Danno da nascita indesiderata e inapplicabilità del concorso del fatto colposo del creditore

12 Febbraio 2016

Non trova applicazione in ambito medico, il principio noto come concorso del fatto colposo del creditore previsto dal secondo comma dell'art. 1227 c.c., precisamente nel caso in cui la paziente per evitare i danni derivanti dall'omissione colposa del medico si trovi costretta a ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza.
Massima

Non trova applicazione in ambito medico, il principio noto come concorso del fatto colposo del creditore previsto dal secondo comma dell'art. 1227 c.c., precisamente nel caso in cui la paziente per evitare i danni derivanti dall'omissione colposa del medico si trovi costretta a ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza.

Tale principio della contrattualistica esclude la risarcibilità per i danni occorsi al creditore ove questi avrebbe potuto evitarli usando l'ordinaria diligenza; connotato quest'ultimo da intendersi quale condotta non gravosa oltre modo o non eccezionale per il danneggiato-creditore.

Ebbene, tale assunto, nel caso di specie - ove non disatteso - comporterebbe per la gestante un evidente e notevole sacrificio alla salute e al suo diritto di autodeterminazione.

Indubbio è, pertanto, come tale condotta esuli dalle attività di ordinaria diligenza afferenti al novero di cui all'art. 1227 c.c..

Il caso

La Sig.ra ... ed il Sig. ..., in occasione della nascita del loro quinto figlio, non volendone altri, comunicavano al ginecologo la volontà di procedere, contestualmente al programmato taglio cesareo, all'intervento di sterilizzazione tubarica sottoscrivendo in tal senso l'apposito modulo del consenso informato.

In seguito, però, la Sig.ra … rimaneva nuovamente incinta non essendo stato eseguito l'ulteriore intervento richiesto. Nonostante ciò, la donna decideva comunque di portare a termine anche la sesta gravidanza, che inevitabilmente avrebbe comportato un peggioramento della situazione economica familiare, esponendo altresì la madre ad un elevato stress fisico e mentale.

A seguito di quanto accaduto, la coppia decideva di convenire in giudizio, innanzi al Tribunale di Reggio Emilia, l'Azienda USL per sentirla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, da questi sofferti a causa della nascita indesiderata del sesto figlio.

Costituitasi in giudizio, l'Azienda USL contestava la fondatezza di tali pretese risarcitorie adducendo che all'atto del “prericovero” la paziente non aveva formulato la richiesta di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica, eccependo inoltre che, in ogni caso, dalla lettera di dimissioni emergeva chiaramente il fatto che tale intervento non era stato eseguito ed, infine sosteneva, inoltre, come l'attrice, scoperta la gravidanza nel dicembre 2008, ben avrebbe potuto ricorrere all'interruzione volontaria della stessa ai sensi della L. n. 194/1978.

Con sentenza del 7 ottobre 2015, il Tribunale di Reggio Emilia dichiarava la responsabilità della convenuta Azienda USL di Reggio Emilia per i danni patiti dagli attori condannandola al pagamento, in favore dell'attrice a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma di Euro 20.000,00 nonché al pagamento in favore di entrambi gli attori dell'ulteriore somma di Euro 82.800,00 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, il tutto all'attualità, oltre interessi e il rimborso delle spese di lite.

La questione

La paziente danneggiata dall'omessa esecuzione dell'intervento di sterilizzazione tubarica, da lei richiesto ed autorizzato, è tenuta a sottoporsi all'interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguiti all'inadempimento del medico?

In altre parole, in caso di nascita indesiderata, il mancato ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza rileva ai sensi dell'art. 1227 c.c.?

Le soluzioni giuridiche

Ciò che rende interessante la pronuncia in oggetto è la linea difensiva adottata da parte convenuta, ovvero, la reputata esigibilità ed idoneità, per evitare i danni lamentati da parte attrice, della condotta che la stessa, una volta venuta a conoscenza della sesta gravidanza, avrebbe dovuto adottare, ossia «ben avrebbe potuto legittimamente ricorrere, in forza delle disposizioni della L. n. 194/1978, all'interruzione di gravidanza».

In sentenza tale assunto viene però disatteso dal Tribunale, il quale, allineandosi a pronunce precedenti (Trib. Venezia, 10 settembre 2002) e riaffermando la legittimità dell'intervento abortivo nel nostro ordinamento, dichiara l'infondatezza di una siffatta argomentazione negando vibratamente la facoltà di annoverare l'interruzione volontaria della gravidanza tra i comportamenti di ordinaria diligenza che, ai sensi del secondo comma dell'art. 1227 c.c., si considerano per il danneggiato non gravosi ed idonei ad evitare il danno patito.

Siffatta argomentazione sfocia pertanto nella presente pronuncia, a tenore della quale la procedura abortiva ove imposta alla gestante, quale comportamento dovuto, sacrifica indubbiamente i diritti della personalità della stessa, quali precisamente il diritto alla salute e il diritto alla libertà di autodeterminazione.

