Alle Sezioni Unite la «nascita indesiderata»

Mauro Di Marzio
16 Aprile 2015

Il tema del risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» pone un complesso fascio di problemi di ordine non soltanto giuridico. Pertanto, preso atto del contrasto giurisprudenziale concernente il riparto degli oneri probatori in caso di domanda di risarcimento dei danni da «nascita indesiderata», nonché di legittimazione attiva del nato malformato, la Suprema Corte ha chiesto alle Sezioni Unite di fare chiarezza. Sono, quindi, due le questioni che le S.U. dovranno affrontare: quale prova deve dare la donna (ed il marito, che è con lei danneggiato) in ordine alla duplice circostanza del grave pericolo per la sua salute fisica o, più spesso, psichica, e della sua concreta determinazione ad abortire, ove tempestivamente informata delle malformazioni? Può il nato malformato lamentare che la madre non abbia abortito, nel qual caso egli non sarebbe nato?
Massima

Preso atto del contrasto giurisprudenziale concernente il riparto degli oneri probatori in caso di domanda di risarcimento dei danni da «nascita indesiderata», nonché di legittimazione attiva del nato malformato, la Suprema Corte ha chiesto alle Sezioni Unite di fare chiarezza.

Il caso

Nasce una bimba affetta da sindrome di Down. I genitori agiscono in giudizio, in proprio e quali genitori, nei confronti di due medici e della ASL presso la quale la madre, durante la gestazione, aveva eseguito un esame ematochimico (non cioè, a quanto sembra di comprendere, un'amniocentesi, che possiede una maggiore efficacia diagnostica di talune malattie, quale in particolare la trisomia 21 o sindrome di Down), che - secondo loro - avrebbe fornito esiti non rassicuranti, ai quali non era però seguito, come sarebbe stato necessario, alcun ulteriore approfondimento diagnostico: chiedono dunque, nella duplice veste indicata, il risarcimento del danno da nascita indesiderata.

I convenuti resistono ed il giudice rigetta la domanda. La decisione è confermata dalla sentenza di appello, che osserva:

  • quanto alla domanda spiegata dai genitori in proprio, che, indipendentemente dallo scrutinio in ordine alla sussistenza di un qualche profilo di colpa dei sanitari, pure ad ammettere che, se avvertita della malattia del feto, la madre avrebbe scelto di accedere alla interruzione volontaria della gravidanza, non risultava provato che ne avesse diritto e che, cioè, sussistesse un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, secondo quanto previsto dalla legge sull'aborto, essendo decorso il 90° giorno dall'inizio della gestazione;
  • quanto alla domanda spiegata nella qualità di genitori esercenti la (allora) potestà sulla figlia minore, che l'ordinamento non riconosce un diritto a non nascere ovvero a non nascere se non sani.

La questione

Il tema del risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» pone un complesso fascio di problemi di ordine non soltanto giuridico, ma, indubbiamente, anche etico, che qui, com'è ovvio, tralasceremo.

In generale, sono ormai quasi tre lustri (a partire da Cass. civ., sez. III, sent., 10 maggio 2002, n. 6735, ma si veda già Cass. civ., sez. III, sent., 1° dicembre 1998, n. 12195) che la giurisprudenza riconosce, in favore dei genitori, in proprio, il risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» (danni che possono essere sia patrimoniali che non), a fronte della violazione del diritto della donna all'autodeterminazione, quando la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza in conseguenza dell'inadempimento del medico, il quale non abbia correttamente eseguito o interpretato esami volti a sondare lo stato di salute del feto, e l'insorgere di eventuali malformazioni, ovvero non abbia informato la paziente degli esiti dell'indagine svolta. La legge sull'interruzione della gravidanza, tuttavia, se consente alla donna (maggiorenne) di decidere liberamente per l'aborto entro il 90° giorno, condiziona successivamente l'interruzione della gravidanza alla sussistenza di taluni presupposti e, in particolare, all'accertamento di processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6, L. 22 maggio 1978, n. 194).

Ecco allora un primo problema: quale prova deve dare la donna (ed il marito, che è con lei danneggiato: si vedano già le due pronunce poc'anzi citate; secondo Cass. civ., sez. III, sent., 2 ottobre 2012, n. 16754, poi, il risarcimento spetta anche ai fratelli) in ordine alla duplice circostanza del grave pericolo per la sua salute fisica o, più spesso, psichica, e della sua concreta determinazione ad abortire, ove tempestivamente informata delle malformazioni?

Questione tutt'affatto diversa è quella dell'astratta configurabilità di un danno risentito non dai genitori, ma dal nato malformato: può questi lamentare che la madre non abbia abortito, nel qual caso egli non sarebbe nato?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento non risponde ai due quesiti appena formulati, concernenti il riparto degli oneri probatori e la legittimazione del nato malformato a dolersi della nascita, ma evidenzia i contrasti di giurisprudenza formatisi con riguardo all'una e all'altra questione, concludendo quindi per la trasmissione degli atti al Primo Presidente ai fini dell'assegnazione alle Sezioni Unite.

Osservazioni

In effetti, la prima questione sembra ormai senz'altro richiedere un intervento chiarificatore.

In linea di principio, non è seriamente dubitabile che debba essere la donna a provare che, ove informata delle malformazioni del feto, avrebbe scelto di abortire, evidente essendo, d'altronde, che, in mancanza di una simile volontà, nessun danno potrebbe essere configurato. Né può dubitarsi che, decorsi i 90 giorni di cui si è detto, il profilarsi di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna vada anch'esso a collocarsi dal versante del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria spiegata, e che, di conseguenza, la prova sul punto debba essere offerta dalla donna, mentre costituisce circostanza impeditiva dall'esercizio del diritto di interrompere la gravidanza (la cui prova incombe perciò sul medico) l'attitudine del feto alla vita autonoma, ai sensi dell'art. 7 della L. n. 194/1978 (Cass. civ., Sez. III, sent., 10 maggio 2002, n. 6735).

