Danno da sovraffollamento carcerario tra giurisprudenza Cedu e nazionale

Giuseppe Fiengo
21 Luglio 2015

La lesione della dignità umana derivante da carenze della struttura detentiva è risarcibile ai sensi degli artt. 2051 c.c. e art. 3 CEDU. Il risarcimento è quantificabile in base all'art. 35-ter L. n. 354/1975 anche per illeciti anteriori all'entrata in vigore di tale norma.
Massima

La lesione della dignità umana derivante da carenze della struttura detentiva è risarcibile ai sensi degli artt. 2051 c.c. e art. 3 CEDU ed il risarcimento è quantificabile in base all'art. 35-ter, L. n. 354/1975 anche per illeciti anteriori all'entrata in vigore di tale norma.

Il caso

Tizio, detenuto presso la casa circondariale di Palermo, conviene in giudizio il Ministero della Giustizia chiedendone la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale per lesione della dignità cagionata da carenze della struttura detentiva (in particolare, per eccessivo numero di detenuti presenti in celle di ridotte dimensioni, mancanza di acqua calda e riscaldamento, precarietà dei servizi igienici) e dalle modalità di gestione della vita carceraria (numero di ore trascorse all'interno della cella, difficoltà di accedere ad attività educative e ricreative).

Il Tribunale, ricondotti i profili relativi alle carenze della struttura detentiva all'art. 2051 c.c. e alla giurisprudenza di Strasburgo (ritenuta direttamente applicabile) relativa all'art. 3 CEDU ed applicati i principi affermati dalla Corte EDU circa la valutazione dell'onere della prova nelle controversie connotate da sperequate posizioni tra le parti quanto alla disponibilità di dati rilevanti ai fini della decisione, ha (sulla base di ordinanza del magistrato di sorveglianza parzialmente difforme dalla relazione del direttore del carcere prodotta dal Ministero) ritenuto fondate le allegazioni del ricorrente pur se limitatamente alle denunziate carenze della struttura carceraria. Accertato l'illecito, il giudice ha poi quantificato il risarcimento del danno in 8 euro per ciascun giorno di pregiudizievole detenzione sulla base dell'art. 35-ter, L. n. 354/1975 pur consapevole della non applicabilità, ratione temporis, di tale normain via diretta al caso concreto.

La questione

Quali norme tutelano la dignità umana in ambito carcerario? Quale regime probatorio vige in materia di danno da sovraffollamento carcerario? Come si quantifica il danno da sovraffollamento carcerario?

Le soluzioni giuridiche

Il provvedimento in esame affronta una questione destinata a riproporsi con grande frequenza nelle aule giudiziarie: il risarcimento del danno da inumana detenzione.

Come noto, la Corte europea dei diritti dell'uomo, rilevata l'esistenza di un problema strutturale relativo alle condizioni delle carceri in Italia, ha, con la sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia(sulle peculiarità della sentenza pilota si veda B. Randazzo, Il giudizio dinanzi alla Corte europea dei diritti: un nuovo processo costituzionale, in riv. AIC, n. 4/2011, pp. 33 ss.), assegnato all'Italia un termine (prorogato al giugno 2015) entro il quale adottare misure rimediali al sovraffollamento carcerario.

A tale scopo è stato introdotto l'art. 35-ter, L. n. 354/1975 che prevede, in caso di detenzione in violazione dell'art. 3 CEDU, la possibilità per il magistrato di sorveglianza di adottare una sorta di risarcimento in forma specifica, riducendo la pena detentiva ancora da eseguire di un giorno per ogni dieci giorni durante i quali il richiedente ha subito il pregiudizio ovvero attribuisce al magistrato di sorveglianza o al giudice civile (quest'ultimo da adire ai sensi degli artt. 737 ss. c.p.c.) il potere di riconoscere un risarcimento del danno pari ad euro 8 per ogni giorno per il quale v'è stato il pregiudizio.

La norma non ha introdotto un nuovo illecito (Cass. pen., sez. I, sent. 15 gennaio 2013, n. 4772 aveva già affermato la risarcibilità di una simile lesione da parte del giudice civile), ma, oltre ad aver attribuito un'atipica competenza risarcitoria al magistrato di sorveglianza, ha predeterminato l'entità del risarcimento.

Nell'affrontare la questione della (dubbia) natura della responsabilità per inumana detenzione il provvedimento in esame opta per la tesi aquiliana e richiama l'art. 2051 c.c. nonché l'art. 2043 c.c. e la giurisprudenza di Strasburgo formatasi sull'art. 3 CEDU. Fermo qualche dubbio circa l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. (più che da caratteristiche intrinseche della cosa in custodia la responsabilità pare discendere dall'utilizzo che della cosa fa l'amministrazione), la tesi della natura extracontrattuale appare oggi maggioritaria (in termini, Trib. Roma, 30 maggio 2015, Trib. Torino, 6 maggio 2015) anche se non si è mancato di evocare la responsabilità da contatto sociale per violazione degli artt. 6, L. n. 354/1975 e artt. 6 e 7 D.P.R. 230/2000 (Trib. Palermo, 6 maggio 2015) e, potrebbe sostenersi, dello stesso art. 3 CEDU che «pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell'assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana» (Corte Edu, sent., 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, § 65).

