Gli incerti presupposti della condanna aggravata per lite temeraria

Ludovico Berti
22 Febbraio 2016

Il presupposto per la condanna per responsabilità aggravata per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c., rappresentato dall'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, sussiste qualora una parte prima del giudizio non abbia liquidato un danno che sapeva di aver cagionato.
Massima

Il presupposto per la condanna per responsabilità aggravata per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c., rappresentato dall'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, sussiste qualora una parte prima del giudizio non abbia liquidato un danno che sapeva di aver cagionato, nell'essersi difesa sulla base di circostanze poi rilevatesi equivoche e trascurabili, nell'aver confidato che la controparte straniera avrebbe avuto difficile accesso alla giustizia e, quindi, nell'aver sostanzialmente messo in atto una condotta mirata a condurre la controparte ad accettare una svantaggiosa transazione per evitare di sottostare ai lunghi tempi della giustizia.

Il caso

Un pedone, mentre attraversava una strada, in orario notturno ed in assenza di strisce pedonali, veniva investito da una vettura che, a seguito della brusca frenata, veniva a sua volta tamponata da un'altra vettura che sopraggiungeva da tergo e che la spingeva nuovamente contro il pedone sul corpo del quale saliva con la scocca. Il pedone, per ottenere il risarcimento dei danni, conveniva in giudizio i proprietari/conducenti delle due vetture e le rispettive assicurazioni. All'esito del giudizio il Tribunale, accoglieva la domanda attorea, ripartendo le responsabilità sulla base di un concorso di colpa dei due conducenti (95%-5%) e condannava le rispettive compagnie, in solido, al risarcimento del danno ed al pagamento per responsabilità aggravata di € 100.000 pari al quadruplo delle spese legali.

La questione

Se sussista la mala fede o colpa grave ex art. 96, comma 3, c.p.c. quando una parte, prima della causa, non abbia riconosciuto il risarcimento in favore del danneggiato, risultato poi vittorioso all'esito del giudizio, quando si sia difesa adducendo circostanze rilevatesi poi infondate e se dal fatto che il danneggiato sia uno straniero senza fissa dimora, si possa presumere che la controparte abbia agito in mala fede, sperando nel suo difficile accesso alla giustizia.

Le soluzioni giuridiche

Il comma 3 dell'art. 96 c.p.c., introdotto con la novella del 2009 (l. 18 giugno 2009, n. 69, recante «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile») ha stabilito un meccanismo che deve ritenersi non solo e non tanto risarcitorio, quanto anche e soprattutto sanzionatorio in virtù della finalità di scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia. Tale meccanismo è sottratto alla rigorosa prova del danno, in quanto unicamente condizionato all'accertamento di una condotta di grave negligenza, o addirittura malafede processuale, della controparte. Alcuni infatti parlano di una sorta di ”danno punitivo” giacché per siffatta condanna non è richiesta né la domanda di parte, né la dimostrazione del pregiudizio subito, rientrando l'accertamento della condotta e la liquidazione del danno nel potere d'ufficio del giudice.

Lo ratio della norma è la repressione del danno che viene arrecato direttamente alla controparte, ma indirettamente anche all'erario, con la congestione degli uffici giudiziari e l'incremento del rischio del superamento del canone costituzionale della ragionevole durata del processo, con ricadute anche di tipo risarcitorio, stante il pericolo di condanna dello Stato alla corresponsione dell'indennizzo ex l.n. 89/2001.

È pacifico che lo scopo sia quello di scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia, deflazionando il contenzioso ingiustificato ma trattandosi di sanzione d'ufficio, svincolata da qualsiasi attività di parte, è opportuno interrogarsi sull'ampiezza della discrezionalità riservata al giudice nella sua applicazione per evitare disparità di trattamento, dipendenti dal grado di tolleranza del singolo organo giudiziario.

Il presupposto per l'applicazione della norma è che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, in spregio del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta.

Più in particolare la Cassazione ha precisato che la condanna per responsabilità processuale aggravata per lite temeraria non può derivare dal solo fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che si accerti la ricorrenza della mala fede o della colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell'ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle suddette tesi (Cass., n. 6675/2015).

