Giusto processo: l'equa riparazione spetta anche alla parte soccombente

17 Dicembre 2014

E' manifestamente infondata, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 - bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89, in riferimento all'art. 117, comma 1, Corte Cost. e in relazione all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui comporterebbe l'impossibilità di liquidare un'equa riparazione in favore della parte soccombente nel processo presupposto. Tale disposizione, infatti, non esclude questa possibilità, poiché essa si riferisce ai casi in cui il giudice accerta l'esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, il cui valore accertato è un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte richiedente l'indennizzo aveva nel processo presupposto.
Massima

Corte Cost., ord., 16 luglio 2014, n. 204

È manifestamente infondata, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale - sollevata in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - dell'art. 2 - bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui - col disporre che la misura dell'indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo «non può in ogni caso essere superiore [...] al valore del diritto accertato dal giudice» (se inferiore al valore della causa) - comporterebbe «l'impossibilità di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente», in quanto tale disposizione deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ai soli casi in cui il giudice accerta l'esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, il cui valore accertato costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte che chiede l'indennizzo aveva nel processo presupposto, mentre non è esclusa la possibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente.

Sintesi del fatto

Mediante diverse ordinanze, la Corte di appello di Reggio Calabria sollevava, nell'ambito di procedimenti di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo, in riferimento all'art. 117 Cost., in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, questione di legittimità del comma 3 dell'art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto, articolo aggiunto dall'art. 55, comma 1, lettera b), del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134.

Invero, nelle ordinanze di rimessione si assumeva un contrasto della predetta disposizione normativa per la quale «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma primo, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice» con il parametro invocato nella parte in cui la stessa, limitando la misura dell'indennizzo liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto al "valore del diritto accertato" senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comporta, di conseguenza, l'impossibilità di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente.

Tale interpretazione era, ad avviso dei giudici a quo, l'unica percorribile in quanto l'accertamento negativo del diritto non può che essere considerato pari a “zero” ai fini della liquidazione dell'indennizzo, onde evitare, peraltro, il paradosso di riconoscere un indennizzo in misura superiore in favore della parte soccombente rispetto a quella che vede accolta soltanto in parte la propria domanda di equa riparazione.

Il contrasto con la norma c.d. interposta costituita dall'art. 6 CEDU si fondava sulla circostanza che, per giurisprudenza monolitica della Corte europea dei diritti dell'uomo, l'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo deve essere riconosciuta anche alla parte soccombente.

La Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale, rilevando che la stessa si basava su un erroneo presupposto interpretativo.

Le questioni

Per meglio comprendere la portata della questione esaminata dalla Corte Costituzionale, occorre ricordare che l'art. 55 del decreto legge 22 giugno 2012 n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012 n. 134, ha previsto importanti novità in tema di determinazione dell'indennizzo spettante al ricorrente per l'irragionevole durata del processo.

E' stato infatti introdotto, in primo luogo, all'interno della legge c.d. Pinto (l. 24 marzo 2001, n. 89) il nuovo art. 2-bis, rubricato «misura dell'indennizzo».

Il primo comma di tale disposizione normativa non ha carattere innovativo poiché recepisce nella massima parte la giurisprudenza consolidata della S.C., almeno a partire dall'anno 2004, stabilendo che il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

Peraltro, profilo non secondario di differenza della nuova normativa rispetto all'assetto tradizionale è la possibilità riconosciuta di liquidare un indennizzo pari anche all'importo di 500 euro per ciascun anno di ritardo, mentre, alla stregua di quanto già evidenziato, la Corte di Cassazione riteneva che l'importo dell'equa riparazione non potesse in ogni caso scendere al di sotto della soglia della somma di 750 euro per ogni anno eccedente la durata ragionevole del processo.

Vengono inoltre individuati, dallo stesso art. 2-bis, alcuni criteri che il giudice deve seguire nella determinazione concreta dell'entità dell'equa riparazione effettuata in via d'equità ex art. 2056 c.c., ossia l'esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell'articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

In effetti anche sotto tale profilo la norma non sembra assumere portata innovativa, recependo criteri che erano già utilizzati nella prassi giurisprudenziale per motivare la concreta determinazione dell'indennizzo entro determinati standard riferiti a ciascun anno di ritardo.

Maggiori problematiche sul piano interpretativo sono state sollevate, invece, dal comma 3 dello stesso art. 2-bis legge c.d. Pinto secondo cui «la misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma primo, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice».

