Infiltrazioni: è necessaria la prova del danno emergente e del lucro cessante

13 Ottobre 2015

Il risarcimento del danno da lucro cessante non può essere riconosciuto automaticamente, ma esige la prova dell'esistenza di elementi oggettivi e certi da cui desumere l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (nella specie, relativa ad alcuni danni presenti in un immobile, i giudici di legittimità hanno escluso la sussistenza del lucro cessante, atteso che dopo gli interventi di riparazione del danno, di natura modesta e non invasiva, l'immobile non aveva subito un decremento patrimoniale).
Massima

Il risarcimento del danno da lucro cessante non può essere riconosciuto automaticamente, ma esige la prova dell'esistenza di elementi oggettivi e certi da cui desumere l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (nella specie, relativa ad alcuni danni presenti in un immobile, i giudici di legittimità hanno escluso la sussistenza del lucro cessante, atteso che dopo gli interventi di riparazione del danno, di natura modesta e non invasiva, l'immobile non aveva subito un decremento patrimoniale).

Il caso

La vicenda posta all'attenzione della Suprema Corte riguarda l'azione risarcitoria proposta dagli acquirenti di un immobile nei confronti della società venditrice per vizi dell'immobile consistenti in macchie di umidità sul alcune pareti e solai.

I giudici di legittimità confermano la pronuncia dei giudici di secondo grado che avevano escluso il risarcimento del danno da lucro cessante (per diminuito godimento dell'immobile) sul rilievo della mancata dimostrazione dello stesso, tenuto conto anche della circostanza che si trattava di infiltrazioni di modesto rilievo che non avevano determinato alcun decremento patrimoniale dell'immobile.

In motivazione

«il risarcimento del danno da lucro cessante non può essere riconosciuto automaticamente, ma esige la prova dell'esistenza di elementi oggettivi e certi da cui desumere l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile».

La questione

La questione in esame è la seguente: il risarcimento del danno da lucro cessante può essere automatico?

Le soluzioni giuridiche

Il tema della risarcibilità del danno patrimoniale da lucro cessante, ossia di quel danno da compromissione del reddito, rappresenta indubbiamente un aspetto che, nonostante i plurimi interventi sia del formante dottrinario che di quello giurisprudenziale, continua a suscitare accesi dibattiti.

Il codice civile vigente, conformemente a quello che l'ha preceduto, perpetua la distinzione, similmente al codice francese (art. 1149), tra danno emergente e lucro cessante, assicurando il risarcimento così delle perdite subite come dei mancati guadagni, purché siano conseguenza immediata e diretta del comportamento illecito dannoso (art. 1223 c.c., dettato in tema di responsabilità contrattuale, ma richiamato dall'art. 2056 c.c. anche per i casi di responsabilità extracontrattuale).

Secondo quanto previsto dagli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c. il risarcimento del danno deve comprendere sia la perdita subita - il danno emergente - sia il mancato guadagno, id est il lucro cessante, secondo particolari criteri di individuazione. In altri termini, il danno risarcibile non è limitato alla sola perdita immediatamente subita, corrispondente al valore della prestazione non conseguita e delle spese sostenute per riceverla, ma si estende anche al profitto o al guadagno che il creditore avrebbe potuto percepire se avesse potuto utilizzare il bene o il servizio oggetto della prestazione che il debitore non ha adempiuto. Danno emergente e lucro cessante sono risarcibili, secondo l'art. 1223 c.c., solo nell'ipotesi in cui siano «conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento», ossia in presenza di un nesso di causalità tra inadempimento e danno. Risarcibile, peraltro, ex l'art. 1225 c.c., è solo quello prevedibile al momento del sorgere dell'obbligazione, anche a garanzia del debitore stesso a non vedersi addebitati costi relativi a conseguenze non prevedibili all'epoca della pattuizione negoziale. Da ultimo, l'art. 1227 c.c. descrive la particolare fattispecie per la quale il creditore abbia concorso, con la sua condotta, al danno dallo stesso denunciato, escludendo, del pari, il risarcimento del danno per quei danni che si sarebbero potuti evitare con l'ordinaria diligenza da parte di quest'ultimo.

