Danno da nascita indesiderata: l’onere della prova grava sulla gestante

Antonio Scalera
19 Maggio 2017

Il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza, ricorrendone le condizioni di legge, ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale.
Massima

Il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza - ricorrendone le condizioni di legge - ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale; quest'onere può essere assolto tramite "praesumptio hominis", in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.

Il caso

Un bambino nasce a termine con una grave menomazione in quanto privo della mano sinistra. Dal momento che tale malformazione fetale non era stata rilevata durante il periodo di gestazione, nemmeno in sede di ecografia morfologica eseguita durante la ventunesima settimana, i genitori, in proprio e quali legali rappresentanti del figlio minore, adiscono il Tribunale di Monza per chiedere il risarcimento dei danni. Sia il Giudice di prime cure che la Corte d'Appello di Milano respingono il gravame; la coppia pertanto ricorre ora in Cassazione.

La questione

È risarcibile il danno lamentato dai genitori di un bambino, la cui malformazione alla mano sinistra non era stata rilevata in sede di ecografia morfologica alla ventunesima settimana di gravidanza della madre?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, conferma la decisione dei giudici di merito, che avevano ritenuto insussistente, nella fattispecie in esame, il diritto al risarcimento del danno dei genitori del bambino malformato.

In particolare, i giudici di legittimità hanno preliminarmente richiamato l'arresto delle Sezioni Unite (Cass. Civ., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767), in base al quale il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza, ricorrendone le condizioni di legge, ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale; quest'onere può essere assolto tramite "praesumptio hominis", in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.

Ciò premesso, la Suprema Corte ha ritenuto che il giudice di prime cure, facendo sostanziale applicazione dei suindicati principi, avesse correttamente verificato, alla luce del dato normativo e delle risultanze in atti, se ricorressero in fattispecie processi patologici tra cui quelli relativi a anomalie o malformazioni del nascituro determinanti un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La corte territoriale era del pari correttamente pervenuta a negare che sussistesse una situazione tale da poter legittimare, a termini di legge, un'eventuale scelta di interruzione della gravidanza da parte della donna, ritenendo che non ricorresse un grave pericolo per la sua salute psichica ed escludendo che l'introduzione, con quattro mesi di anticipo, della terapia di sostegno, sarebbe stata evenienza in grado, comunque, di apportare apprezzabili modificazioni sull'evoluzione del processo patologico. La Corte aveva, infine, correttamente escluso che la protrazione nel tempo di un determinato sintomo patologico equivalesse, per ciò solo, ad un sintomo grave.

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, richiamato in premessa dalla sentenza in rassegna, costituisce una posizione mediana tra due diversi orientamenti in punto di onere della prova nelle fattispecie di danno da nascita indesiderata.

Un primo orientamento riteneva che si potesse configurare una presunzione generalizzata, sufficiente a fornire la prova de qua ricavabile, in via implicita, dall'allegazione da parte della donna di essersi sottoposta ad analisi in fase prenatale (Cass. civ., n. 6735/2002; Cass. civ., 4 gennaio 2010 n. 13; Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2010 n. 22837; Cass. civ., 13 luglio 2011 n. 15386); un secondo orientamento, invece, considerava indispensabile un indice certo della volontà abortiva della donna in caso di malformazioni del feto, quale, ad esempio, una dichiarazione avente tale contenuto (Cass. civ., sez. III, 2 ottobre 2012 n. 16754; Cass. civ., n. 7269/2013; Cass. civ., sez. III, 10 dicembre 2013 n. 27528 e Cass. civ., n. 12264/2014) da collocarsi sotto il profilo temporale in una fase precedente alla diagnosi.

Le Sezioni Unite hanno affermato che la relativa prova possa essere raggiunta tramite praesumptio hominis.