La questione, come è evidente, non ha rilievo solo teorico atteso che, in caso di responsabilità da contatto sociale vi sarà sia un più lungo termine di prescrizione (decennale e non quinquennale) del diritto al risarcimento, sia un notevole ridimensionamento dell'onus probandi a carico del preteso danneggiato che dovrà solo provare la propria detenzione ed allegare l'inadempimento dell'amministrazione penitenziaria, tenuta invece a dimostrare che la detenzione è stata rispettosa della dignità umana. Nel caso di responsabilità aquiliana sul ricorrente graverà invece un più intenso onere della prova. Va tuttavia condivisa la soluzione accolta dal provvedimento in esame che, richiamata la sentenza Torreggiani secondo la quale nel caso di persone soggette al controllo esclusivo degli agenti dello Stato non è possibile applicare in modo rigoroso il principio affirmanti incumbit probatio poiché «inevitabilmente, il governo convenuto è talvolta l'unico ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o infirmare le affermazioni del ricorrente» (§ 72), ha posto a carico del ricorrente un onere della prova meno rigoroso rispetto a quello di regola vigente in materia di responsabilità aquiliana.

Da ultimo, in assenza di sicuri parametri di liquidazione del risarcimento, il giudice siciliano, pur a fronte di un pregiudizio patito prima dell'introduzione dell'art. 35-ter, ha applicato tale norma riconoscendo un risarcimento di complessivi euro 4320; scelta non particolarmente coraggiosa alla luce della non applicabilità diretta dell'art. 35-ter e di quanto a breve si dirà.

Osservazioni

Al fine di adeguare l'ordinamento interno alle prescrizioni derivanti dalla Corte di Strasburgo in materia di condizioni detentive il legislatore ha, tra l'altro, introdotto l'art. 35-ter, L. n. 354/1975. Nel prevedere, quale misura rimediale preferenziale, un risarcimento in forma specifica che si sostanzia nella riduzione della pena, la disposizione pare conformarsi all'indicazione resa nella sentenza Torreggiani secondo la quale la tutela effettiva del diritto dei detenuti sancito dall'art. 3 CEDU richiede la coesistenza di rimedi preventivi e compensativi (non a caso, nella successiva sentenza Stella c. Italia la Corte di Strasburgo ha, al § 58, osservato come la riduzione della pena presenta «l'innegabile vantaggio di contribuire a risolvere il problema del sovraffollamento accelerando l'uscita dal carcere delle persone detenute»).

Se, sotto tale profilo, la norma è apprezzabile, non può non rilevarsi come la stessa abbia già sollevato rilevanti perplessità.

Ad esempio, se – senza dubbio - il magistrato di sorveglianza decide i ricorsi nei quali si alleghi un'attuale detenzione in contrasto con l'art. 3 CEDU (art. 35-ter, commi 1 e 2, L. n. 354/1975) ed il giudice civile i ricorsi presentati da chi non sia più detenuto (art. 35, comma 3), l'interprete è chiamato a risolvere la questione della competenza sulle domande svolte dal detenuto che lamenti una pregressa (e non più attuale) inumana detenzione.

Secondo alcuni (tra gli altri, M. sorv. Catania, 11 marzo 2015) tali domande possono essere conosciute dal solo giudice civile, poiché l'art. 35-ter, comma 1, fa riferimento al «pregiudizio di cui all'articolo 69, co. 6, lett. b» (cioè ad un pregiudizio «attuale»). In senso contrario, alla luce di un'interpretazione della norma convenzionalmente orientata, si è osservato (M. sorv. Sassari, 18 novembre 2014) che l'incompetenza del magistrato di sorveglianza precluderebbe l'applicazione del pur preferibile (e possibile) risarcimento in forma specifica; in tale (condivisibile) prospettiva il magistrato di sorveglianza è quindi competente in tutti i casi di attualità della detenzione e non di attualità della sola violazione.

Ancora, incerta è la natura della responsabilità dell'amministrazione. Allo stato appare quindi prudente – nella prospettiva del danneggiato - porre alla base della domanda tanto la responsabilità da contatto sociale (che, come segnalato, presenta un regime più favorevole per il preteso danneggiato) quanto, in subordine, la responsabilità aquiliana (in tal caso richiamando la giurisprudenza sovranazionale e nazionale che limita l'onere della prova a carico del ricorrente).

Da ultimo, se (nella prospettiva di uniformità delle decisioni) è apprezzabile la predeterminazione normativa del risarcimento per equivalente, non può non rilevarsi come (nonostante una certa positiva valutazione resa nella sentenza Stella ed altri § 60), la previsione di un importo fisso (insensibile a qualsiasi adeguamento al caso concreto) e di entità non elevata, suscita dubbi circa la conformità del rimedio adottato all'art. 13 CEDU interpretato come norma di rilievo non solo processuale, ma dalla immediata portata anche sostanziale.

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