La condotta colposa dell’incapace può escludere il nesso di causalità?

20 Gennaio 2017

In caso di danni subiti dal soggetto incapace, a quali condizioni la condotta colposa dell'incapace è in grado di elidere il nesso di causalità per il fatto del terzo?
Massima

Quando un soggetto incapace di intendere e di volere, per minore età o per altra causa, subisca un evento di danno, in conseguenza del fatto illecito altrui in concorso causale con il proprio fatto colposo, l'indagine deve essere limitata all'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso.

Il caso

I genitori di una minore promuovevano un giudizio per ottenere il risarcimento dei danni patiti dalla loro figlia che per riconcorrere l'autobus aveva perso l'equilibrio, finendo in terra e riportando danni fisici in conseguenza dello schiacciamento alla gamba sinistra. Nei due gradi di giudizio di merito, la domanda attorea era rigetta sul rilievo della imputabilità esclusiva dell'evento alla condotta della minore.

I giudici di legittimità, con la pronuncia i commento, confermano la statuizione dei giudici di merito.

La questione

La questione in esame è la seguente: in caso di danni subiti dal soggetto incapace, a quali condizioni la condotta colposa dell'incapace è in grado di elidere il nesso di causalità per il fatto del terzo?

La soluzione giuridica

La ratio legis dell'art. 2046 c.c. è solo quella di escludere la responsabilità civile dell'autore di un fatto che cagiona ad altri un danno ingiusto, quando viene a mancare (per la incapacità naturale di intendere e volere) l'elemento soggettivo della imputabilità e cioè della responsabilità a titolo soggettivo.

La disposizione codicistica subordina la risarcibilità del danno extracontrattuale alla sussistenza dell'imputabilità, ossia alla capacità di intendere e di volere dell'autore del fatto lesivo, non rilevando in materia di illecito la capacità legale. Quest'ultima è richiesta in materia di rapporti obbligatori; in caso di illecito, invece, l'ordinamento ritiene che anche un minore di età, purché capace di intendere e di volere, sia in grado di comprendere le conseguenze dannose che da un certo comportamento possono derivare e, per converso, che un maggiore d'età, anche se legalmente capace, può non essere in condizione di comprendere il significato delle proprie azioni e di autodeterminarsi.

Anche se, formalmente, la norma di cui all'art. 2046 c.c. non introduce una definizione della nozione di imputabilità, ma enuncia una regola di irresponsabilità, sostanzialmente il contenuto precettivo generale degli artt. 85 c.p. e 2046 c.c. è identico. Pertanto, il concetto di imputabilità coincide con quello di capacità di intendere o di volere. In altre parole, non vi è imputabilità in caso di incapacità naturale e, cioè, nell'ipotesi in cui vi sia difetto di coscienza o di volontà.

Come affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., n. 2425/1975), in tema di imputabilità del fatto dannoso opera, nel campo civile, un sistema diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore per l'imputabilità nel campo penale, laddove è la stessa legge che fissa le cause che la escludono, mentre, a norma dell'art. 2046 c.c., compete al giudice civile accertare caso per caso, se, in relazione all'età, allo sviluppo fisico-psichico, alle modalità del fatto o ad altre ragioni, debba escludersi o meno la capacità di intendere o di volere.

La norma dev'essere interpretata nella logica connessione con quella dell'art. 2043 c.c., che appunto presuppone l'elemento soggettivo della colpa e del dolo.

Dal coordinamento (logico sistematico) tra le norme richiamate (artt. 2043 e 2046 c.c.) si deduce che il soggetto che versi nelle condizioni di incapacità d'intendere e volere di cui all'art. 2046 c.c. (cd. incapacità naturale, provvisoria o definitiva) è esentato dalla responsabilità civile ma non dalla determinazione dell'apporto causale. Vale dunque il principio della c.d. equivalenza delle cause allorché, in presenza di una pluralità di fatti, l'antecedente abbia contribuito direttamente o indirettamente, alla produzione dell'evento o degli eventi lesivi (Cass. civ., n. 2737/1988).

