Il danno non patrimoniale va sempre provato e per lievi lesioni è escluso il diritto del congiunto al risarcimento

14 Gennaio 2015

Anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici. Quando la lesione della salute è assai lieve, non può configurarsi alcuna lesione del rapporto parentale. Perché ricorra quest'ultimo è infatti necessario che la vittima abbia subito lesioni seriamente invalidanti o che si sia determinato uno sconvolgimento delle normali abitudini dei superstiti, tali da imporre scelte di vita radicalmente diverse che è onere dell'attore allegare e provare.
Massima

Cass. sez. III civ., sent., 5 dicembre 2014 n. 25729

Anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici. La struttura della responsabilità aquiliana presuppone che l'attore fornisca la prova del danno, di cui chiede il risarcimento, non potendo ritenersi che il danno sia in re ipsa, e cioè coincida con l'evento, poiché il danno risarcibile, nella struttura della responsabilità aquiliana, non si pone in termini di automatismo rispetto al fatto dannoso (restando, quindi, un danno-conseguenza che non coincide con l'evento, che è un elemento del fatto produttivo del danno).

Quando la lesione della salute è assai lieve, non può configurarsi alcuna lesione del rapporto parentale. Perché ricorra quest'ultimo è infatti necessario che la vittima abbia subito lesioni seriamente invalidanti o che si sia determinato uno sconvolgimento delle normali abitudini dei superstiti, tali da imporre scelte di vita radicalmente diverse che è onere dell'attore allegare e provare. Tale onere di allegazione va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.

Sintesi del fatto

I coniugi Tizio e Sempronia convenivano innanzi al Tribunale di Matera gli eredi di Caio che aveva provocato lesioni fisiche alla predetta Sempronia, la quale, peraltro, adduceva a tale evento l'interruzione della sua gravidanza. Gli attori chiedevano al giudice di prime cure che, accertata la responsabilità di Caio nel verificarsi dell'evento, i summenzionati eredi venissero condannati al risarcimento dei danni patiti dai medesimi. Anche Tizio, difatti, lamentava un turbamento della vita familiare in conseguenza del trauma psichico subito dalla moglie. Se, da un lato, le domande svolte dagli attori venivano accolte dal Tribunale, dall'altro la Corte territoriale ne ridimensionava in toto l'accoglimento. In particolare, la Corte d'appello di Potenza: rideterminava la quantificazione del danno in favore di Sempronia; escludeva un collegamento tra l'illecito commesso da Caio e l'interruzione della gravidanza in termini probabilistici e comunque riteneva che Sempronia non avesse assolto l'onere probatorio sulla stessa incombente in ordine al nesso eziologico fra condotta ed evento lesivo; escludeva il risarcimento del danno in favore di Tizio ritenendo che nessun elemento era stato addotto a sostegno del turbamento della vita familiare e comunque in conseguenza del trauma psichico subito dalla moglie. I coniugi Tizio e Sempronia attuavano, quindi, la tutela di legittimità, articolando tre distinti motivi di censura riferiti ai tre succitati rilievi della Corte territoriale ut supra. Gli Ermellini, invero, confermavano la decisione del giudice di seconde cure e rigettavano il ricorso, condannando altresì i coniugi alle spese del giudizio di cassazione.

In motivazione

«Sennonché tale principio è stato rispettato dalla sentenza impugnata che ha riconosciuto il danno in favore dell'attrice prendendo come punto di riferimento le lesioni fisiche e i postumi permanenti del disturbo post-traumatico da stress ed ha determinato il quantum del danno biologico facendo riferimento alle tabelle e personalizzando il relativo importo. La decisione della Corte d'appello è corretta e non si presta a critiche in sede di legittimità mentre la ricorrente propone un riesame del merito della vicenda al fine di ottenere un più ampio risarcimento».

«(…) per cui appare difficile ipotizzare che in conseguenza del trauma psichico riportato da (…), in occasione del fatto delittuoso con modesti postumi permanenti, il ricorrente possa aver visto compromesso il rapporto coniugale. Diversamente argomentando si giungerebbe a riconoscere sempre, anche per lievi lesioni, il diritto del congiunto al risarcimento del danno, ampliando eccessivamente il numero dei soggetti aventi diritto al risarcimento».

La questione

Le questioni in esame sono le seguenti: quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale può essere ritenuta in re ipsa, senza essere debitamente allegata e provata da chi la invoca?

E ancora, quando uno dei due congiunti subisce una lesione della salute assai lieve l'altro ha o meno diritto al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale?