Invero, secondo una parte della dottrina, da tale norma dovrebbe inferirsi la carenza di legittimazione attiva della parte soccombente nel processo presupposto, non essendo stato accertato alcun diritto in favore della stessa, a richiedere l'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo (E. Iannello, Le modifiche alla legge Pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. Merito, 2013, n. 1, 13 ss).

Diversamente, secondo la giurisprudenza di legittimità anteriore a tale modifica della l. n. 89/2001, ad opera della l. n. 134/2012, almeno ai fini della legittimazione attiva alla proposizione della domanda di equa riparazione, non assume alcuna rilevanza la circostanza che la parte ricorrente sia rimasta soccombente nel giudizio c.d. presupposto del quale denuncia l'irragionevole durata. E' consolidato, invero, nella giurisprudenza di legittimità il principio per il quale, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo il diritto all'equa riparazione, di cui all'art. 2 l. n. 89/2001, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l'ansia e la sofferenza per l'eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare della incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, fatta eccezione per i casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al ricordato art. 2 e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l'esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata puntualmente dall'amministrazione, non essendo sufficiente a tale fine la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (v., tra le tante, Cass. civ., sent., 3 maggio 2012, n. 6685, in Guida al dir., 2012, n. 24, 79).

Le soluzioni giuridiche

La Corte Costituzionale, richiamandosi ai principi già enunciati rispetto ad identiche questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla medesima Corte d'Appello di Reggio Calabria, con l'ordinanza n. 124 del 2014, ha motivato la pronuncia di manifesta infondatezza rilevando che la questione sollevata si fonda su un erroneo presupposto interpretativo, in quanto il comma 3 dell'art. 2-bis della l. n. 89/2001, nella parte in cui prevede che la misura dell'indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore [...] al valore del diritto accertato dal giudice», deve essere inteso nel senso che si riferisce ai soli casi in cui questi accerti l'esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, il cui valore accertato «costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte che chiede l'indennizzo aveva nel processo presupposto», con la conseguenza che la disposizione, non comporta anche l'impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

La soluzione della Corte Costituzionale è condivisibile, in quanto, a differenza di quanto ritenuto dai giudici a quo nel prospettare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2-bis, comma 3, legge c.d. Pinto con riferimento all'art. 6 CEDU, in relazione all'art. 117 Cost., all'interno della legge 24 marzo 2001, n. 89, possono trarsi diversi indici normativi idonei a consentire di pervenire ad una differente interpretazione della predetta disposizione.

In particolare, l'art. 2, comma quinquies, legge c.d. Pinto, introdotto dalla medesima legge 7 agosto 2012, n. 134, esclude, tra l'altro, il diritto all'equa riparazione per la parte che sia stata condannata per responsabilità aggravata da lite temeraria ex art. 96 c.p.c.: considerato che presupposto di tale responsabilità processuale è la totale soccombenza della parte che agisce o resiste in giudizio con mala fede o colpa grave, l'espressa esclusione del diritto all'indennizzo in tale fattispecie sarebbe priva di significato laddove la mera soccombenza precludesse la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione.

In realtà la norma in considerazione, ossia quella che esclude la liquidazione di un indennizzo superiore al quantum del diritto accertato, deve essere collocata tra le disposizioni rilevanti ai soli fini della determinazione dell'equa riparazione e non già della sussistenza del relativo diritto, in conformità, del resto, alla rubrica della disposizione «misura dell'indennizzo» (cfr. C. Consolo – M. Negri, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell'indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all'epoca della – supposta – spending review), in Corr. Giur., 2013, 1431).

La prospettiva nella quale va correttamente intesa tale disposizione è infatti quella di evitare che, all'interno di controversie di limitato valore economico, si finisca per liquidare indennizzi “esorbitanti” rispetto a tale valore, in coerenza, peraltro, con il nuovo sistema di accesso al giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo dopo l'entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla CEDU che esclude, invero, tale accesso in mancanza di un danno rilevante.

Resta fermo il problema pratico sotteso alle diverse ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, i.e. evitare nella prassi il paradossale risultato di liquidare importi maggiori alle parti soccombenti rispetto a quelle che vedono riconosciuto soltanto in parte il diritto fatto valere e per le quali il quantum del diritto accertato costituisce un limite “invalicabile”. La soluzione dovrebbe essere rinvenuta nella valorizzazione degli indici dei quali il Giudice deve tener conto nella concreta commisurazione dell'indennizzo ex art. 2056 c.c., ossia l'esito del processo nel quale si e' verificata la violazione di cui al comma 1 dell'art. 2, l. n. 89/2001, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

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