Il reato di atti persecutori e la questione di legittimità costituzionale per l’asserita lesione del principio di determinatezza/tassatività

Luigi Isolabella
12 Settembre 2014

Il principio di legalità stabilito dall'art. 25, comma 2, Cost., secondo cui nessuno può essere punito, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, implica una stretta riserva di legge, che postula la tassativa specificazione del fatto previsto come reato e l'indicazione della pena. Tale principio non è sempre attuato secondo un criterio di rigorosa descrizione del fatto, considerato che, in relazione ai fini che il legislatore deve perseguire, spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria o all'uso di espressioni normative di carattere indicativo, realizzando nel miglior modo possibile, l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato. Non è costituzionalmente fondata, e deve essere respinta, la questione di legittimità, sollevata con riferimento all'art. 25, comma 2, Cost., dell'art. 612-bis c.p., per violazione del principio di tassatività/determinatezza della fattispecie penale.
Massima

C. cost. 11 giugno 2014, n. 172

Il principio di legalità stabilito dall'art. 25, comma 2, Cost., secondo cui nessuno può essere punito, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, implica una stretta riserva di legge, che postula la tassativa specificazione del fatto previsto come reato e l'indicazione della pena. Tale principio non è sempre attuato secondo un criterio di rigorosa descrizione del fatto, considerato che, in relazione ai fini che il legislatore deve perseguire, spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria o all'uso di espressioni normative di carattere indicativo, realizzando nel miglior modo possibile, l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato. Non è costituzionalmente fondata, e deve essere respinta, la questione di legittimità, sollevata con riferimento all'art. 25, comma 2, Cost., dell'art. 612-bis c.p., per violazione del principio di tassatività/determinatezza della fattispecie penale.

Sintesi del fatto

Con ordinanza emessa in data 24 giugno 2013, il Tribunale ordinario di Trapani ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 612-bis, c.p., per violazione dell'art. 25,comma 2, Cost.

In particolare, il primo giudice ha ritenuto che la norma la cui legittimità è stata devoluta al giudizio della Consulta, non fosse sufficientemente rispondente al criterio di minima determinatezza della condotta intrusiva penalmente rilevante, giacché non risulterebbe sufficientemente specificato: “cosa debba intendersi per perdurante e grave stato d'ansia o di paura, così come in alcun modo definiti sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi fondato. Estremamente ampio ed eccessivamente elastico sarebbe poi il concetto di abitudini di vita, di cui il legislatore non avrebbe perciò sufficientemente individuato i confini”.

A fronte dell'ordinanza del giudice remittente, è intervenuta l'Avvocatura dello Stato, rilevando che la norma di cui all'art. 612-bis c.p., nei propri contenuti oggettivi e condottuali, sarebbe assai più specifica di altre fattispecie altresì codificate, quali, in species, il reato di minaccia (art. 612 c.p.) e molestia (art. 660 c.p.), delitti che, per tradizione interpretativa, non hanno mai subito rilievi di indeterminatezza confliggenti con l'art. 25, comma 2, Cost.

La questione

La questione in esame riguarda, dunque, la perimetrazione e verifica di rispondenza al criterio di tipicità e sufficiente determinatezza della fattispecie penale (corollari del cosiddetto principio di legalità) dell'art. 612-bis c.p., laddove l'ordinamento criminale, per l'intrinseca afflittività delle previsioni in esso contenute, non tollera, ma anzi limita, l'eccessiva discrezionalità valutativa del giudicante, discrezionalità speculare alla genericità e vaghezza dei contenuti precettivi.

Le soluzioni giuridiche

Come noto, l'ordinamento penale è retto dal fondamentale principio di legalità che trova, ed ha trovato, la propria estrinsecazione nell'art. 25, comma 2, Cost., secondo il quale, “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Fondamentale corollario ed estrinseca proiezione del principio di legalità è il cosiddetto principio di tassatività, o sufficiente determinatezza, della fattispecie penale, il cui scopo precipuo è quello di tutelare il cittadino -per il quale l'ordinamento penale deve predisporre modelli punitivi certi e definiti- contro eventuali abusi del potere giudiziario.

