Il giornalista, le opinioni politiche e i “trucchi” illeciti per carpire gli altrui orientamenti

18 Gennaio 2016

Pur in presenza di un elevato interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni divulgate si configura in ogni caso l'illiceità della condotta posta in essere dal giornalista nell'acquisizione e diffusione di una conversazione telefonica in violazione del dovere di correttezza qualora difetti il requisito relativo all'impossibilità di conseguire altrimenti l'informazione.
Massima

Pur in presenza di un elevato interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni divulgate si configura in ogni caso l'illiceità della condotta posta in essere dal giornalista nell'acquisizione e diffusione di una conversazione telefonica in violazione del dovere di correttezza qualora difetti il requisito relativo all'impossibilità di conseguire altrimenti l'informazione. È necessaria quindi la verifica che i dati in esame e le modalità della loro raccolta e diffusione siano giustificati rispetto a uno scopo informativo non altrimenti conseguibile.

Il caso

ll Tribunale di Milano ha confermato il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali, con il quale era stata dichiarata l'illiceità della acquisizione e diffusione della conversazione telefonica intercorsa tra l'ex Ministro Barca e un imitatore dell'allora Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, ideata ed eseguita dalla radiotrasmissione “La Zanzara” di Radio 24 – Il sole 24 ore s.p.a. I fautori dello scherzo erano riusciti a raccogliere e diffondere informazioni personali e politiche della vittima dello scherzo, ingannando l'ex Ministro e sfruttando la vera amicizia intercorrente tra questi e Nichi Vendola.

Il Tribunale Ambrosiano afferma che «l'interesse pubblico alla conoscenza di fatti di rilievo collettivo va tutelato e perseguito nel rispetto dei principi e delle regole poste a tutela del trattamento dei dati personali e non può rappresentare un'esigenza, superiore ed immanente, in nome della quale acquisire e trattare dati personali in spregio delle regole che disciplinano l'attività giornalistica».

La questione

La questione in esame è la seguente: con quali modalità il giornalista può acquisire notizie ed informazioni relative ai dati personali di terzi soggetti?

Le soluzioni giuridiche

Secondo l'art. 4, comma 1° lett. b), D.lgs. n. 196/2003 (noto come “Codice della Privacy”), è dato personale «qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale». Una nozione piuttosto ampia, che fa ritenere il dato personale come qualunque informazione il cui utilizzo può portare alla identificazione, anche indiretta, di un soggetto. Sono dati personali, quindi, non solo le generalità e l'immagine di un individuo, ma anche il numero della carta di identità, dell'utenza telefonica e della carta di credito, il codice fiscale, l'indirizzo di posta elettronica, la targa automobilistica, la voce, le impronte digitali.

Vi sono, poi, alcuni dati personali che non si limitano ad identificare un soggetto, ma ne indicano una particolare condizione. Sono i dati sensibili, che per l'art. 4, comma 1, lett. d), Codice della Privacy sono quei «dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

Il trattamento dei dati personali consiste in “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati” (art. 4, comma 1, lett. a), Cod. Privacy).

Le regole generali sul trattamento dei dati personali sono molto precise. In estrema sintesi, chi intende operare un trattamento deve preventivamente informare l'interessato (ossia colui al quale i dati si riferiscono) circa finalità, limiti e conseguenze del trattamento stesso: è l'informativa di cui all'art. 13, Cod. Privacy. Subito dopo deve ottenerne il consenso (art. 23 Cod. Privacy). Il trattamento che riguarda dati sensibili, oltre a necessitare del consenso scritto dell'interessato, deve essere espressamente previsto dalla legge o da uno specifico provvedimento autorizzativo del Garante.

Invece, norme particolari sono previste per il trattamento effettuato dai giornalisti. Non è necessaria alcuna autorizzazione del Garante. E il giornalista che effettua il trattamento non ha l'obbligo di ottenere il consenso dell'interessato, anche quando il trattamento riguarda dati sensibili (art. 137, commi 1° e 2°, Cod. Privacy). Ciò significa che il giornalista può liberamente e autonomamente crearsi la propria banca dati.

Tuttavia, al momento della raccolta del dato personale, il giornalista sarebbe comunque obbligato a rendere l'informativa di cui all'art. 13 Cod. Privacy. Ma è un obbligo dal peso certamente trascurabile se raffrontato con quello che incombe sugli altri soggetti tipo responsabili del trattamento.

