Responsabilità per danno da prodotti difettosi

Ivan Dimitri Calaprice
18 Giugno 2014

La responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto. Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato - ai sensi dell'art. 8 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (trasfuso nell'art. 120 Cod. Cons.) - la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno.
Massima

Cass. civ., sez. III, 29 maggio 2013, n. 13458

La responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto. Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato - ai sensi dell'art. 8 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (trasfuso nell'art. 120 Cod. Cons.) - la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno.

Sintesi del fatto

La pronuncia in esame trae origine dalle azioni distintamente promosse da un medico chirurgo contro la società produttrice e quella importatrice e distributrice di uno strumento da sala operatoria (segnatamente: una pinza medica da taglio).

Il medico – assunto di aver utilizzato detto strumento per la prima volta in occasione di un intervento chirurgico – lamentava l'immediata insorgenza di disturbi nella parte del corpo venuta a contatto con esso, ovvero le prime due dita della mano destra, disturbi poi sfociati – nella sua prospettazione - in una parestesia.

Nel rappresentare la vicenda il professionista precisava inoltre che soltanto un mese dopo il fatto aveva ritenuto di poter riferire il danno in parola ad un difetto di funzionamento dello strumento chirurgico utilizzato.

In primo grado le sue doglianze venivano rigettate sul presupposto della mancanza della prova circa l' esistenza del nesso causale tra il danno lamentato e l'asserito difetto del prodotto, nel mentre, in sede di gravame, la decisione veniva ribaltata sulla scorta di un percorso logico presuntivo che si snodava su due direttrici principali:

i) l'esperienza professionale dell'attore rende difficile la sostenibilità della tesi dell'inappropriatezza dell'uso dello strumento;

ii) l'insorgenza dei disturbi fisici subito dopo l'uso della pinza da taglio induce a ritenere ragionevole la riconducibilità ad un difetto di funzionamento della stessa.

La questione

L'intervento del Giudice di legittimità - che ha cassato con rinvio la pronuncia d'appello - ridefinisce i confini della categoria logico-giuridica della responsabilità civile da prodotto difettoso, chiarendo, sulla scorta del richiamo ad una normativa di matrice comunitaria oggi trasfusa nel Codice del Consumo, che è vero che essa prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore ma che – al contempo - ciò non significa che non sussista in capo all'attore l'onere di dimostrare l'esistenza di un "difetto" del prodotto, e dunque di un collegamento causale tra difetto e danno.

La svolta è di notevole rilievo. Lo si comprende meglio allargando lo spettro di indagine al contesto in cui tale pronuncia è stata elaborata.

Con questo obiettivo va premesso, anzitutto, che il tema su cui Piazza Cavour interviene è una di quelle declinazioni della responsabilità civile in cui si avverte nitidamente l'ispirazione e l'incidenza dell'acquis communautaire.

La prima strutturazione organica della disciplina in materia di responsabilità del produttore per danno da prodotti difettosi è stata, infatti, il d.P.R n. 224/1988 emanato proprio in attuazione di una direttiva comunitaria (segnatamente la n. 1985/374/CEE).

Si trattava di un articolato di appena sedici norme che muoveva dal principio secondo cui “Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” (principio subito assunto da larga parte della letteratura giuridica quale fondativo di un sistema di responsabilità oggettiva ascrivibile – a sua volta – entro l'ampio paradigma dei rischi ontologicamente connessi all'esercizio dell'attività di impresa) e da quello secondo cui per prodotto deve intendersi qualunque bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile, nonché l'elettricità.

Restavano inizialmente esclusi i prodotti agricoli del suolo e quelli dell'allevamento, della pesca e della caccia, purché non avessero subito trasformazioni.

Nel 2001, con il d.lgs. n. 25/2001, mutava invece la prospettiva e – in attuazione di una nuova direttiva comunitaria – ovvero la n. 1999/34/CEE – la nozione di prodotto veniva nuovamente ricalibrata, estendendone i confini semantici alle fattispecie precedentemente espunte per via espressa e così contemplando, dunque, anche il prodotto di origine agroalimentare.

Il d.lgs.n. 206/2005 (più noto come Codice del Consumo) - a sua volta necessitato da (ed ispirato a) ben quattordici direttive comunitarie richiamate nei visto introduttivi - ha attratto l'intera disciplina nella parte IV del testo, rubricata “Sicurezza e qualità”, e dunque entro la sfera del corpus normativo più imponente – in tema di tutela dei consumatori - del nostro intero ordinamento.

Successivamente, il d.lgs. n. 221/2007, intervenendo sulla nozione di produttore ne aveva circoscritto in forma compiuta la portata concettuale.