Non è quindi sufficiente prospettare una difesa poi rilevatasi infondata ma è necessario che si accerti «la palese infondatezza della tesi prospettata il cui sostegno significhi non intelligere quod omnes intelligunt», come è stato ritenuto nel caso in cui si era sostenuta la corresponsabilità di una delle società editrici convenute nella pretesa diffamazione commessa ai loro danni per il semplice fatto che i due quotidiani venissero venduti congiuntamente, atteso che, per elementare principio di diritto, acquisibile secondo una diligenza minima ex art. 1176 c.c., una società editrice di un quotidiano non può rispondere del contenuto degli articoli pubblicati da un giornale di altro editore (Cass. n. 4930/2015).

Pertanto, per potersi parlare di una lite temeraria per motivi pretestuosi, concetti del tutto coerenti con la colpa grave di cui all'art. 96 c.p.c. ci deve essere la «colpevole ignoranza» dell'infondatezza della tesi sostenuta, e cioè quella inconsistenza giuridica che ben poteva essere apprezzata con l'uso dell'ordinaria diligenza, in modo da evitare di imbastire una pretesa del tutto pretestuosa (Cass., n. 27534/2014) come nel caso di tesi ed eccezioni già rigettate da costante e pacifica giurisprudenza (Cass., n. 24546/2014, ma nello stesso senso anche Cass., n. 3003/2014 e cass., n. 21570/2012).

Secondo una significativa definizione contenuta in una decisione del Tribunale di Trento, la lite temeraria è quella«la cui ingiustizia è più completa perché sta nell'animo stesso del litigante. La temerarietà è la coscienza dell'ingiusto, dell'aver torto» (Trib. Trento, 6 maggio 2014)

Ne consegue che, anche se il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. ha introdotto nell'ordinamento processuale civile una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell'avversario, ciò che sembra necessario è che nel valutare la ricorrenza dei presupposti applicativi della norma citata, non si prescinda mai dalla verifica del profilo soggettivo, ossia dall'accertamento della rimproverabilità del comportamento della parte perdente in termini di dolo o colpa grave. (Trib. Bari, sez. II, 6 marzo 2014, n. 1273).

Sulla scorta di tali pacifici principi, è stata ad esempio ritenuta sussistente la responsabilità aggravata nel caso in cui l'opponente il decreto ingiuntivo aveva fissato in citazione l'udienza di comparizione a distanza di 6 mesi dalla notifica con evidente intento dilatorio e strumentale (Trib. Milano, sez. IV, 2.12.2014 n. 1428), nel caso in cui si era proceduto ad iscrivere ipoteca giudiziale sulla scorta di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo dopo l'integrale pagamento della sorte capitale (Trib. Firenze, 30 settembre 2014) nel caso in cui si era negato un titolo invece pacificamente ammesso in fase stragiudiziale (Trib. Bari, sez. III, 5.03.2014, n. 1167), oppure, infine, nel caso in cui le generiche eccezioni sollevate non erano state successivamente supportate da idonea documentazione e si erano richiesti i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., senza depositare alcuna memoria (Trib. Milano, sez. IV, 20 marzo 2014, n. 3900, in Guida al diritto 2014, 38, 43). Tali condotte, costituiscono evidenti indici del carattere dilatorio e strumentale della resistenza in giudizio e sintomi, quantomeno, di una grave negligenza nell'utilizzo degli strumenti processuali.

La sentenza in commento, dopo aver accertato la responsabilità concorsuale dei due conducenti, ha disposto in via solidale, la condanna aggravata per lite temeraria ritenendo sussistente la mala fede/colpa grave della assicurazioni, sulla base delle seguenti testuali considerazioni:

  1. «in quanto è evidente che hanno resistito in giudizio senza aver liquidato il danno che, stante le competenze della compagnia, certamente era ben nota alla parte»;
  2. «Nella rappresentazione dei fatti, hanno enfatizzato elementi del tutto trascurabili o addirittura equivoci (è sufficiente pensare che la strada non era dotata di strisce pedonali, sicché non ha traversato “al di fuori di strisce pedonali” ma “in assenza delle stesse”)»;
  3. «Infine lo status di straniero senza fissa dimora…è notoriamente elemento che gioca a sfavore della vittima, come certamente noto alle compagnie assicuratrici, che difficilmente avrà accesso alla giustizia».

Secondo la motivazione, a tali condotte delle compagnie assicurative va imputato l'enorme contenzioso che rallenta la giustizia, essendo esclusivamente finalizzate ad indurre i danneggiati ad accettare somme inferiori al dovuto per evitare le lungaggini ed i rischi della giustizia. Tollerare tali comportamenti corrisponderebbe, quindi, ad assecondare la inaccettabile logica di carattere meramente economico delle compagnie che vanno pertanto condannate per mala fede e/o colpa grave.

