Danno esistenziale: un nuovo intervento della Suprema Corte che non fa chiarezza

Luca Nania
13 Giugno 2014

Il danno esistenziale non costituisce un'autonoma voce di danno risarcibile, ma costituisce un aspetto della più ampia categoria del danno non patrimoniale. Di tale aspetto quindi va tenuto conto, nel determinare la somma complessivamente spettante a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, a cui va apportato un congruo aumento, in misura da determinare con riguardo alle peculiarità del caso concreto.
Massima

Cass. civ.sez. III, 12 novembre 2013, n. 25409

Il danno esistenziale non costituisce un'autonoma voce di danno risarcibile, ma costituisce un aspetto della più ampia categoria del danno non patrimoniale.

Di tale aspetto quindi va tenuto conto, nel determinare la somma complessivamente spettante a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, a cui va apportato un congruo aumento, in misura da determinare con riguardo alle peculiarità del caso concreto.

Sintesi del fatto

Tizia rimaneva coinvolta in un sinistro stradale all'esito del quale decedeva.

Sua madre, suo padre e suo fratello convenivano in giudizio il conducente e proprietario del veicolo sul quale Tizia era trasportata al momento del sinistro e la sua compagnia assicuratrice, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, nonché il risarcimento del danno patrimoniale subito dagli eredi per la perdita degli introiti che la vittima - titolare del 49% dell'impresa familiare - avrebbe destinato alla famiglia.

Il Tribunale dichiarava la responsabilità esclusiva dei convenuti nella causazione del sinistro condannandoli al ristoro dei danni patiti dagli attori.

I convenuti interponevano appello limitatamente all'ammontare dei danni.

La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, riduceva l'importo del risarcimento liquidato a titolo di danni esistenziali, quantificati in misura pari ad un settimo della somma attribuita a titolo di danni morali.

Gli attori in prime cure proponevano, quindi, ricorso per cassazione, censurando la sentenza d'appello, tra l'altro, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in riferimento alla liquidazione del danno esistenziale.

In motivazione:

“Con il sesto motivo (erroneamente indicato come quinto, nel ricorso) i ricorrenti lamentano omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in riferimento alla liquidazione del danno esistenziale, che la Corte di appello avrebbe immotivatamente quantificato in un settimo della somma attribuita in risarcimento dei danni morali.

Il motivo non è fondato.

La Corte di appello si è uniformata ai principi enunciati da questa Corte, per cui il danno esistenziale non costituisce un'autonoma voce di danno risarcibile, ma costituisce un aspetto della più ampia categoria del danno non patrimoniale. Di tale danno quindi va tenuto conto, nel determinare la somma complessivamente spettante a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, a cui va apportato un congruo aumento, in misura da determinare con riguardo alle peculiarità del caso concreto (Cass. civ. S.U., 11 novembre 2008, n. 26972).

La Corte di appello ha ritenuto che, considerata l'età dei danneggiati e la composizione del nucleo familiare, la somma spettante a compensazione del danno esistenziale vada determinata in misura pari ad un settimo di quella da liquidarsi per il danno morale, così da pervenire all'importo complessivo di euro 150.000,00 in favore della madre della vittima e di euro 75.000,00 in favore del fratello.

Trattasi di valutazione equitativa, non suscettibile di riesame in sede di legittimità”.

La questione

Le questioni che vengono in rilievo sono le seguenti: il danno esistenziale costituisce un'autonoma voce di danno risarcibile o rappresenta un aspetto della più ampia categoria unitaria del danno non patrimoniale? In tale seconda ipotesi, in quale modo deve procedersi alla liquidazione del danno non patrimoniale?

Le soluzioni giuridiche

Come noto, le Sezioni Unite (Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975) hanno negato l'ammissibilità, nel nostro ordinamento, dell'autonoma categoria del “danno esistenziale”.

Il danno esistenziale, secondo la giurisprudenza e la dottrina che ne sostenevano l'autonoma configurabilità, era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona: pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente il distinto danno morale soggettivo, perché non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati; e distinti dal danno biologico, difettando la lesione all'integrità psicofisica.

Il supremo consesso della nomofilachia, al contrario, ha affermato che il danno non patrimoniale - il quale trova il proprio referente normativo nell'art. 2059 c.c. e si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica - costituisce categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie: il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

In tale ottica, il giudice deve accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. Per fare ciò è indispensabile tenere presente, da un lato, l'unitarietà del pregiudizio sofferto dalla persona (pur se esso si ripercuota nella sfera interiore dell'individuo, sulle sue attività relazionali o sulla sua integrità psicofisica) e, dall'altro, la necessità di evitare una liquidazione separata dei vari aspetti del danno non patrimoniale, per il concreto rischio di una duplicazione delle poste risarcitorie.

