3409).

La dottrina specifica che il rispetto del dovere di gestire la società con diligenza può essere sindacato valutando non l'opportunità e la convenienza della scelta gestoria da un punto di vista imprenditoriale e tecnico-economico, ma soltanto, previa adozione di una prospettiva ex ante, la rispondenza del processo decisionale che la ha preceduta a taluni canoni. Si ritiene, infatti, che l'iter deliberativo di ogni atto di gestione, per andare esente da censure, deve essere caratterizzato:

  1. dallo svolgimento di una istruttoria adeguata alla tipologia dell'operazione;
  2. dall'adozione di schemi procedimentali che, nel caso concreto, un amministratore con quell'incarico e con quelle specifiche competenze avrebbe dovuto adottare;
  3. dal rispetto di canoni di razionalità e ragionevolezza (Si, vedano, nella dottrina più recente, i contributi di C. Angelici, Diligentia quam in suis e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2006, 675; S. Cassani, Responsabilità degli amministratori ex art. 2392 c.c. e onere della prova, in Società, 2012, 5, 493; M. Bodellini, Ancora sui criteri di accertamento e di valutazione della condotta degli amministratori, in Giur. comm., 2011, 5, 1187; M. Cordopatri, La business judgment rule in Italia e il privilegio amministrativo: recenti correttivi negli USA e in Europa, in Giur. comm., 2010, 1, 129; A. Vicari, I doveri degli organi sociali e dei revisori in situazioni di crisi di impresa, in Giur. comm., 2013, 1, 128).
Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

L'analisi delle motivazioni rese dal Tribunale di Trapani nella sentenza in commento consente di svolgere alcune brevissime considerazioni circa due profili delle (non numerose) azioni ex art. 2393 c.c. con le quali l'attore deduce la sola violazione, da parte dell'amministratore, del dovere di gestire diligentemente la società, ai sensi dell'art. 2392 c.c.

Il primo rilievo muove dalla constatazione che il Tribunale, pur affermando in astratto il principio dell'insindacabilità delle scelte di gestione dell'amministratore, pare essersi comunque premurato di indagare se l'operazione commerciale censurata non fosse tale da rendere aprioristicamente impossibile un "ritorno economico per la società attrice" o fosse idonea a generare una "sproporzione tra debiti e crediti" nei rapporti con la controparte contrattuale, concludendo tale propria indagine in senso negativo. Nonostante siffatta valutazione, nell'economia dell'impianto motivazionale della sentenza, sembrerebbe essere stata resa solo ad abundantiam, essa pare significativa della difficoltà di stabilire in concreto quando si sia in presenza di un sindacato (vietato) sull'opportunità e la convenienza della scelta gestoria, e quando invece la censura mossa all'amministratore (e la successiva valutazione giudiziale della stessa) attenga alla diligenza osservata da quest'ultimo nell'adottare «quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità». Delimitare l'ambito dei due giudizi appare poi particolarmente arduo quando viene invocato il parametro valutativo della diligenza costituita dalla cosiddetta "ragionevolezza" delle scelte gestorie (Sul parametro della ragionevolezza si veda A. Nigro, 'Principio' di ragionevolezza e regime di responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2013, I, 457 ss.), il cui utilizzo nei giudizi sulla responsabilità degli amministratori, se, da un lato, pare irrinunciabile per non mandare esenti da responsabilità soggetti che compiano operazioni palesemente irrazionali, dall'altro lato, può fungere da grimaldello per scardinare la business judgment rule (al riguardo A. Tina, L'esonero da responsabilità degli amministratori di S.p.A., Milano, 2008, 79; A. Arrigoni, La responsabilità sociale degli amministratori tra regole e principi, in Giur. comm., 1990, II, 151.). Senza pretese di approfondire una tematica che meriterebbe ben altri spazi, ci si limita in questa sede a rilevare che, in giurisprudenza e in dottrina, la tendenza che si va affermando è quella di ancorare il parametro della razionalità al parametro dell'istruttoria adeguata (D. Cesiano, L'applicazione della “Business Judgement Rule” nella giurisprudenza italiana, cit., 957 ss.); con la conseguenza che il giudice dovrebbe considerare irrazionali (e dunque non diligenti) quelle scelte dell'amministratore incoerenti con i risultati dell'istruttoria che lo stesso avrebbe avuto il dovere di compiere prima di deliberare l'operazione foriera di perdita.

Il secondo rilievo concerne un altro passaggio della motivazione della sentenza, nella quale si legge che l'omissione da parte del convenuto dell'adozione di cautele, verifiche e informazioni adeguate risulta “indimostrata nel caso di specie”. Anche se il punto non è stata approfondito, parrebbe che il Tribunale abbia implicitamente ritenuto che sarebbe stato onere dell'attrice dimostrare l'omissione, da parte dell'amministratore, dell'adozione di un corretto iter deliberativo, e che, per converso, non competa al convenuto l'incombente di fornire la prova di avere svolto un'istruttoria adeguata e di avere agito coerentemente con i risultati di quest'ultima. Il principio implicitamente applicato nella sentenza risulta affermato in modo più diretto da altre pronunce (Secondo Trib. Milano, 24 agosto 2011, cit., quando i comportamenti contestati all'amministratore «non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l'obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell'adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l'illecito è integrato dal compimento dell'atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella prova dell'atto compiuto dall'amministratore ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza».), che hanno declinato alla particolare fattispecie di cui all'art. 2392 c.c. il paradigma della ripartizione dell'onere della prova nella responsabilità contrattuale.

Le osservazioni sin qui svolte consentono di abbozzare un brevissimo quadro, in ottica processualistica, degli elementi che devono sussistere perché l'amministratore possa essere chiamato a rispondere – in assenza di violazioni ai doveri legislativi e statutari a contenuto specifico - di una scelta gestionale foriera di danno alla società. In particolare, si può ipotizzare (adottando uno schema per forza di cose astratto e semplificato) che la condotta dell'amministratore si potrà ritenere non conforme alla diligenza prescritta dall'art. 2392 c.c., allorquando la parte attrice alleghi e dimostri:

  • l'esistenza oggettiva di un contesto fattuale, in epoca precedente all'operazione, incompatibile o difficilmente compatibile, secondo canoni di ragionevolezza e prevedibilità, con la possibilità che l'operazione censurata potesse sfociare in un risultato coerente con il perseguimento dell'interesse sociale;
  • le caratteristiche dell'istruttoria e degli altri accorgimenti attraverso i quali l'amministratore avrebbe potuto avere conoscenza, in epoca precedente all'operazione, di siffatto contesto fattuale e di prevedere le sue implicazioni future;
  • soprattutto, la compatibilità dell'istruttoria e degli accorgimenti così individuati con quelli normalmente esigibili da un amministratore per operazioni della tipologia di quella censurata; la razionalità univoca dell'iter logico che dalla conoscenza del contesto fattuale anteriore all'operazione, e dalla prevedibilità delle sue implicazioni future, avrebbe dovuto portare alla decisione di non deliberarla o di strutturarla in modo diverso;
  • l'allegazione del mancato rispetto da parte dell'amministratore dell'iter deliberativo così individuato.

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