Infatti, già lo stesso Cod. Privacy all'art. 139 prevede che il codice di deontologia possa adottare «forme semplificate per le informative di cui all'art. 13». Forme semplificate adottate dall'art. 2 del codice deontologico, che impone al giornalista di rendere nota all'interessato soltanto «la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta», dispensandolo dall'obbligo di fornire gli altri elementi descritti all'art. 13, obbligo invece operante per tutti i soggetti che effettuano un trattamento. Ma la stessa norma autorizza il giornalista a non identificarsi e a non rendere l'interessato edotto della finalità della raccolta dei dati quando «ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa».

È evidente come quest'ultima disposizione svuoti il contenuto dell'obbligo dell'informativa di cui all'art. 13. A parte il caso dei rischi per l'incolumità, è facile immaginare come spesso l'ostentazione della propria qualifica obbligherebbe il giornalista a rinunciare ad informare il pubblico, poiché l'interlocutore si guarderebbe bene dal fornirgli qualsiasi dato. L'omissione dell'informativa è qui prevista non tanto a tutela della professionalità del giornalista, quanto per consentire alla collettività la fruizione di informazioni che soltanto il giornalista è in grado di veicolare. Non a caso l'art. 1 del Codice di deontologia, proprio su spinta del legislatore e del Garante, ha sancito il principio che i trattamenti effettuati nell'esercizio dell'attività giornalistica «si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o di altri soggetti».

Sotto questo aspetto, il giornalista gode di una libertà di azione addirittura maggiore di quella riconosciuta agli enti pubblici, per definizione portatori di un interesse pubblico. Questi, infatti, possono trattare liberamente dati personali “soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali” e solo su autorizzazione di una legge o di uno specifico provvedimento del Garante quando il trattamento riguarda dati sensibili o giudiziari. Per giunta, l'informativa sul trattamento va dagli enti pubblici resa sempre e in forma integrale, senza possibilità di una qualche “forma semplificata”, o addirittura di una esenzione, come è invece previsto per i giornalisti.

Ciò evidenzia il carattere indubbiamente pubblicistico dell'attività giornalistica, con riferimento non solo al momento informativo, ma anche a quelle operazioni (prima fra tutte: l'acquisizione della notizia) che, precedendo la pubblicazione della notizia, sono strumentali ad essa ed implicano quasi sempre un trattamento di dati personali.

In tale sede si evidenzia come alla attività giornalistica e altre manifestazioni del pensiero trovano applicazione gli artt. 136-139 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) al fine di contemperare il diritto all'informazione e la libertà di stampa con altri diritti della persona, in particolare quello alla riservatezza. Intervento legislativo reso necessario dalla semplice considerazione del congenito "antagonismo" tra una attività di per sé finalizzata alla diffusione, la più ampia possibile, di notizie e informazioni, rispetto ad una sfera di interessi che, specie se relativi alla salute o alla sessualità (i cosiddetti "dati sensibili"), sono invece destinati a restare sottratti ad un indiscriminato altrui accesso.

In base a tale disciplina, il giornalista può diffondere dati personali, anche senza il consenso dell'interessato, purché nei limiti del diritto di cronaca "e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione rispetto a fatti di interesse pubblico" (art. 137, comma 3, del Codice).

Si applicano, altresì, le disposizioni poste dal codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica. In particolare, l'art. 2 del citato codice deontologico stabilisce che il giornalista, già nella fase della raccolta delle notizie, è tenuto a rendere «note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa», e altresì a evitare «artifici e pressioni indebite».

Parametro fondamentale adottato dal Garante per effettuare il bilanciamento tra esercizio del diritto di cronaca (articolo 21 Cost.) e tutela dei dati personali è il principio di essenzialità dell'informazione su fatti di interesse pubblico. In occasione di fatti di cronaca, anche gravi, si è assistito alla diffusione dell'indirizzo dell'interessato (in un caso della persona che in passato aveva convissuto con la vittima di un delitto), un comportamento che è stato censurato (Autorità garante per la protezione dei dati personali, provvedimento del 12 ottobre 1998). Lesiva del principio di essenzialità è stata ritenuta anche la prassi adottata da un quotidiano di pubblicare – all'interno di una sezione dedicata alle informazioni sul traffico cittadino e sul sistema dei trasporti pubblici – i numeri delle targhe ed altre informazioni relative alle automobili parcheggiate irregolarmente (Autorità garante per la protezione dei dati personali, nota dell'11 marzo 2002). In altri casi il Garante ha ritenuto lecita, senza che la testata giornalistica dovesse dimostrare la sussistenza del requisito dell'essenzialità dell'informazione, la pubblicazione di dati assoggettati per legge ad un regime di pubblicità. Ad esempio ha dichiarato infondato il ricorso presentato da un imprenditore che aveva chiesto il blocco dei dati relativi al proprio reddito diffusi da un quotidiano locale sulla base di quanto pubblicato dall'amministrazione finanziaria (provvedimento del 17 gennaio 2001). Il Garante ha infatti affermato che, essendo tali informazioni rese accessibili dall'amministrazione finanziaria e destinate ad un'ampia pubblicità in base a norme di legge o di regolamento, la successiva pubblicazione è da ritenersi lecita.