Nella fattispecie esaminata dalla Cassazione con la pronuncia in rassegna, era stata chiesta la liquidazione del danno morale e del danno esistenziale derivante dalla morte di un congiunto; il giudice d'appello, come già visto, aveva ridotto le poste risarcitorie, quantificando il danno esistenziale in misura pari ad un settimo di quello morale: la Suprema Corte ha ritenuto tale valutazione non sindacabile in sede di legittimità.

Dopo il formale ossequio prestato al dictum delle sentenze di San Martino, la sentenza in commento riserva solo un rapido cenno alla questione della liquidazione del danno, che non consente di valutare quale sia stato, a monte, l'esatto iter motivazionale seguito dalla Corte d'Appello per giungere alla suddetta conclusione.

Non ci si può tuttavia esimere dal ricordare che le Sezioni Unite del novembre 2008 avevano diffidato il giudice di merito dal liquidare una voce di danno in termini di frazione o percentuale di un'altra, trattandosi di una tecnica liquidatoria foriera di una sicura quanto indebita duplicazione del danno non patrimoniale.

L'impiego di tale criterio – a quanto sembra utilizzato dalla Corte di Appello nella pronuncia oggetto del ricorso per Cassazione – costituirebbe, pertanto, vizio logico della sentenza impugnata, come tale censurabile ex art. 360, comma1, n. 5 c.p.c. e, per l'effetto, senz'altro esaminabile in sede di legittimità.

Osservazioni e suggerimenti pratici

Per quanto attiene alla liquidazione del pregiudizio derivante dalla perdita di un prossimo congiunto (conosciuto anche come danno da perdita del rapporto parentale), le Tabelle elaborate dal Tribunale di Milano del 2013 (individuate dalla Suprema Corte quale sicuro criterio per la liquidazione del danno non patrimoniale: cfr. Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011 n. 12408) forniscono una apposita forbice di valori per la quantificazione monetaria di tale pregiudizio.

L'ampiezza dell'intervallo in parola consente l'adeguata valorizzazione di tutte le circostanze del caso concreto (ad esempio, convivenza o meno con il parente deceduto, intensità e qualità del rapporto familiare residuo e di quello perduto).

Vale precisare che, al pari di quanto osservato dalla dottrina in merito alla relazione tra lesione della salute, sofferenza fisica e psicologica e incidenza negativa sulle attività quotidiane e relazionali del danneggiato – le quali integrano un unico pregiudizio, riguardo al quale è individuabile una componente statica (la lesione dell'integrità psicofisica accertabile in via medico-legale) ed una componente dinamico-relazionale (perdita delle attività realizzatrici della persona), entrambe le quali accompagnate da un pati interiore, in mancanza del quale neanche potrebbe ipotizzarsi un pregiudizio (si pensi al bambino che, non amando frequentare la scuola di calcio impostagli dal padre, intimamente non patisce alcuna sofferenza dal dover saltare gli allenamenti a causa di un infortunio di gioco) –, il danno da perdita di un prossimo congiunto ha natura unitaria, rappresentando la sofferenza interiore e la perdita delle attività relazionali con il parente deceduto due aspetti del medesimo pregiudizio, che, inscindibilmente, lo qualificano come tale: si soffre interiormente perché non si potrà più avere nessun tipo di rapporto con il deceduto, e la perdita delle attività relazionali del parente superstite, che si svolgevano con il defunto, costituiscono un pregiudizio proprio perché il loro venir meno determina sofferenza interiore.

Pertanto, diviene preciso onere defensionale dell'avvocato allegare e provare gli elementi fattuali – eventuale convivenza del superstite con il familiare deceduto; frequenza degli incontri con quest'ultimo in caso di mancata convivenza; età del congiunto superstite e del parente venuto a mancare; tipologia e frequenza delle attività relazionali svolte insieme dal superstite e dal parente deceduto - che consentano una puntuale rappresentazione dell'intensità e della qualità del rapporto familiare cessato.

Specularmente, il giudicante è tenuto a specificare ed adeguatamente valutare gli elementi fattuali emergenti dall'istruttoria e considerati ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale causato dalla perdita di un prossimo congiunto; in tale prospettiva, appare opportuno che il Giudice eviti di richiamare le varie formule descrittive (danno morale, danno esistenziale) ideate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, procedendo poi, per ciascuna di esse, ad una autonoma liquidazione (anche mediante la tecnica della quantificazione di una voce in termini di percentuale o frazione di una precedente).

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