Da un lato, infatti, il Giudice della nomofilachia sottolinea che il radicale esonero dalla parte attrice dalla prova del nesso causale tra inadempimento e danno, sulla base della sufficienza della presunzione di conformità del suo comportamento a "regolarità statistica", non trova alcun aggancio normativo («il legislatore non esime in alcun modo la madre dall'onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all'interruzione della gravidanza, nonché della sua conforme volontà di ricorrervi»): e in questo senso deve essere disattesa la giurisprudenza per cui la mera allegazione dell'attrice che «si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza» sarebbe sufficiente a dimostrare «la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso» (Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2010 n. 22837), realizzandosi altrimenti l'effetto, già criticato in dottrina, di consentire ad una delle parti l'autoattestazione di una «sequenza causale quasi obbligata», superabile soltanto da una «prova contraria che, anche per le caratteristiche del fatto da provare e per il soggetto che ne è gravato, finisce per essere inattingibile».

Dall'altro lato, le Sezioni Unite osservano che imporre alla madre la dimostrazione - senza l'ausilio di presunzioni semplici - che avrebbe fatto ricorso a pratiche abortive rende nei fatti impossibile l'assolvimento della sua incombenza probatoria: ad essa verrebbe richiesto di provare non soltanto uno status interno meramente soggettivo, del quale «non si può fornire una rappresentazione immediata e diretta», ma prima ancora una "ipotesi" più che di "un fatto storico", tanto da non potersi neanche dire che essa «sia oggetto di prova in senso stretto».

La Corte aderisce, allora, ad una soluzione intermedia che, pur assegnando espressamente l'onere probatorio alla parte attrice, ne stempera i caratteri più gravosi rendendo assolvibile il compito anche tramite il ricorso a presunzioni semplici, che possono fondarsi «anche su circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche, emergenti dai dati istruttori raccolti», quali il «ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro» e le «pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all'opzione abortiva».

Osservazioni

Alla luce della pronuncia in esame, si ricava che, ove venga errata la diagnosi prenatale, decorsi i novanta giorni, i genitori che abbiano fatto nascere il bambino nella convinzione che fosse sano possono domandare il risarcimento dei danni solo allorché ricorrano congiuntamente i seguenti elementi:

  1. le condizioni legittimanti l'interruzione della gravidanza ex l. 194/1978, artt. 6 e 7, in combinata lettura;
  2. la prova che la volontà degli stessi si sarebbe diversamente determinata se avessero conosciuto la verità;
  3. il danno subito a causa della preclusione dell'esercizio della facoltà abortiva.

In modo specifico, la scelta abortiva (il fatto cioè che l'accertamento dell'esistenza di anomalie o malformazioni avrebbe indotto la madre ad interrompere la gravidanza), può essere provata tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi forniti dagli attori, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'azione abortiva in caso di malformazione del feto, ecc.

È consentita, inoltre, la prova contraria con efficacia liberatoria da parte del medico che dimostri che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.

Ovviamente non può escludersi che tale dimostrazione si renda non necessaria alla stregua del principio di non contestazione. Le Sezioni Unite lo affermano espressamente allorché osservano che la questione dell'onere della prova potrebbe non porsi ove controparte dia per pacifiche le circostanze allegate dall'attrice a fondamento della domanda.

Guida all'approfondimento

G. BILO', Nascita e vita indesiderate: i contrasti giurisprudenziali all'esame delle sezioni unite, in Corriere Giur., 2016, 1, 41;

C. CATALIOTTI, Responsabilità medica da nascita indesiderata: soggetti legittimati alla richiesta risarcitoria e relativo onere della prova, in Ridare.it;

E. PALMERINI, Il "sottosistema" della responsabilità da nascita indesiderata e le asimmetrie con il regime della responsabilità medica in generale, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2011, I, 464;

M. RUSSO, Legittimazione ad agire - omessa informativa sulle condizioni per l'interruzione della gravidanza: spunti in materia di legittimazione e prova, in Giur. It., 2016, 6, 1392.

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