Il produttore veniva così definitivamente identificato nel fabbricante del prodotto finito o di una sua componente e nel produttore della materia prima, nonché, per i prodotti agricoli del suolo e per quelli dell'allevamento, della pesca e della caccia, rispettivamente nell'agricoltore, allevatore, pescatore e cacciatore.

Può ben affermarsi – con notevole sforzo di sintesi - che l'attuale disciplina della responsabilità del produttore – oggi organicamente raccolta nel Codice del Consumo – ha il merito di aver significativamente potenziato le leve di tutela del consumatore, riscrivendo i contorni delle categorie logico-giuridiche che ne segnano la nomenclatura.

E' in questo quadro normativo che si deve leggere la pronuncia in commento, fra i cui contenuti spicca la riflessione su alcuni aspetti che hanno scosso le fondamenta dell'istituto al punto da imporne una netta riqualificazione, non più sic et simpliciter in termini di responsabilità “oggettiva” ma – più aderentemente alla modulazione dell'onere della prova che essa postula – in termini di responsabilità “presunta”.

Le soluzioni giuridiche

Sul piano del diritto vivente, le questioni di maggiore momento e di più severa dirompenza affrontate dagli Ermellini in questa sentenza sono essenzialmente tre:

1) il naturale disancoramento della legitimatio ad causam dalla qualità di “consumatore”;

2) la modulazione della categoria normativa di difettosità del prodotto alla filigrana del testo letterale dell'art. 5 del d.P.R n. 224/1988 (oggi trasfuso nell'art. 117 Cod. Cons.) e la sua distinzione dal “vizio” della cosa di cui all'art. 1490 c.c.;

3) la regolazione dell'onere della prova, di portata talmente significativa da incidere – come detto - sulla stessa natura di questa forma di responsabilità.

Si guardi ai temi con ordine.

Quanto al primo profilo va detto che una delle società ricorrenti aveva rilevato come già dalla lettura dei considerando della direttiva n. 85/374/CEE cui la normativa nostrana ha dato attuazione può rilevarsi il difetto di legittimazione attiva del medico per avere egli dichiaratamente agito non già quale "consumatore" ma in ragione di danni conseguenti all'esercizio della propria attività professionale.

La Corte di Cassazione osserva, però, che il rilievo non è pertinente, richiamando l'attenzione sul fatto che la disciplina in parola ha per oggetto il "danno da prodotti difettosi", e, dunque, profila una responsabilità che – per definizione - prescinde dall'accertamento della colpa del produttore in quanto discendente dalla mera "utilizzazione" del prodotto difettoso.

In ragione di tale opzione definitoria del Legislatore è dunque legittimato ad agire chiunque si sia trovato esposto, anche in maniera occasionale, al rischio derivante dal prodotto difettoso, riferendosi la tutela accordata al mero "utilizzatore" in senso lato e, quindi, senza lasciare spazio alcuno a margini di dubbio, ad una semplice persona fisica.

Depone in questo senso – osserva la Suprema Corte - anche la constatazione che la normativa in parola fa menzione del soggetto "danneggiato" e non scomoda affatto la figura (e le problematiche applicative che essa reca con sé) del “consumatore”.

A questo tema si salda, dipoi, quello della ricalibrazione della categoria normativa di difettosità del prodotto, di cui al punto 2 che precede.

Su questo tema il ragionamento della Suprema Corte è teso a sottolineare che tanto il vecchio art. 5 del d.P.R n. 224/1998 quanto il suo odierno omologo, ovvero l'art. 117 Cod. Cons., definiscono "difettoso" “non ogni prodotto insicuro ma quel prodotto che non offra la sicurezza che ci si può legittimamente attendere in relazione al modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, alla sua presentazione, alle sue caratteristiche palesi, alle istruzioni o alle avvertenze fornite, all'uso per il quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato, e ai comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere, al tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione”.

Questa soluzione lessicale deve orientare a ritenere – scrivono i Giudici - che il valore che il Legislatore si era prefissato di tutelare dovesse essere concettualmente affine - e dunque giuridicamente assimilabile - alla sfera semantica della nozione di sicurezza e non a quella del "vizio della cosa " come inteso dal Codice civile (articolo 1490 c.c. e seg.), il quale si identifica in un' imperfezione del bene ma può anche non implicare un'insicurezza del prodotto.

In questa prospettiva, scrivono gli Ermellini, “il livello di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve, perciò, considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo, piuttosto, farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall'utenza in relazione alle circostanze specificamente indicate dall'articolo 5 o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell'ambito dei quali, ovviamente, possono e debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia”.