Sotto altro aspetto, nell'art. 2 del codice di deontologia si scorge un preciso limite all'attività di raccolta di dati personali. Il giornalista – dice la norma «evita artifici e pressioni indebite». Ora, nessun dubbio sull'opportunità di vietare al giornalista «pressioni indebite».

Anche il principio, generalissimo e non esclusivo dell'attività giornalistica, della correttezza e lealtà nella fase della raccolta dei dati (contenuto nell'art. 11 Cod. Privacy) è stato costantemente applicato nella “giurisprudenza” della Autorità. Il 22 luglio 1998 l'Autorità, con una decisione molto discussa (provvedimento del 22 luglio 1998) si è pronunciata sulla trasmissione da parte di un programma televisivo satirico e all'insaputa dell'interessato di alcune dichiarazioni di un parlamentare pronunciate “fuori onda” subito prima di un'intervista nello studio di un telegiornale. In quell'occasione è stato ribadito che i dati e le informazioni devono essere raccolti dal giornalista con lealtà e correttezza, “senza violenza o inganno e in un quadro di trasparenza”, come evidenziato anche nel Codice deontologico, che prevede l'obbligo di informativa, seppure semplificata, e il dovere di evitare “artifici e pressioni indebite”. Nel caso specifico era evidente la convinzione dell'interessato di non essere oggetto di registrazione in quel determinato momento. Dunque, ha sostenuto il Garante, i responsabili della trasmissione avrebbero dovuto astenersi dal diffondere la registrazione, malgrado lo sfondo satirico nel quale essa veniva inserita, e quantomeno avrebbero dovuto darne tempestiva notizia all'interessato ponendolo in grado di esprimere il proprio punto di vista ed, eventualmente, di opporsi all'ulteriore trattamento.

In altri termini, deve essere esclusa la possibilità che un giornalista possa usare "artifici" per svolgere la sua attività, dovendo altresì rendere nota la sua professione a meno che vi siano rischi per la propria incolumità o non possa, altrimenti, adempiere alla funzione informativa. É illecito, quindi, utilizzare per un servizio giornalistico brani di conversazioni ed immagini di colloqui privati ripresi con una telecamera nascosta senza che vi siano fondati motivi. Per questo il Garante Privacy con provvedimento del 5 luglio 2007 ha ordinato ad una televisione via satellite di non trasmettere più un servizio giornalistico e di cancellarlo dal proprio sito Internet. Accogliendo i ricorsi di tre imam, ai quali si erano rivolti due giornalisti fingendosi coniugi di fede musulmana alla ricerca di un consulto religioso, il Garante ha ritenuto che siano stati violati i principi sulla protezione dei dati personali e del codice deontologico in materia di giornalismo e in particolare quelli relativi all'obbligo del giornalista di rendere note le finalità di un colloquio - ossia di star raccogliendo informazioni per un servizio giornalistico - e di evitare l'uso di “artifici”. Pur sussistendo, infatti, l'interesse pubblico a conoscere le opinioni delle guide religiose di alcune delle principali moschee italiane sull'uso del velo da parte delle donne, dalla ricostruzione dei fatti è emerso che i giornalisti non hanno informato gli imam né dell'uso della telecamera, né che le loro dichiarazioni sarebbero state utilizzate per un servizio giornalistico.

Ad ogni buon conto al fine di comprendere cosa debba consistere l'“artificio” la cui adozione rende illecita la raccolta di dati personali sarebbe opportuno far leva sul carattere invasivo della condotta del giornalista nei riguardi di eventuali persone. Per fare degli esempi, il giornalista che registra un colloquio compromettente tra due persone dopo essersi introdotto nella loro abitazione spacciandosi per idraulico o per prete, adotta senz'altro un artificio invasivo della loro sfera privata. Non chi, invece, camuffatosi da musicista di strada, cattura le immagini dell'alto magistrato mentre si reca a casa del famoso politico alla vigilia della sentenza che lo assolverà.