Solo una norma sufficientemente determinata, inoltre, può fungere da vero precetto per la comunità cui è rivolta e la cui vita sociale tende a regolamentare: se la norma penale persegue lo scopo di essere rispettata ed obbedita, infatti, simile telos intanto potrà essere raggiunto, in quanto il precetto legale sia tale, in termini di contenuto, da permetterne la piena comprensione e la conseguente osservanza (ed applicazione pratica).

In quanto tale, dunque, il principio di tassatività vincola il legislatore e lo condiziona nella tecnica redazionale delle norme penali: la disposizione imperativa, quindi, deve essere il più possibile precisa nella descrizione del “fatto-reato” (parte precettiva) e vincolante nella parte sanzionatoria (pur senza spingersi fino a travalicare la generalità e l'astrattezza, elementi tipici che consentono l'applicazione, appunto generalizzata, della legge penale). Laddove la fattispecie risulti troppo generica, invece, si ricadrà nell'ipotesi delle cosiddette norme penali “in bianco”, la cui presenza, nel nostro ordinamento, è stata oggetto di forti dispute e, conseguentemente, di differenti pronunce della Consulta (a cominciare dalla nota sentenza n. 168/1971, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato legittimo l'art. 650 c.p., proprio in relazione al disposto di cui all'art. 25, comma 2, Cost.).

Sulla base dei presupposti supra indicati e nel quadro ivi tratteggiato, dunque, si innesta l'ordinanza del Tribunale ordinario di Trapani, che ha sollevato la questione dell'indeterminatezza del fatto-reato (e conseguente lesione del principio di legalità/tassatività) così come contenuto e descritto nell'art. 612-bis c.p.

Come noto, la disposizione in esame è stata recentemente introdotta dall'art. 7 del Decreto Legge n. 11/2009, convertito con modificazioni nella Legge n. 38/2009, allo scopo di colmare, nel nostro ordinamento, il vuoto normativo e di tutela verso quegli specifici comportamenti violenti, minacciosi o persecutori che, per le loro caratteristiche estrinseche di ripetitività e persecutorietà, siano tali da ingenerare nella vittima (donna o meno che sia) uno stato di ansia o timore per la propria o l'altrui incolumità, ovvero un cambiamento delle quotidiane abitudini di vita. Non sfugge a chi scrive come, effettivamente, la tecnica redazionale adoperata dal Legislatore nella formulazione del reato di “Atti persecutori” (il cosiddetto “stalking”) abbia fatto ricorso, nella parte descrittivo-condottuale della norma, ad una terminologia non elencativa o esemplificativo-casistica, evitando (come invece avviene nel caso dell'ordinamento tedesco, espressamente menzionato nella sentenza della Consulta in odierno commento, in specifica relazione al reato di “Nachstellung”) di far ricorso ad una analitica, quanto esemplificativa, enumerazione dei differenti comportamenti oggetto di sanzione (sebbene sia d'uopo rilevare come la norma del codice tedesco termini, facendo comunque ricorso ad una clausola di chiusura “ad analogia esplicita”, che permette di ricomprendere, nella parte precettiva, anche comportamenti che non siano ivi espressamente descritti).

Interrogata sul punto, dunque, la Consulta ha risposto dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 612-bis c.p.

Ha, infatti, rilevato, la Corte Costituzionale, come l'articolo 612-bis c.p. in oggetto contenga, nella propria formulazione, sufficienti elementi atti a qualificarlo, prima facie, come reato abituale di evento, per la cui sussistenza è necessaria l'integrazione di una condotta ripetuta (almeno due atti di carattere persecutorio, così Cass. pen., Sez. V, sent. n. 8832/2010 ed ancora Cass. pen., Sez. V, sent. n. 24135/2012), tale da ingenerare, nella vittima, una delle conseguenze, psicologiche o materiali, descritte proprio nel testo della norma (ovvero “il fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero ancora…uno stress che abbia costretto lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, bastando, inoltre ad integrare la reiterazione quale elemento costitutivo del suddetto reato, anche due sole condotte di minacci o di molestia” così, Cass. pen., Sez. V, sent. n. 20993/2012).