Le soluzioni giuridiche

Con l'importante decisione 11 novembre 2008 n. 26972 (Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972 di contenuto identico ad altre tre sentenze, tutte depositate contestualmente) le Sezioni Unite della Cassazione hanno non solo composto i precedenti contrasti sulla risarcibilità del cosiddetto danno esistenziale, ma hanno anche più in generale riesaminato approfonditamente i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all'art. 2059 c.c.. La sentenza ha innanzitutto ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad es., nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione. Peraltro la Suprema Corte già a partire dalle cosiddette sentenze gemelle, Cass. civ., sez. III, sent., 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. civ., sez. III, sent., 31 maggio 2003, n.8828, aveva rivisto in termini innovativi il rapporto esistente tra l'art. 2059 c.c. e l'art. 185 c.p. al fine di superare gli angusti limiti che le due disposizioni ponevano in tema di risarcimento del danno non patrimoniale. Muta il modo di interpretare il rinvio alla legge contenuto nell'art. 2059 c.c.; difatti, si afferma che quando siano stati lesi diritti inviolabili della persona , riconducibili all'art. 2 Cost., l'imperatività della norma costituzionale supera la mancata menzione di una espressa e testuale previsione di risarcimento del danno non patrimoniale. In altri termini, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, configurandosi in tal modo un «caso determinato dalla legge», al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale. Conseguenza di tale modo di operare è l'inclusione del danno biologico tra i danni non patrimoniali e, dunque, la sua risarcibilità non più per effetto del collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost., bensì attraverso l'art. 2059 c.c.. Nasce così uno strumento di tutela diretta dei diritti costituzionali, in precedenza assente nel nostro ordinamento, con il quale l'individuo è abilitato a richiedere davanti a tutti i giudici (civili, penali e amministrativi) una tutela giurisdizionale a seguito della lesione di propri diritti di rango costituzionale in ogni caso, e cioè anche in assenza del riconoscimento e della protezione del singolo diritto da parte del legislatore. Il nuovo strumento, inoltre, si configura immediatamente come strumento generale, in quanto nella giurisprudenza ordinaria e amministrativa successiva alle sentenze gemelle esso trova concreta applicazione indifferentemente sia in senso orizzontale, nei rapporti tra privati, sia in senso verticale, e cioè nel caso di violazione dei diritti costituzionali individuali, o di loro insufficiente tutela, da parte dei pubblici poteri.

Per quanto riguarda la prova del danno non patrimoniale, che qui ci occupa, le Sezioni Unite hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però l'onere del danneggiato di allegare e di provare gli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio.

Occorre sottolineare che l'onere di allegazione è funzionale all'onere della prova, nel senso che solo i fatti già allegati nella domanda possono, e debbono, essere provati durante il processo. E' ormai orientamento consolidato che i danni non patrimoniali non possono mai considerarsi come esistenti in re ipsa; essi cioè non possono non considerarsi come non bisognosi di allegazione e di prova che può essere data con qualsiasi mezzo anche per presunzioni. Il principio, peraltro ribadito dal predetto arresto delle sezioni Unite, era già considerato del tutto ovvio dalla dottrina sull'assunto che il danno presuppone, non la sola lesione dell'interesse protetto dalla norma, ma anche una perdita a tale lesione causalmente ricollegabile. Nella giurisprudenza della cassazione, invece, il ricorso al danno in re ipsa era frequente in materia di lesione del diritto di proprietà, di demansionamento, di illegittimo protesto, di danno da reato, di danno da lesione del rapporto parentale. Dall'esame della casistica giurisprudenziale emerge, però, un uso non univoco della espressione. Questa, nella accezione criticata dal grand arrêt delle Sezioni Unite indica una fattispecie in cui il danno costituisce condizione imprescindibile della lesione, sicché, in presenza di quest'ultima, vi è di per sé, senza necessità di ulteriori allegazioni o prove, diritto al ristoro. Sovente, invece, si fa riferimento al danno in re ipsa, per indicare il mero ricorso ad un ragionamento di carattere presuntivo; strumento, questo, che, lungi dall'essere stato bandito dal più recente orientamento, costituisce il fulcro attorno al quale dovrebbe ruotare l'istruttoria dei giudizi risarcitori. La differenza tra le due accezioni appare evidente ove si ragioni sulla possibilità di fornire la prova contraria. Se il danno è esso stesso elemento della lesione, vi è un rapporto di inferenza necessaria in ragione del quale resta superflua sia la allegazione che la prova, restando l'autore dell'illecito obbligato al risarcimento senza alcuna possibilità di sostenere e provare il contrario. Anche nelle pronunce antecedenti alle Sezioni Unite al riferimento ad un danno in re ipsa spesso era sotteso l'assunto secondo cui il medesimo trovava la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte secondo un ragionamento presuntivo che portava all'accertamento d'un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione di probabilità o di verosimiglianza secondo l'id prelunque accidit. Viceversa, il ricorso all'automatismo era alquanto frequente in materia di lesione del diritto di proprietà e violazione delle distanze. Va chiarito, tuttavia, che a restare preclusa – in quanto, come evidenziato dalle Sezioni Unite, estranea al sistema civilistico del risarcimento del danno – è solo la ricostruzione di un rapporto di necessarietà assoluta tra lesione e danno, insuscettibile di confutazione a mezzo prova contraria.