Il nesso eziologico è spezzato solo dal principio della c.d. causalità efficiente nel senso che una sola serie causale, sin dall'origine e per forza propria, sia stata determinante dell'evento, o degli eventi (Cass. civ., sez. III, 30 marzo 1985 n. 2234).

In relazione alla ipotesi del danno autoprodotto dall'incapace si pone il problema dell'applicazione dell'art. 1277, comma 1, c.c. (richiamato, per la responsabilità extracontrattuale, dall'art. 2056 c.c.).

Si tratta, come è intuitivo, di spiegare come sia possibile ipotizzare una «colpa» a carico dell'incapace, posto che la condotta di quest'ultimo, in ragione del suo stato, non può essere qualificata nei termini della volontarietà.

Già a metà degli anni sessanta la Corte Suprema a sezioni unite (Cass. civ., n. 351/1964) aveva affermato che la regola enunciata nel comma 1 dell'art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui il danneggiato sia incapace, ricomponendo in tale modo un conflitto che aveva segnato la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità (Cass. civ., n. 1749/1950; Cass. civ., n. 1697/1953; Cass. civ., n. 827/1962).

A decorrere dalla sentenza n. 351/1964, la Corte non ha invece più avuto oscillazioni e l'insegnamento in essa contenuto è stato seguito dalla giurisprudenza successiva, sicché oggi l'orientamento secondo il quale il comma 1 dell'art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso dell'incapace è assolutamente univoco e dominante (Cass. civ., n. 1736/1978; Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 1983 n. 1442).

La sentenza della Corte del 1964 non prende peraltro posizione in ordine all'autonomia delle nozioni di colpevolezza ed imputabilità ed esclude l'applicabilità dell'art. 2046 c.c. all'ipotesi del concorso di colpa (non già in ragione dell'impossibilità di dare un giudizio nei termini della colpa, stante l'incapacità, ma) sull'assunto che la fattispecie ivi prevista sarebbe delimitata alla sola ipotesi del danno cagionato dall'incapace (non già a sé medesimo bensì) a terzi.

In questa direzione sembra collocarsi quella posizione della giurisprudenza di legittimità che ha affermato che nel caso di danno provocato ad un incapace la responsabilità dell'autore materiale del fatto sussiste solo se è confermata la colpa di quest'ultimo, con esclusione della percentuale ascrivibile al comportamento del danneggiato (Cass. civ., 16 aprile 1992 n. 4691; Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 1983 n. 1442).

Pertanto, l'art. 2046 c.c., è norma applicabile in caso di fatto imputabile all'incapace quando le conseguenze pregiudizievoli si siano prodotte a danno di terzi, non anche quando l'incapace sia il danneggiato. In tale eventualità trova applicazione il principio di diritto per il quale quando un soggetto incapace di intendere e di volere, per minore età o per altra causa, subisca un evento di danno, in conseguenza del fatto illecito altrui in concorso causale con il proprio fatto colposo, l'indagine deve essere limitata all'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso, prescindendo dall'imputabilità del fatto all'incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo, ed il risarcimento al danneggiato incapace è dovuto dal terzo danneggiante solo nella misura in cui l'evento possa farsi risalire a colpa di lui, con l'esclusione della parte di danno ascrivibile al comportamento dello stesso danneggiato (Cass. civ., sez. III, 5 maggio 1994 n. 4332; Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2009 n. 14548; Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2012 n. 3242).

L'insoddisfazione per tale tipo di soluzione, che finisce con il far gravare sull'incapace il danno da lui cagionato (sulla pretesa esistenza di una sua «colpa»), è stata fatta propria dal Tribunale di Genova il quale ha ritenuto di sollevare il sospetto di illegittimità costituzionale dell'art. 1227, comma 1, c.c., per violazione del principio di eguaglianza (Trib. Genova, 23 maggio 1977).