Tale distinzione, che appare sfumata quando la si consideri dal punto di vista meramente economico, assume contorni precisi quando il punto di vista diviene giuridico. Momento decisivo per distinguere il danno emergente dal lucro cessante è quello in cui si verifica l'evento danneggiante. Se tale evento sottrae utilità che il danneggiato in quel momento già aveva, si è prodotto un danno emergente; se impedisce che nuovi elementi od utilità vengano acquisiti, si verifica un lucro cessante. È peraltro il criterio secondo il quale si deve considerare se l'utilità sia già acquisita dal danneggiato, che distingue il punto di vista giuridico da quello economico; occorrerà avere riguardo al diritto che il soggetto abbia o meno di disporre e/o di godere del bene, o di ricevere una determinata prestazione. Ciò significa che qualora tutti i presupposti necessari per realizzare il guadagno siano già nella sfera giuridica del soggetto danneggiato si dovrà parlare di danno emergente e non di lucro cessante. Posta tale distinzione, non pare peraltro che il lucro cessante si debba distinguere ulteriormente dal danno emergente per un maggiore o minore rigore nell'accertamento del requisito della certezza del danno. È il concetto stesso di danno ad essere il risultato di una ipotesi, il non verificarsi dell'evento dannoso, e non vi è pertanto che maggiore facilità di accertamento circa l'an ed il quantum nei casi di danno emergente rispetto a quelli di lucro cessante.

In materia di risarcimento del danno patrimoniale derivante da responsabilità contrattuale, l'accertamento delle conseguenze pregiudizievoli verificatesi a titolo sia di danno emergente che di lucro cessante va riferito al momento del fatto causativo del danno e, pertanto, sono irrilevanti le vicende anteriori o posteriori a tale momento.

In giurisprudenza si è osservato che il risarcimento del danno è l'obbligazione diretta a reintegrare il patrimonio del danneggiato nella situazione in cui si sarebbe trovato se l'inadempimento non si fosse verificato e comprende sia il danno emergente sia il lucro cessante. È agevole provare il danno emergente in quanto, essendo una posta attiva del patrimonio del soggetto, basterà dimostrarne l'attualità e la sua conseguente lesione; quanto al lucro cessante, il creditore si troverà costretto a provare il mancato guadagno che gli sarebbe potuto derivare da quella determinata operazione economica. In altri termini, quanto al lucro cessante, spetta al creditore dare la prova di un bene o di un interesse mai venuti ad esistenza in ragione dell'inadempimento, ma che se si fossero concretizzati sarebbero stati sicuramente di sua pertinenza (Cass. n. 7759/2012).

Così ad esempio, in una fattispecie si è concluso nel senso che, a seguito della pronuncia di risoluzione di una compravendita immobiliare in ragione del mancato pagamento del prezzo da parte del compratore, il venditore adempiente, conseguendo con la restituzione del bene solo in parte la riparazione del pregiudizio subito, con riguardo al danno emergente, ha diritto all'ulteriore risarcimento connesso alla mancata disponibilità dell'immobile cioè il reddito che avrebbe potuto ricavare ove il bene fosse rimasto nella sua disponibilità (lucro cessante), determinabile con riferimento al valore locativo dell'immobile maturato nel periodo di tempo intercorrente tra la data della consegna all'acquirente e quella della sua restituzione. Inoltre lo stesso non può pretendere in aggiunta a tale risarcimento il reddito da mancato reinvestimento del prezzo della compravendita, a lui non corrisposto, perché ciò comporterebbe un ingiustificato duplice risarcimento dello medesimo danno.

Approccio diverso da parte dei giudici di legittimità in tema di danni ex art. 1590 c.c.

Invero, in conformità a una più che consolidata giurisprudenza di legittimità, qualora, in violazione dell'art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l'immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l'obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l'esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a questo ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto - da parte di terzi - richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori (Cass. n. 13222/2010; Cass. n. 5641/1998).

Non si dubita, infatti, in giurisprudenza che il locatore, in caso di anormale usura dell'immobile, ha diritto al risarcimento del danno consistente sia nella somma di denaro occorrente per l'esecuzione delle riparazioni imposte dai danni all'immobile provocati dal conduttore, sia nel mancato reddito ritraibile dalla cosa nel periodo di tempo necessario per l'esecuzione dei lavori di riparazione (Cass. n. 6798/1993).