Per quanto concerne invece la questione della risarcibilità del danno da lesione parentale a seguito di una lesione della salute assai lieve subita da uno dei coniugi gli Ermellini la escludono categoricamente. Difatti i Supremi giudici precisano che affinché possa configurarsi una lesione del rapporto parentale è necessario che la vittima abbia subito lesioni seriamente invalidanti o che si sia determinato uno sconvolgimento delle normali abitudini dei superstiti, tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse che è onere dell'attore allegare e provare. A partire da una lontana pronuncia di ormai più di venti anni fa della Consulta – Corte cost.,27 ottobre 1994 n. 372 – si è ammessa la possibilità che i superstiti patiscano, in conseguenza dell'uccisione del congiunto, un pregiudizio alla propria salute, ogniqualvolta questo evento si traduca in uno shock accertabile medicalmente, sì da distinguersi dal dolore transeunte da ricondurre al danno morale soggettivo. In questi casi il danno fatto valere iure proprio dai sopravvissuti, si presenta come il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo e che, anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato d'angoscia transitorio, degenera in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali e non semplicemente alla pecunia doloris in senso stretto, va commisurato il risarcimento.

Benché il diritto alla vita del defunto non possa essere azionato dai superstiti, tuttavia, la perdita di un congiunto può essere un fatto che, di per sé, legittima una pretesa risarcitoria, sulla considerazione che certe compromissioni della sfera personale degli individui, nella maggior parte dei casi di incidenza psichica, quand'anche non accertabili medicalmente, incidono negativamente sulle capacità relazionali degli stessi, determinandone un mutamento peggiorativo delle condizioni di vita. Si è, allora, preferito, elaborare una nuova figura di danno non patrimoniale, quella da lesione del rapporto parentale, per la cui risarcibilità gli stretti congiunti della vittima sono legittimati iure proprio, senza che ciò precluda loro la possibilità di lamentare oltre al danno patrimoniale ed al danno morale transeunte, anche il danno alla salute sofferto dal defunto nell'apprezzabile lasso di tempo trascorso tra l'evento lesivo e la morte. Decisive sono state sul punto le due predette pronunce gemelle della Suprema Corte Cass. civ. 31 maggio 2003, n. 8828 e Cass. civ. 31 maggio 2003, n.8827, quest'ultima peraltro richiamata nel decisum che qui ci occupa. Alla base vi è, dunque, un pregiudizio che non si esaurisce nel semplice perturbamento conseguente al lutto, ossia nel danno morale soggettivo con cui concorre, ma in un nocumento ulteriore di natura permanente da allegare e provare anche per mezzo di elementi indiziari e presuntivi, individuabile nella lesione dell'interesse all'intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, nonché all'inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana all'interno delle formazioni sociali. Tale onere di allegazione – ribadiscono gli Ermellini nell'odierno decisum – va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

Dare una definizione precisa del danno non patrimoniale non è agevole, sicché prevale una nozione ricavata in negativo dal concetto di danno patrimoniale. Il danno non patrimoniale, inteso in una stretta accezione, consiste nel dolore, nella sofferenza, fisica o spirituale, che la persona subisce per effetto dell'evento lesivo; inteso in una accezione lata, esso comprende tutte le situazioni negative di natura non economica dell'evento lesivo. In questa categoria vengono in rilievo le conseguenze non patrimoniali della persona e dei cosiddetti diritti della personalità. Queste si concretano nella sofferenza psicofisica, nel turbamento dell'animo, nel discredito, nella perdita di prestigio che la persona subisce in seguito dell'illecito altrui. In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile, non soltanto quello conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili, ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento, poiché la tipicità in questo caso non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto ma in ragione della scelta del legislatore di garantire il ristoro ai danni non patrimoniali cagionati da reato. Negli altri casi determinati dalla legge, invece, la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona di rango costituzionale. Anche in quest'ultima ipotesi il danno non patrimoniale costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato. E, come ribadiscono i Supremi giudici nella pronuncia che qui ci occupa, va disattesa la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di “danno evento”, così come la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre quest'ultimo, sicché il giudice è chiamato ad accertarne l'effettiva consistenza, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore uomo si siano verificate ed evitando duplicazioni risarcitorie. Tale principio – rileva il decisum in commento – è stato rispettato dalla sentenza della Corte territoriale che ha riconosciuto il danno in favore dell'attrice prendendo come punto di riferimento le lesioni fisiche e i postumi permanenti del disturbo post-traumatico da stress ed ha determinato il quantum del danno biologico facendo riferimento alle tabelle e personalizzando il relativo importo.