Però, le circostanze da provare sono entrambe liquide, sfuggenti: si tratta infatti di dimostrare circostanze che non sono accadute, ma che avrebbero potuto verificarsi se un'altra circostanza di segno negativo (l'omessa diagnosi di malformazione), che ha invece avuto luogo, non fosse venuta ad esistenza. Diremmo, insomma, una sorta di doppio salto mortale probatorio. E come può la madre provare che, se avesse saputo, avrebbe abortito? Che cosa le si chiede, in concreto, di portare sorelle, fratelli, cognati ed altri parenti o amici a recitare una litania scontata: sì, è vero quanto mi si legge, aveva più volte ripetuto che, se il nascituro fosse stato affetto da questa o quella malattia si sarebbe senz'altro decisa all'aborto? Pur volendo rifuggire da ogni retorica, quale gestante si sofferma a palesare all'esterno la propria salda intenzione di abortire in caso di malattie del feto, che viceversa si augura non abbiano a verificarsi? E che senso avrebbe, d'altro canto, chiedere una simile prova ad una donna la quale si sia ad esempio sottoposta all'amniocentesi, che, come si sa, comporta un sia pur modesto rischio di perdita del feto? Che cosa dovremmo immaginare, usando il rasoio (di Occam) del ragionamento presuntivo, che la donna, magari non più giovanissima (il rischio di malformazioni si incrementa con il crescere dell'età della gestante), si sia sottoposta ad un esame rischioso (ed anche costoso) soltanto per conoscere il sesso del nascituro così da non sbagliare nel predisporre corredini rosa oppure celesti?

E come può la donna provare che, se avesse saputo delle malformazioni del feto, avrebbe corso grave pericolo di contrarre una malattia fisica o psichica? Chi può dire, ex post, se la donna, una volta informata, mentre non lo è stata, sarebbe stata colta da disperazione tale da tracimare nella malattia, oppure avrebbe manifestato una rocciosa attitudine a reagire al fato avverso? Ed in una simile situazione di eventuale dubbio, a favore di chi occorrerebbe far pendere la bilancia?

Ecco perché, secondo una parte (direi prevalente) della giurisprudenza, sarebbe «corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto» (capostipite di questa soluzione è ancora una volta Cass. civ., sez. III, sent., 10 maggio 2002, n. 6735, seguita da Cass. civ., sez. III, sent., 29 luglio 2004,n. 14488; Cass. civ., sez. III, sent., 4 gennaio 2010 n. 13; Cass. civ., Sez. III, sent., 13 luglio 2011 n. 15386). Ecco perché, nella medesima ottica, è stato detto che, ove la donna abbia allegato che, se informata, avrebbe scelto di abortire (ovviamente di fronte ad una malformazione molto grave: nella mia esperienza giudiziaria mi è capitato di imbattermi in una domanda risarcitoria proposta da una donna la quale lamentava di non essere stata informata di una malattia in conseguenza della quale, in fin dei conti, il figlio era stato colpito da una lieve balbuzie…), deve ritenersi in ciò implicito un «pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all'acquisizione della notizia», e cioè che sarebbe insorto un grave stato depressivo (Cass. civ., sez. III, sent., 10 novembre 2010, n. 22837).

In senso opposto, più di recente, dopo aver affermato che «è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, [la donna: n.d.r.] avrebbe interrotto la gravidanza», la Suprema Corte (in una composizione, dirò a titolo di mera curiosità, quasi esclusivamente muliebre) ha aggiunto che «tale prova non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità» (Cass. civ., sez. III, sent., 22 marzo 2013, n. 7269; v. pure Cass. civ., sez. III., sent., 10 dicembre 2013, n. 27528; Cass. civ., sez. III., sent., 30 maggio 2014, n. 12264). Varrà sottolineare, però, che il caso concerneva un bambino affetto da spina bifida non rilevata attraverso una semplice ecografia, se ho ben compreso la vicenda, di quelle routinarie.

L'altra questione, senz'altro più impegnativa, concernente la legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno dal medico e/o dalla struttura sanitaria che abbia privato la gestante della possibilità di abortire, è stata per lungo tempo risolta in senso negativo dalla Suprema Corte. Più di recente si sono mostrate di diversa opinione (Cass. civ., sez. III., sent., 3 maggio 2011, n. 9700), sul diritto al risarcimento del danno in favore del feto, poi nato, per la perdita del padre, perito in un incidente stradale, e, soprattutto, Cass. civ., sez. III, sent., 2 ottobre 2012, n. 16754, secondo cui, nel caso in cui il medico ometta di segnalare alla gestante l'esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali rispetto a quello prescelto, impedendole così di accertare l'esistenza d'una malformazione del concepito, quest'ultimo, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza ha diritto ad essere risarcito del danno rappresentato dell'interesse ad alleviare la propria condizione di vita, impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità.

Quest'ultima sentenza, che merita di essere letta, ha un indubbio limite: è troppo lunga e troppo colta e, per questo, probabilmente, non è stata letta o capita da tutti. Chi la leggerà avrà modo di avvedersi che essa non ha nulla a che vedere con formulette del tipo «diritto a non nascere» ovvero «diritto a non nascere se non sani».

La parola è alle Sezioni Unite.

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