Osservazioni e suggerimenti pratici

E' dopo aver tratteggiato questi principi che la Suprema Corte ha voluto sfruttare l'occasione per ribadire quali debbano essere i presidi concettuali che legittimano – nello svolgimento di un percorso argomentativo – l'uso delle c.d. presunzioni semplici ex art. 2727 c.c., ovvero:

1) la necessità che si fondino su un fatto noto e non su mera valutazione o ipotesi;

2) la gravità, intesa quale valutazione complessiva dell'incidenza delle stesse, informata a criteri di ragionevole certezza e finanche su mere basi probabilistiche;

3) la precisione, intesa quale determinatezza nella realtà storica del fatto noto;

4) la concordanza, intesa quale difetto di dissonanza tra esse sul piano probatorio;

5) il divieto di doppia presunzione (c.d. praesumptio de praesumpto), inteso quale iter paralogico volto ad elevare a rango di fatto noto una mera presunzione allo scopo di affidare valenza probatoria ad altra presunzione come conseguenza (il)logica di essa.

Va da sé che Piazza Cavour – nel cassare la pronuncia d'appello al suo esame – stigmatizza l'assenza di tali premure argomentative nel percorso logico seguito dal Giudice di seconde cure, il quale aveva – di fatto – coordinato due presunzioni semplici, ovvero:

1) l'esperienza del medico chirurgo, acriticamente assunta quale mera valutazione soggettiva e peraltro astratta dalla commisurazione all'uso effettivo dello strumento chirurgico di cui si discettava, nonché

2) la mera asserzione dell'attore di aver patito un danno a seguito dell'uso di quello strumento.

Con la conseguenza di far discendere dal cennato coordinamento –in un quadro di “inammissibile semplificazione del rapporto di causalità” - la responsabilità del produttore della pinza di cui trattasi.

In questo circolo deduttivo completamente viziato il danno è stato così fallacemente considerato quale elemento di prova indiretta dell'esistenza del difetto del prodotto. Tanto sull' illogico presupposto che va considerato difettoso ogni prodotto che presenti in astratto un'attitudine a produrre danno.

La Corte ristabilisce ordine e così, riqualificando il tema dell'onere della prova e ricesellando gli anelli della catena presuntiva, interviene anche sugli assetti generali dell'istituto discusso davanti ai suoi scranni.

Va onestamente segnalato che, molto tempo prima dell'intervento della Suprema Corte, un chiaro filone dottrinario, muovendo da altro punto di partenza (ovvero l'esistenza della tipizzazione delle ipotesi di difettosità del prodotto ex art. 123 Cod. Cons.) aveva già profilato questa responsabilità in termini assolutamente incompatibili con una responsabilità oggettiva, sostenendo che essa può essere tecnicamente genuina solo quando prescinde del tutto dalla valutazione qualitativa del prodotto e si aggancia alla circostanza della verificazione in rerum natura di un evento dannoso eziologicamente riconducibile all' atto di messa in circolazione dello stesso (in questo senso G. Ghidini, La direttiva CEE: vera responsabilità oggettiva?, Milano, 1970, pag. 222).

Conclusioni

La sentenza in parola lascia chiaramente concludere, quindi, che ogni valutazione prognostica sulla efficace sostenibilità in giudizio di un danno da prodotto difettoso debba necessariamente essere filtrata da un preliminare vaglio del livello di intensità del collegamento causale tra difetto e danno stesso, anche affidandosi agli strumenti presuntivi ma non senza aver prima debitamente verificato la necessaria coesistenza di quei presidi concettuali che il loro uso implica e presuppone allo scopo di evitare di incappare in falsi (e perciò stesso rovinosi) sillogismi.

Il travisamento della portata e dei limiti di utilizzazione dello strumento ex art. 2727 c.c. e – da qui – l' evanescente vaghezza di un intero sentiero logico-deduttivo costituisce quindi uno dei più significativi motivi di censura nella prospettazione di Piazza Cavour la quale, dunque, mette in guardia dall'uso acritico di categorie presuntive svincolate da fatti storici e – in un singolare episodio di eterogenesi dei fini – ridisegna – a partire dalla trattazione di una questione meramente processuale (il tema dell'onere della prova) i confini di un istituto di diritto sostanziale.

Proprio su questo ultimo piano va infine segnalato che - nel medio periodo - la materia potrebbe essere nuovamente interessata da una nuova riqualificazione dei canoni definitori che la connotano e disciplinano.

Lo scorso 15 aprile 2014 il Parlamento Europeo ha infatti approvato una proposta di modifica di due direttive comunitarie sul tema della sicurezza dei prodotti, segnatamente la n. 87/357/CEE e la n. 2001/95/CE, dando impulso ad un progressivo processo di ristrutturazione dei paradigmi della responsabilità del produttore nell'intero spazio comunitario e così offrendo, prospetticamente, nuovi e fecondi spunti argomentativi agli appassionati del tema.

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