Ciò non toglie che il danno non patrimoniale comporti, per le caratteristiche che gli sono proprie, non poche difficoltà di quantificazione di “monetizzazione”, ragion per cui alla determinazione del medesimo sovente provvede l'autorità giudiziaria mediante il ricorso a criteri equitativi. Per limitare, tuttavia, il margine di discrezionalità della decisione è divenuto via via necessario far riferimento a parametri tendenzialmente sempre più oggettivi.

Dal momento che le compromissioni patite dalla vittima vanno allegate e provate, ciò significa che le stesse devono essere descritte dal danneggiato in termini fenomenici. Ove si faccia ricorso esclusivo alla liquidazione unitaria, il giudice si troverà privo di qualsiasi riferimento nella gestione del magma indistinto delle allegazioni prodotte dal danneggiato. Soltanto tramite la rigorosa distinzione, sul piano contenutistico, tra le varie componenti dell'area non patrimoniale può essere evitata la trappola della moltiplicazione dei danni. La distinzione – in sede di liquidazione - delle varie componenti del pregiudizio appare, del resto, indispensabile al fine di verificare la congruità del risarcimento ed accertare che la determinazione dello stesso sia avvenuta tenendo conto di tutte le ripercussioni dannose. Ove il giudice stabilisca semplicemente una cifra onnicomprensiva, non appare infatti possibile conoscere il peso quantitativo attribuito ai differenti profili pregiudizievoli, onde poter valutare se la consistenza dello stesso appaia adeguata a rispecchiare le varie compromissioni patite dalla vittima.

E, in caso di danno da perdita del rapporto parentale, vedi ex plurimis Cass. civ., sez. III, 17 aprile 2013, n. 9231, poiché la liquidazione, necessariamente equitativa, deve esser circostanziata, se per ragioni di uniformità nazionale il giudice di merito adotti le tabelle del Tribunale di Milano - i cui parametri devono esser attualizzati al momento della decisione - per l'individuazione della concreta somma attribuibile nel range tra il minimo ed il massimo, ovvero anche oltre tale limite se il vulnus familiare è di particolare gravità per alcuni dei superstiti, egli deve esplicitare se e come ha considerato tutte le concrete circostanze per risarcire integralmente il danno non patrimoniale subito da ciascuno, e perciò va esclusa ogni liquidazione di tale pregiudizio in misura pari ad una frazione dell'importo liquidabile a titolo di danno biologico del defunto, perché tale criterio non rende evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto di tutte le circostanze suindicate, così come è erronea una liquidazione uguale per tutti gli aventi diritto o globale con successiva ripartizione interna tra costoro.

Quindi, se l'illecito abbia gravemente compromesso il valore persona, come nel caso della definitiva perdita del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto, in proporzione alla durata e alla intensità del vissuto, alla composizione del restante nucleo che può prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo sia all'età della vittima primaria che a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma, ed ad ogni altra circostanza del caso concreto - che deve esser allegata e provata, ancorché presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza, essendo danni-conseguenza, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l'unità, la continuità e l'intensità del rapporto familiare - ad una liquidazione comprensiva di tutto il pregiudizio non patrimoniale subito. Tuttavia, come nel caso de quo, quando la lesione della salute subita da uno dei coniugi risulta assai lieve, non può configurarsi alcun risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale in capo all'altro che peraltro neppure aveva adeguatamente provato in cosa fosse stato compromesso il rapporto coniugale. In definitiva, argomentando a contrario, si giungerebbe a riconoscere sempre il diritto del congiunto al risarcimento del danno anche per lievi lesioni, così da ampliare in maniera esponenziale il numero dei soggetti aventi diritto al risarcimento.

Riferimenti bibliografici

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G. Belli, Uccisione del congiunto, danno catastrofale, danno tanatologico e danno parentale: a che punto siamo?, in La resp. civ., 2012, 7, 542-547

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P. Ziviz, Il danno non patrimoniale. Evoluzione del sistema risarcitorio, Milano, 2011

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