È possibile frazionare la pretesa risarcitoria?

Cristina Cataliotti
22 Ottobre 2015

Applicando la teoria della minima unità strutturale del processo, alla luce di un'interpretazione che ne contrasti l'abuso, si perviene ad una razionale giustificazione della falcidia in rito a fronte di una domanda frazionata: quest'ultima si infrange contro il giudicato che comporta la sua paralisi in rito, senza accesso al merito.
Massima

Applicando la teoria della minima unità strutturale del processo, alla luce di un'interpretazione che ne contrasti l'abuso, si perviene ad una razionale giustificazione della falcidia in rito a fronte di una domanda frazionata: quest'ultima si infrange contro il giudicato che comporta la sua paralisi in rito, senza accesso al merito.

Il caso

A seguito dell'emersione di fatti corruttivi riguardanti un Giudice di un Collegio della Corte di Appello di Roma che aveva annullato un lodo arbitrale, una Società, che era addivenuta ad una transazione “disonorevole” (economicamente) con la controparte, in diretta conseguenza della posizione di debolezza determinata dall'annullamento del lodo, ad essa favorevole, richiede i danni patrimoniali e non.

I primi vengono quantificati sulla base della differenza tra quanto avrebbe potuto conseguire nel negoziato ante lodo e quanto ha invece dovuto sborsare post lodo; i secondi, con richiesta di condanna generica, da liquidarsi in separato giudizio, vengono ricondotti al mancato conseguimento di un processo giusto ed alla lesione della propria reputazione ed onorabilità.

In questo procedimento, pervenuto sino alla Suprema Corte (Cass. n. 21255/2013), viene riconosciuto un danno patrimoniale alla società frodata ed accolta la domanda generica di liquidazione, in separata sede, dei danni non patrimoniali.

Forte di questa statuizione della Suprema Corte, la società inizia, avanti il Tribunale di Milano, un giudizio per conseguire il risarcimento dei danni de quibus.

Incontra, però, problemi relativi a questioni di rito, che sopraggiungono inaspettati e che trovano una soluzione pregiudiziale al merito.

La questione

Il giudicante rileva che la domanda iniziale, suddividendo la pretesa tra danno patrimoniale e non patrimoniale e limitando quest'ultimo ad una condanna generica, attua un frazionamento della domanda che non pare ammissibile alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., n. 23726/2007), giurisprudenza di recente modificata da Cass. n. 5491/2015.

Quest'ultima decisione, in modo non appagante, ritiene che il frazionamento della pretesa possa rilevare solo ai fini della duplicazione delle spese.

Nel caso in parola si dà atto che la questione è tutt'ora dibattuta e si rileva che se si addivenisse ad un frazionamento della pretesa risarcitoria, verrebbe leso il principio costituzionale del necessario mantenimento della «minima unità strutturale», richiamato dall'art. 24 Cost. (oltre che dall'art. 99 c.p.c. e dall'art. 2907 c.c.).

La motivazione posta alla base di tale teoria è che la pronuncia deve investire necessariamente la questione sostanziale posta al Giudice nella sua interezza.

Tuttavia, nell'ipotesi de qua, il giudicato intervenuto sulla sentenza della Suprema Corte, vanifica ogni digressione sul punto e legittima il giudicante a determinare il quantum della già accolta condanna generica.

Le soluzioni giuridiche

Di grande interesse appare la linea argomentativa del Tribunale di Milano il quale sottolinea come, pur in presenza di una pronuncia della Suprema Corte di segno contrario (Cass. n. 5491/2015), appare difficilmente superabile il principio della separazione della domanda.

Diversamente, si verrebbe a ledere in modo irrimediabile il principio dispositivo, in virtù del quale è consentito all'attore di agire o meno in giudizio, ma non anche di disporre ad libitum dell'oggetto della domanda, frazionando il diritto soggettivo in più parti processualmente distinte.