Osservazioni

Le considerazioni svolte nella motivazione della sentenza in commento a sostegno della sussistenza della mala fede o colpa grave delle assicurazioni non appaiono conformi ai principi espressi in materia dalla giurisprudenza che, a più riprese, ha precisato che non è sufficiente sostenere tesi difensive poi rilevatesi infondate, dovendosi accertare se le stesse fossero consapevolmente infondate e, quindi, sollevate con l'unico intento dilatorio e strumentale.

Nella fattispecie, il fatto di aver sostenuto che il pedone attraversasse «fuori dalle strisce pedonali», piuttosto che «in assenza delle stesse», ritenuto dal Giudice indicativo di mala fede, appare del tutto irrilevante, soprattutto sotto l'aspetto giuridico poiché, in entrambi i casi, il pedone avrebbe dovuto concedere la precedenza ai veicoli che sopraggiungevano ex art. 190, comma 5, Cod. Strada ed il fatto che il Giudice abbia immotivatamente ritenuto tale circostanza «trascurabile ed equivoca», non può costituire il presupposto per la condanna aggravata dal momento che, tenuto conto del fatto che l'attraversamento pedonale non c'era e che il sinistro si è verificato di una via altamente trafficata ed in assenza di illuminazione, tale difesa, oltre che essere del tutto coerente con la norma del C.d.S. appena richiamata, era altresì opportuna.

Quanto sostenuto dalle compagnie convenute appare, quindi, rientrare nel diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e non può rappresentare il pretesto per sostenere la sussistenza di mala fede o colpa grave, poiché, altrimenti, di responsabilità aggravata si dovrebbe discutere in ogni giudizio ove, alla fine, una parte sarà inevitabilmente soccombente.

Quanto meno criptica, e comunque in contrasto con la decisione, è la considerazione secondo la quale le compagnie avrebbero resistito in giudizio senza aver liquidato un danno che sapevano esistente, presumibilmente stigmatizzando il fatto di non aver effettuato offerte prima del giudizio poiché, tenuto conto della complessa dinamica del sinistro, non può essere ritenuta consapevolmente infondata, e quindi meramente pretestuosa, la condotta delle convenute che hanno atteso l'esito dell'accertamento giudiziale, prima di procedere al pagamento del risarcimento.

Ne è conferma il fatto, e qui sta la contraddizione, che una parte sia stata condannata, sulla base di un non motivato concorso, al pagamento del solo 5% del risarcimento e quindi, anche se a tutti poteva essere nota l'esistenza del danno, assolutamente controversa era la sua imputabilità con la conseguenza che nessuna mala fede, nel caso concreto, può essere automaticamente imputata alle convenute per non aver effettuato offerte risarcitorie prima che si accertasse quale delle due dovesse pagare o secondo quale grado di corresponsabilità dovessero entrambe rispondere.

Il fatto che il danneggiato fosse straniero e quindi le assicurazioni si sarebbero approfittate del suo status per incentivarlo ad accettare un risarcimento inferiore per evitare il giudizio non può che essere presa per una critica soggettiva nei confronti delle compagnie, colpevoli dell'enorme contenzioso che paralizza il sistema giustizia ma, oggettivamente, non avente il carattere di “notorio” e, quindi, inidonea, a livello giuridico, a supportare una presunzione di mala fede o colpa grave delle convenute.

Inoltre, adeguatamente motivato dovrebbe essere anche il criterio di liquidazione di tale sanzione che nel presente caso è stata liquidata nell'esorbitante somma del quadruplo delle spese legali pari ad €. 100.000,00, oltre accessori di legge, nonostante altre pronunce, in assenza di parametri di legge di riferimento, abbiano prudenzialmente fatto riferimento ai criteri della legge Pinto e, quindi, a somme comprese nel range tra i 500 ed i 1500 €, per ogni anno di giudizio.

In conclusione, per la peculiarità della sanzione che consiste in una liquidazione d'ufficio svincolata dalla domanda di parte e relativa allegazione e prova, e quindi, totalmente affidata alla discrezionalità del giudice, è opportuno che si proceda ad un serio e puntuale accertamento dell'elemento soggettivo che induca a ritenere esistente una condotta connotata da mala fede o colpa grave secondo quelli che sono gli ordinari canoni sanciti dalla giurisprudenza e che la liquidazione della sanzione venga ancorata a dei parametri o, comunque, se fatta secondo pura equità, venga giustificata con idonea e logica motivazione.

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