La Corte Costituzionale ha respinto tali dubbi, dichiarando che l'equiparazione del trattamento anche nei riguardi dell'incapace risulta giustificata dal rilievo che il comportamento del creditore, sia egli capace o no, si pone egualmente come un evento di cui il debitore, che non l'ha cagionato, ragionevolmente non deve rispondere (C. cost. n. 14/1985).

La giurisprudenza rimane quindi attestata sull'affermazione della rilevanza giuridica del contributo causale della condotta del soggetto incapace che abbia concorso alla produzione dell'evento.

Osservazioni

Il richiamo operato dalla Corte alla regola della causalità, tende a produrre ulteriori equivoci.

Se infatti le esigenze equitative meritano di essere condivise, numerose perplessità solleva, il richiamo operato alla regola causale, con l'esplicita dichiarazione che il principio della riduzione del risarcimento in caso di danno unilaterale con la colpa concorrente del danneggiato, costituisce applicazione logica del più generale principio della rispettiva efficienza delle colpe concorrenti, ai fini della determinazione del quantum di danno di cui deve rispondere ciascun concorrente. In altre parole, secondo la Corte di Cassazione, l'elemento subiettivo (della capacità) avrebbe rilevanza (solo) ai fini della responsabilità e non già ai fini del diritto al risarcimento subito.

A prescindere dal fatto che un simile principio non esiste nel nostro ordinamento (ma semmai, in relazione all'art. 2055 c.c., esiste l'opposto principio), deve condividersi la tesi in base alla quale l'art. 1227 c.c. svolge la stessa funzione preventiva che nel campo della responsabilità altrui è svolta dall'art. 2043 c.c.: gli incapaci di intendere e di volere non possono pertanto considerarsi destinatari di tale previsione, a motivo che non sono in grado di conformare la propria condotta in modo tale da evitare il danno.

Le – pur innegabili – esigenze di giustizia di cui si fa portatrice la giurisprudenza neppure sembrano essere motivabili introducendo una nozione di «colpa» obiettiva. La soggezione al concorso anche nel caso di danno procurato dall'incapace può infatti essere giustificata sulla considerazione, secondo la quale l'art. 1227 c.c. è espressione del principio generale in base al quale nessuno può invocare il risarcimento del danno da lui stesso provocato.

Correlativamente, chi ha subito un danno deve sopportare quella parte di danno che sia ricollegabile alla sua condotta, ma non quello che si deve mettere in collegamento con fattori a lui esterni, compreso quello dell'altrui condotta, quand'anche incolpevole.

Che, quindi, una parte del danno finisca con il gravare sull'incapace non è perché può a lui essere rimproverata una «colpa», neppure in senso «oggettivo», ma perché nessuna colpa (pro-misura) è riscontrabile nella condotta del coautore: in assenza di validi criteri di trasferimento del danno, quest'ultimo non potrà che rimanere là dove si è collocato.

Ancora in tempi recenti, in fattispecie di sinistro da circolazione di autoveicoli, è stato così sostenuto che la prova della incapacità di intendere e di volere di uno dei due conducenti esclude solo la responsabilità di uno ma non anche la comparazione della valenza causale delle due condotte. Giustificata è allora la proporzionale riduzione del risarcimento, in ragione dell'entità percentuale del contributo causale della condotta dell'autore incapace, dovuto dall'altro conducente, il quale risponde solo nei limiti dell'incidenza causale del suo comportamento. E ciò sia nel caso in cui la colpa di quest'ultimo sia stata in concreto accertata, sia in quello in cui la colpa debba essere, invece, presunta perché è mancata la prova liberatoria richiesta dall'art. 2054 c.c. (Cass. civ., sez. III, 29 aprile 1993 n. 5024).

Secondo i costanti assunti della giurisprudenza, in tale ipotesi l'indagine deve essere quindi limitata a conoscere l'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso, prescindendo dall'imputabilità del fatto all'incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo: nel risarcimento dovuto rimane pertanto esclusa quella parte di danno ascrivibile al comportamento della vittima (Cass. civ., sez. III, 5 maggio 1994 n. 4332).

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