Si verrebbe, altresì, a ledere il principio di unicità della situazione soggettiva che, anche quando è posta all'attenzione del Giudice già frazionata, non può che esaminarsi nella sua interezza.

Il Tribunale dà atto dell'opposta soluzione della più recente giurisprudenza, secondo la quale l'abusivo frazionamento della domanda giudiziale in distinti processi può dar luogo alla riunione dei procedimenti o alla condanna del creditore al pagamento delle spese processali, non già ad una pronuncia di inammissibilità delle relative domande.

Tale orientamento tende a mitigare le conseguenze sanzionatorie della condotta contraria ai doveri di buona fede e correttezza, escludendo che l'abuso possa portare ad una pronuncia in rito di inammissibilità delle domande frazionate.

Essendo illegittimo non lo strumento adottato, ma la modalità della sua utilizzazione, il rimedio deve individuarsi sul piano della riunione dei procedimenti.

Osservazioni

Quello che sorprende nella decisione del tribunale di Milano in commento è che la domanda attorea, formulata per € 32.000.000,00, sia stata invece accolta, per € 246.000,00.

Ciò deriva dal fatto che la situazione accertata nel processo principale, pervenuto alla Cassazione, riguardava la lesione del diritto, garantito dalla Costituzione, ad un giudizio reso da giudice imparziale.

Ne consegue che solo questo diritto deve essere valorizzato nell'aspetto patologico della lesione.

L'attore, avanti il Tribunale di Milano, aveva inserito pregiudizi indiretti relativi alla lesione della reputazione che avevano fatto lievitare il danno fino ad importi oltremisura rilevanti.

Il Tribunale, nel limitarlo, riconduce il danno alla mera lesione accertata nel giudizio sull'an ericorda che, nel momento in cui si svolge una domanda generica, essa deve comunque trovare preciso riferimento nel fatto accertato nel giudizio principale e nelle conseguenze immediate e dirette (art. 1223 c.c.) che ne sono derivate.

La Suprema Corte, nel definire il giudizio principale, riesamina ex funditus il complesso e mai risolto problema della causalità, partendo dalla chiara (e tradizionale) suddivisione tra il danno evento (danno materiale) ed il danno conseguenza (danno giuridico). Suddivisione riaffermata da Cass., Sez. Un., n. 576/2008.

Il primo è, secondo risalente insegnamento, retto dalla regola della condicio sine qua non, desunta dagli artt. 40 e 41 c.p., definita però dalla Cassazione, non scientifica e “muta”.

Tale regola è a volte sostituita dalla giurisprudenza da quella della causalità adeguata o del rischio.

Queste regole sono definite “regole di struttura” e sono differenziate da quelle “di funzione” che descrivono lo standard probatorio utilizzabile dal giudice per ritenere provati nel processo i fatti. Nel processo civile, per considerare raggiunta la prova, ci si avvale del criterio del “più probabile che non”; criterio che si basa, in ultima analisi, sull'affidabilità logica (razionale) del ragionamento causale.

Gli art. 40 e 41 c.p. non risolvono però il problema della causalità materiale, perché non individuano con esattezza la regola da utilizzare, cosicché solo per mera opportunità si applicano le precitate regole di struttura (condicio sine qua non, causalità adeguata, rischio).

L'art. 1223 c.c. è invece regola parlante che individua chiaramente il criterio giuridico per determinare le conseguenze rilevanti nel risarcimento del danno; essa, lungi dall'essere considerata una regola meramente causale diventa regola che interviene nella definizione tipologica del danno, descrivendolo e selezionandolo.

Dunque il danno, secondo questa pronuncia, trova unità concettuale ed il rigido criterio dell'art. 1223 c.c. (sono rilevanti solo le conseguenze immediate e dirette del danno evento) limita il danno e lo qualifica.

Da queste rigorose premesse metodologiche il Tribunale di Milano ha favorevole motivo per limitare il quantum del risarcimento unicamente al danno derivante dal mancato conseguimento di una sentenza giusta.

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