Osservazioni

I veri, unici limiti che il giornalista incontra nel trattamento di dati personali riguardano la loro comunicazione e diffusione. Qui non basta che la comunicazione (a uno o più soggetti determinati) e la diffusione (a un numero indeterminato di persone) siano «funzionali all'esercizio della professione e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità», come è richiesto per gli altri tipi di trattamento. Secondo l'art. 137, comma 3°, Cod. Privacy, la comunicazione e la diffusione di dati personali incontrano «i limiti del diritto di cronaca (…) e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico».

Ciò significa che la diffusione di dati personali che, come tali, identificano o rendono identificabile una persona (in particolare, le generalità e l'immagine) deve rispettare i tradizionali requisiti su cui si basa il diritto di cronaca. Di conseguenza, oltre ad essere esatti nel rispetto del requisito della verità, la diffusione dei dati personali deve rispondere ad una reale esigenza informativa nel rispetto del requisito dell'interesse pubblico. È chiaro che qui nessun problema di “continenza formale” può porsi, essendo inconcepibile la “forma espositiva” in un trattamento di dati personali.

Da tutto questo si ricava che l'aspetto dell'interesse pubblico è nel Codice della Privacy particolarmente sentito.

Sotto questo aspetto si può dire che l'art. 137, comma 3°, Cod. Privacy rappresenta la codificazione del diritto alla riservatezza. La tutela del dato personale è lo strumento attraverso cui viene garantito quel diritto. E la diffusione di un dato personale in violazione della legge sulla privacy può portare alla lesione del diritto alla riservatezza. Considerando dati personali sia il nome che l'immagine di un individuo, la norma ne subordina la legittimità della diffusione alla sussistenza di un interesse pubblico. Solo in questo caso un individuo può essere “identificato” dalla collettività e il relativo “fatto” sganciato dalla sua sfera privata.

È evidente, altresì, che la raccolta dei dati personali non può avvenire in violazione dei princìpi in materia di protezione dei dati personali e, in particolare, dell'obbligo, sussistente in capo a chi effettua trattamenti a fini giornalistici, di evitare "artifici" (art. 2, comma 1, del cod. Privacy, ultima parte).

Né, può ritenersi invocabile la particolare esimente prevista dallo stesso articolo 2 del codice deontologico nella parte in cui prevede la possibilità di omettere l'informativa, nei casi in cui sussistano «rischi per la incolumità del giornalista o impossibilità all'esercizio della funzione informativa».

Si tratta di casi connotati da eccezionalità, come si evince anche dall'accostamento (all'interno della stessa esimente) della fattispecie dell'impossibilità di esercizio della funzione informativa a quella del rischio (dovuto appunto all'assolvimento dell'obbligo di informativa) per l'incolumità del giornalista. Questa equiparazione dimostra, quindi, come anche la fattispecie alternativa (inerente l'impossibilità di esercizio della funzione informativa) debba essere caratterizzata da analoga gravità. L'esimente non può, infatti, essere riferita a casi nei quali le informazioni vengono acquisite attraverso un mero artificio consistito, nel caso di specie, dall'aver utilizzato identità e voce di una persona amica, inducendo così fraudolentemente l'interlocutore a manifestare considerazioni del tutto confidenziali, rispetto alle quali anche il personaggio pubblico deve poter avere una legittima aspettativa di riservatezza.

Diversamente opinando, ovvero ritenendo applicabile l'esimente in questione anche nell'ipotesi di ricorso a pratiche ingannevoli, quali il mascheramento dell'identità dell'interlocutore o la simulazione, si legittimerebbe un'interpretatio abrogans della disposizione di cui all'articolo 2 del codice deontologico, che finirebbe con il giustificare il ricorso a qualsiasi mezzo, pur connotato da raggiri e artifici, al fine di carpire informazioni confidenziali e riservate.

Né potrebbe ritenersi che l'interesse pubblico, pur sotteso all'oggetto della conversazione, di per sé renda lecito l'intero trattamento, a prescindere dalla liceità o meno della raccolta. Infatti, accedendo a questa tesi non vi sarebbe più alcun limite nella correttezza dell'acquisizione delle notizie e qualsiasi metodo di raccolta verrebbe legittimato "in ragione del fine" e per ciò solo. I profili della legittimità della raccolta e della legittimità della divulgazione vanno invece considerati autonomamente, non ritenendo che quest'ultimo assorba comunque il primo.

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