Sotto tale profilo, andranno valutati non solo gli oneri necessari per i lavori di ripristino ma anche i danni derivanti dal mancato guadagno. In altre parole, il locatore potrà chiedere il pagamento del canone di locazione che avrebbe percepito durante il tempo necessario all'esecuzione dei lavori di ripristino.

In tal senso con la sentenza Cass., 17 maggio 2010, n. 11967 si è affermato il principio in forza del quale il conduttore deve risarcire i danni al locatore anche se l'immobile viene venduto senza che i lavori di ripristino vengano realmente effettuati. Il conduttore dell'immobile ha comunque depauperato il patrimonio del locatore e, conseguentemente, deve risarcire il danno: che il bene venga venduto, è un fatto irrilevante ai fini dell'azione risarcitoria. La vendita è un avvenimento successivo al momento in cui sono stati procurati i danni ed è necessario assicurare la reintegra del patrimonio del locatore.

Peraltro, in tema di risarcimento danni deve segnalarsi l'esistenza di contrapposti orientamenti giurisprudenziali relativamente al riconoscimento del lucro cessante sotto forma di nocumento finanziario sofferto dal danneggiato per mancata disponibilità tempestiva della somma liquidata a titolo risarcitorio.

Invero, in alcune pronunce di legittimità si osserva che trattandosi di debito di valore, deve essere riconosciuto al danneggiato, oltre all'equivalente pecuniario del bene perduto, anche il danno da lucro cessante, per il mancato godimento delle somme dovute e liquidate, in considerazione del fatto che il ritardato conseguimento della disponibilità di una somma di denaro rispetto al sorgere del credito determina un incremento del patrimonio del debitore, che non paga subito, con conseguente lucro cessante della persona che dovrebbe ottenerla e non ne ha la disponibilità (Cass., S.U., n. 1712/1995; Cass., S.U., n. 8947/1998). Da qui la necessità di compensare, in base ad un principio generale di equità, con l'attribuzione di interessi il ritardato conseguimento.

In altre pronunce si rileva che non possono essere riconosciuti gli interessi “compensativi”, quante volte il danneggiato non alleghi e provi un nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa della mancata, tempestiva disponibilità della somma dovuta a titolo di risarcimento. Sicché deve ritenersi che la somma rivalutata (cioè liquidata in moneta attuale) ricomprenda il danno causato dal ritardato pagamento dell'equivalente monetario (Cass. n. 22347/2007; Cass. n. 12452/2003; Cass. n. 15823/2005; Cass n. 3268/2008; Cass. n. 3355/2010).

Osservazioni

Deve richiamarsi l'insegnamento di Cass. Civ., sez. II, 12 giugno 2008, n. 15814, che efficacemente evidenzia come, nell'attuale ordito normativo, il diritto al risarcimento del danno non rivesta natura punitiva, ma vada correlato alla prova del concreto pregiudizio economico asseritamente subito dal danneggiato: anche nelle ipotesi per le quali il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e, tanto meno, alla sua entità materiale; l'affermazione del danno in re ipsa si riferisce, dunque, esclusivamente all'an debeatur, che presuppone soltanto l'accertamento d'un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l'id quod plerumque accidit, onde permane la necessità della prova d'un concreto pregiudizio economico ai diversi fini della determinazione quantitativa e della liquidazione di esso per equivalente pecuniario, e non è precluso al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o la sua materiale entità non risultino provate.

Invero, il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., configura non un giudizio d'equità ma un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, ond'è che non solo è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare (cosa non certamente ricorrente nella odierna fattispecie, per come si dirà appresso), come desumibile dalle citate norme sostanziali, ma non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, anzi, al contrario, presuppone già assolto dalla parte stessa, nei cui confronti le citate disposizioni non prevedono alcuna relevatio ab onere probandi al riguardo, l'onere su di essa incombente ex art. 2697 c.c., di dimostrare sia la sussistenza sia l'entità materiale del danno, così come non la esonera dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e ricondotto alla sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell'iter della precisa determinazione dell'equivalente pecuniario del danno stesso.

In conclusione la corretta applicazione dei principi generali in tema di responsabilità civile non consente che si proceda alla liquidazione anche in via equitativa di danni rispetto ai quali il danneggiato si limiti a chiederne solo il ristoro non allegandoli neppure.

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