Tralasciando profili oramai consolidati in ambito di responsabilità medica, quali la natura contrattuale del rapporto struttura-paziente e medico-paziente ed il relativo riparto dell'onere probatorio (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577), il punto focale della pronuncia in oggetto è il diritto di autodeterminazione della madre, o meglio di entrambi i genitori, alla scelta dell'esercizio del proprio diritto alla genitorialità, la cui eventuale lesione può comportare il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata.

Si pone, pertanto, il problema dell'ipotizzabilità di una tutela risarcitoria connessa alla nascita indesiderata in un caso diverso da quello tipico della nascita di feto malformato, ovvero nell'ipotesi in cui ad essere lesa è la facoltà della coppia di decidere liberamente e coscientemente se procreare oppure no.

Fatte tali considerazioni, il primo riferimento normativo è la legge sull'aborto (L. 22 maggio 1978, n. 194), che ha introdotto nel nostro ordinamento il (controverso) diritto della donna di interrompere volontariamente la gravidanza al sussistere di determinati presupposti (più rigorosi quanto maggiore è il decorso di gestazione).

Si consideri che «Nel bilanciamento, quindi, tra il valore e la tutela della salute della donna e la tutela del concepito, la legge permette alla madre di autodeterminarsi, in presenza delle condizioni richieste e del pericolo per la sua salute, a richiedere l'interruzione della gravidanza». […] Ne consegue, che l'aborto non è l'esercizio di un diritto della gestante, ma un mezzo concesso a lei (e solo a lei) per tutelare la sua salute o la sua vita, sopprimendo un altro bene giuridico protetto (il diritto a nascere del concepito).(Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488).

Lasciando ad altra più opportuna sede le riflessioni di natura etica e morale, ciò che rileva è come l'intero impianto normativo della legge cit., seppur da un lato legittimi il diritto della gestante a ricorrere alla procedura abortiva (senza creare un mezzo di controllo delle nascite c.d. l'aborto eugenetico, v. Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2004, n. 14488) -, dall'altro deponga per il diritto alla procreazione cosciente e responsabile dei genitori, sancendo il c.d. diritto alla genitorialità (v. art. 1, L. 22 maggio 1978, n. 194).

Tale ulteriore diritto, infatti, consiste nella possibilità della coppia di decidere liberamente se e quando concepire un figlio, quale espressione del diritto inviolabile della libertà personale sancito all'art. 13 della Carta Costituzionale.

Indubbia è pertanto la distinzione tra il diritto alla genitorialità e quello all'interruzione volontaria della gravidanza, sul punto ci si affida alla chiarezza del passaggio della sentenza in esame (p. 5 di 11) che riporta: «D'altra parte, altro è la scelta di non procreare, altro è quella di porre termine ad una gravidanza già in corso, decisione quest'ultima che risulta carica di ripercussioni, fisiche e psicologiche, per la donna».

Fatte tali precisazioni, si può facilmente evincere dalla pronuncia in oggetto come gli interessi personalissimi in gioco, quali la salute e la libertà di autodeterminazione, vadano pacificamente a precludere l'applicabilità, nel caso de quo, del principio contrattualistico del concorso del fatto colposo del creditore (ex art. 1227, comma 2, c.c).

Ciò appare ancor più evidente ove si esamini tale principio nel suo consueto habitat, ovvero quello contrattualistico, che impone quale condizione per il ristoro dei danni patiti dal danneggiato, l'inevitabilità degli stessi mediante la propria condotta; in altre parole, al creditore-danneggiato non spetterebbe alcun maggior ristoro ove attivandosi, nei limiti dell'ordinaria diligenza, avrebbe potuto evitare i danni patiti (condotta, così qualificata, ove non risulti per il danneggiato gravosa, eccezionale o comportante un notevole rischio o sacrificio).

Alla luce di tali considerazioni sembra pertanto indiscutibile la gravosità della condotta che imponga alla gestante-danneggiata il ricorso all'interruzione della gravidanza, perdendo tale scelta il proprio indiscutibile connotato di “volontarietà”, il tutto al solo fine di evitare i danni conseguenti alla nascita indesiderata del figlio occorsa a seguito dell'inadempimento del medico.

Da intendersi per danni c.d. da nascita indesiderata, quelli derivanti dalla condotta del sanitario che abbia causato la violazione del diritto dei genitori a non avere figli o a non portare a termine la gestazione di essi.

Paradossalmente, l'applicabilità di un siffatto principio al caso concreto andrebbe certamente a comprimere i diritti inviolabili della persona quali la salute e la libertà di autodeterminazione della gestante, se non persino di entrambi i genitori.

Corollario di ciò, è il problema della legittimazione attiva alla pretesa risarcitoria del padre, che oggi per giurisprudenza costante, è ammessa. In tal senso militano la c.d. propagazione intersoggettiva delle conseguenze di un medesimo fatto illecito (Cass., Sez. Un., 1 luglio 2002, n. 9556), nonché, la natura del rapporto medico-paziente quale contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi, da considerarsi tali i fratelli e il padre (cfr. Trib. Milano, sez. I, 31 marzo 2014, n. 3477).