Quanto poi, più specificamente, ai differenti elementi condottuali che, nella loro combinazione, integrano il reato di stalking, secondo il percorso motivazionale indicato dalla Corte, deve considerarsi che essi già costituiscono comportamenti autonomamente previsti e sanzionati in altre e differenti ipotesi criminose. Ci si riferisce, in particolar modo, al reato di minaccia di cui all'art. 612 c.p., a quello di molestia, di cui all'art. 660 c.p. ed a quello di violenza privata, disciplinato e previsto nell'art. 610 c.p.. Il reato di stalking di cui all'art. 612-bis c.p., quindi, altro non fa che mutuare comportamenti criminosi già aliunde oggetto di reprimenda e sanzione e connotarli ulteriormente con l'elemento della ripetitività e dell'idoneità a cagionare, nella vittima, uno stato d'animo di profonda prostrazione o di modifica delle proprie abitudini vitali.

Per quel che attiene, poi alla valutazione degli effetti, sulla vittima, degli atti persecutori, spetterà al giudice applicare le categorie ermeneutiche, alla luce del comune principio di offensività.

Sulla scorta delle disposizioni esplicative che precedono, dunque, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 612-bis c.p., sollevata con riferimento specifico all'art. 25, comma 2, Cost.

Osservazioni e suggerimenti pratici

La Corte Costituzionale, nella propria tradizione ermeneutica, ha, in gran parte dei casi sottoposti al suo vaglio critico, respinto le eccezioni di costituzionalità sollevate sotto il profilo della violazione del principio di tassatività, facendo leva su argomenti spesso oggetto di critica tra gli Autori. Se, tuttavia, si esaminano attentamente le possibili ragioni che la Consulta ha sposato, e tuttora sposa, nel motivare i propri dinieghi, si comprende come l'atteggiamento di chiusura sia basato, fondamentalmente, sulla necessità di non creare vuoti di tutela normativa e di non entrare in conflitto con il legislatore, anche a fronte di modelli punitivi che possano aprire affettivamente il campo alla discrezionalità.

È pur vero che molte modalità offensive risultano difficili da “coagulare” in una sintetica espressione concettuale.

Non bisogna, però, dimenticare che la stessa Corte Costituzionale ha avuto anche il merito di fornire una pregnante definizione di “principio di tassatività” che ha sorpassato la mera formulazione linguistica e terminologica. Al riguardo, infatti, si consideri che ha, testualmente, indicato la sentenza C. cost. n.96/1981 che “nella dizione dell'art. 25 Cost, che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intellegibilità dei termini impiegati, deve ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà… Sarebbe, infatti, assurdo ritenere che possano considerarsi determinate in coerenza con il principio di tassatività della legge, norme che, sebbene concettualmente intellegibili, esprimano situazioni e comportamenti irreali o fantastici comunque non avverabili e tanto meno concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che, per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili”.

Il non esaurimento del principio di determinatezza nella mera concettualizzazione linguistica, è stato, vieppiù, ribadito anche in due successive sentenze della Corte Costituzionale (C. cost. n. 247/1989 e C. cost. n. 282/1990), a testimonianza di un non sempre radicale atteggiamento di opposizione, da parte della Consulta, ad indirizzi interpretativi di maggiore apertura.

Conclusioni

Come più volte sottolineato, a corollario del cosiddetto principio di legalità, che regge l'intero impianto penalistico, si pone il cosiddetto principio di tassatività o sufficiente determinatezza che impone al legislatore, nel formulare la norma incriminatrice, di descrivere, con un grado di sufficiente dettaglio e precisione (pur senza inficiarne il carattere di astrattezza e generalità), quei comportamenti che integrano il fatto tipico che si intende sanzionare. Solo in tal modo la disposizione normativa potrà essere compresa dal cittadino e, di conseguenza, osservata ed obbedita esplicando appieno la propria portata regolamentatrice/sanzionatoria.

Ove la formulazione adottata dal legislatore si ponga in contrasto con i dettagli sin qui enucleati, alla Consulta spetterà il compito di valutare l'aderenza della norma sottoposta al proprio vaglio critico con i dettami costituzionali di cui all'art. 25, comma 2, Cost.

In tale ottica, dunque, la Corte Costituzionale ha esaminato il contenuto dell'art. 612-bis c.p., di recente ed innovativa introduzione, ritenendolo, pur tuttavia, rispondente alle esigenze di sufficiente determinatezza.

La relativa questione di legittimità costituzionale, quindi, è stata respinta.

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