Osservazioni

La pronuncia oggetto della presente disamina sembra, innanzitutto, ribadire l'oramai consolidato superamento della concezione paternalistica del rapporto medico-paziente in luogo della nuova alleanza terapeutica, la quale trova oggi la sua massima espressione nel consenso informato, quale estrinsecazione del diritto alla salute e all'autodeterminazione terapeutica riconosciuto e sancito anche dalla legislazione sovranazionale.

Nel merito, invece, si afferma l'esclusione dell'interruzione volontaria della gravidanza dal novero delle condotte di ordinaria diligenza idonee ad integrare il concorso del fatto colposo del creditore (ex art, 1227, comma 2, c.c.), avendo chiaro il discrimen tra danni evitabili non risarcibili e danni non evitabili, come tali risarcibili.

Corollario di tale considerazione, è la risarcibilità dei danni c.d. da nascita indesiderata da liquidarsi, ove comprovati, oltre che nei confronti della madre anche del padre, laddove la nascita indesiderata del figlio comporti un aggravio della situazione economica familiare.

Ciò detto, la presente disamina non può altresì esimersi dal compiere un'ulteriore necessaria osservazione, ovvero, che il giudizio di risarcibilità del danno c.d. da nascita indesiderata è strettamente correlato alla problematica giuridica del contenuto dell'onere probatorio e del suo corretto riparto in ordine volontà della gestante di interrompere la gravidanza.

Una siffatta tematica, infatti, va apprezzata tenendo in debito conto l'importanza che la prova del nesso di causalità assume in ambito medico, in particolare in peculiari ipotesi, come quella del caso di specie, in cui l'inadempimento del medico precluda alla donna di esercitare il diritto d'interruzione volontaria della gravidanza al sussistere dei presupposti legali.

Si consideri, infatti, che «non sono danni che derivano dall'inadempimento del medico quelli che il suo adempimento non avrebbe evitato: una nascita che la madre non avrebbe potuto scegliere di rifiutare; una nascita che non avrebbe in concreto rifiutato; la presenza nel figlio di menomazioni o malformazioni al cui consolidarsi non avrebbe potuto porsi al riparo durante la gravidanza in modo che il figlio nascesse sano” (Cass. civ., 10 maggio 2002).

Si deve ritenere pertanto, che il risarcimento del danno conseguito all'impossibilità di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza può essere riconosciuto alla gestante non per il solo fatto dell'inadempimento del sanitario ma ove la madre fornisca la prova della sussistenza dei presupposti legali per l'esercizio del diritto di cui alla L. 22 maggio 1978, n. 194 ed, in particolare, della propria volontà di esercitarlo.

Sul punto, a fronte dei diversi orientamenti giurisprudenziali formatisi (v. Cass. 6735/2002, contro Cass. civ. , 22 marzo 2013, n. 7269) è intervenuta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. civ, Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767, per approfondimento: M. Bona, Sezioni Unite n. 25767/2015 e danni da “wrongful birth”: quali punti fermi?; F. Martini, Le Sezioni Unite definiscono la disciplina del danno da “nascita indesiderata”; D. Spera, La gestante non è informata sulle gravi malformazioni del feto: le Sezioni Unite negano il risarcimento del danno al figlio nato affetto da sindrome di Down, in Ri.Da.Re. ), la quale proprio a risoluzione del contrasto sulla responsabilità medica per nascita indesiderata hanno affermato che «la madre è onerata della prova controfattuale della volontà abortiva ma può assolvere l'onere mediante presunzioni semplici».

Gli orientamenti contrastati in materia, infatti, pur muovendo entrambi dalla pacifica premessa che trattandosi di fatti costitutivi spetta alla gestante l'onere di dimostrare che l'accertamento di anomalie o malformazioni del feto l'avrebbero indotta all'interruzione della gravidanza e che tali elementi avrebbero generato nella gestante un pericolo per la sua salute fisica o psichica, divergono sull'individuazione del tipo, o meglio del contenuto della prova richiesta dalla madre (in tal senso ordinanza di rimessione alle Sez. Unite da parte della Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2015, n. 3569, Rel. Sestini)

Infine, una criticità che a mio parare potrebbe essere mossa alla presente pronuncia inerisce alla mancata applicazione del criterio della personalizzazione del danno, che dalle note Sentenze San Martino del 2008, per poi passare dalla nota pronuncia n. 17161 del 2012, costituisce il criterio risarcitorio garante del risarcimento del danno non patrimoniale nella sua globalità.

Se un figlio indesiderato è fonte di risarcimento dei danni, dubbi permangono in ordine all'individuazione e alla corretta liquidazione dei relativi danni.

Guida all'approfondimento
  • S. Rossi, La nascita indesiderata, da TRATTATI Il quantum nel danno esistenziale. Giurisprudenza e tabelle (pp.271-296), Giuffrè Editore;
  • G. Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, p. 282 ss.;
  • A. Ferrario, Il danno da nascita indesiderata, p. 32 ss., 2011, Giuffrè Editore;
  • M. Di Marzio, Alle Sezioni Unite la nascita indesiderata, in Ri.Da.Re.;

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