Violenza sessuale commessa dal dipendente: i lati confini della responsabilità del datore di lavoro

Barbara Vari
22 Dicembre 2014

“Per affermare la responsabilità ex art. 2049 c.c. del datore di lavoro per gli illeciti commessi dal dipendente (autore di violenze sessuali compiute in occasione dell'esecuzione di esami di radiologia, rientranti fra le mansioni lavorative del dipendente presso l'ospedale), è sufficiente un mero rapporto di occasionalità necessaria fra le incombenze lavorative e l'evento dannoso, nel senso che le prime debbono aver determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso.”
Massima

App. Milano 4 giugno 2014 n. 2073

“Per affermare la responsabilità ex art. 2049 c.c. del datore di lavoro per gli illeciti commessi dal dipendente (autore di violenze sessuali compiute in occasione dell'esecuzione di esami di radiologia, rientranti fra le mansioni lavorative del dipendente presso l'ospedale), è sufficiente un mero rapporto di occasionalità necessaria fra le incombenze lavorative e l'evento dannoso, nel senso che le prime debbono aver determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso.”

Sintesi del fatto

Una donna, socia di una cooperativa appaltatrice di servizi di pulizia, che lavora presso un ospedale, è vittima di violenza sessuale da parte di un tecnico di radiologia, dipendente dell'ente ospedaliero, durante l'esecuzione di esami diagnostici, in parte richiesti dalla donna, sia pure informalmente, ed in parte consigliati dal tecnico “in modo da creare il pretesto per potersi ritrovare da solo con la persona offesa, quasi interamente spogliata ed in condizioni tali da poter opporre una resistenza attenuata alle pesanti avances del dipendente dell'ospedale.”

Il Tribunale di Milano condanna il tecnico di radiologia e in solido, per il disposto dell'art. 2049 c.c., l'ente ospedaliero, datore di lavoro del medesimo, a risarcire i danni sofferti dalla donna. Avverso questa sentenza propone appello principale il datore di lavoro, deducendo, tra altri motivi, violazione dell'art. 2049 c.c. per non aver rilevato la mancanza del nesso di occasionalità necessaria fra i reati dolosi commessi dal tecnico radiologo e la sua condizione lavorativa. La Corte di Appello respinge il gravame proposto confermando la sentenza del giudice di prime cure.

In motivazione

“Per affermare la responsabilità ex art. 2049 c.c. del datore di lavoro per gli illeciti commessi dal dipendente, autore, in questo caso, di violenze sessuali compiute in occasione della esecuzione di esami di radiologia, almeno in parte [...] richiesti dalla stessa persona offesa e rientranti fra le (sue) mansioni lavorative [...], è sufficiente un mero rapporto di occasionalità necessaria fra le incombenze lavorative e l'evento dannoso, nel senso che le prime debbono aver determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, il che nel caso di specie non è seriamente contestabile, se si pensa che le violenze sessuali [...] ai danni della sig.ra [...] sono avvenute in orario lavorativo, nei locali del servizio di radiologia dove lo stesso prestava la sua attività di tecnico radiologo, durante l'esecuzione di esami diagnostici, in parte richiesti dalla stessa [...], sia pure informalmente, al dipendente dell'ospedale ed in parte da questi consigliati, in modo da creare il pretesto per potersi ritrovare da solo con la persona offesa quasi interamente spogliata ed in condizioni tali da poter opporre una resistenza attenuata alle pesanti avances del dipendente dell'ospedale”.

La questione

La Corte di Appello di Milano è chiamata a pronunciarsi sulla responsabilità ex art. 2049 c.c. del datore di lavoro per il reato di violenza sessuale commesso da un suo dipendente.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 2049 c.c., secondo cui “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”, è reputato il modello della responsabilità per il fatto altrui. Questa responsabilità indiretta, che secondo parte della dottrina affonderebbe le proprie radici nella responsabilità del pater familias, è stata dapprima codificata nell'articolo 1384 (al. 3) del code Napoléon, quindi riprodotta nell'art. 1153 del codice civile del 1865 e successivamente nell'attuale norma (vedi Comporti, Fatti illeciti, Le responsabilità oggettive, Artt. 2049-2053, 2009, p. 80).

La responsabilità del preponente è oggi generalmente qualificata come oggettiva (Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, Le fonti delle obbligazioni, diretto da Sacco, 1998, p. 979) e la sua ratio viene rinvenuta nel principio secondo cui chi utilizza l'attività di altri deve sopportarne anche eventuali conseguenze negative, secondo l'antica regola per cui cuius commoda eius et incommoda (richiamata anche in Cass. civ., sez. III , 4 marzo 2014, n. 5020), specialmente quale responsabilità per rischio di impresa (Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2012, n. 12448; Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, 1961, p. 57 ss.). L'imprenditore è, infatti, il soggetto che si trova nella posizione migliore per stimare i rischi collegati alla sua attività e per attuare le misure di precauzione idonee a minimizzarli; può, inoltre, “ripartirli secondo la formula della socializzazione del rischio che porta alla assicurazione della responsabilità civile” (Franzoni, L'illecito, in Trattato della responsabilità civile, 2010, p. 767; cfr. Monateri, op. cit., p. 979). Appare ovvio tuttavia che la responsabilità del preponente, come delineata dalla giurisprudenza, può portare ad addossare anche danni generati da una situazione di eccezionalità e di difficile prevedibilità per il preponente, assolvendo quindi principalmente alla funzione di garanzia per le vittime, che possono così ottenere una condanna al risarcimento a carico di un soggetto solvibile.

L'art. 2049 c.c. non prevede alcuna prova liberatoria, con i caratteri del “fatto impeditivo” (Franzoni, op. cit., p. 764), fermo restando la possibilità per il preponente di dimostrare che ci si trovi al di fuori del campo di applicazione della medesima norma, ad esempio perché il fatto non è imputabile al dipendente, oppure perché manca qualsiasi rapporto di preposizione, o ancora perché il danno è imputabile all'attività per così dire “privata” dell'autore dell'illecito (cfr. Monateri, op. cit., p. 997). Proprio guardando a quest'ultimo “confine” della responsabilità del datore di lavoro, la norma afferma chiaramente che la responsabilità datoriale sussista solo quando l'illecito sia stato cagionato dal preposto nell'esercizio delle incombenze affidategli. La costante giurisprudenza della Suprema Corte ha specificato che sia sufficiente un rapporto di “occasionalità necessaria” con l'incombenza stessa, nel senso che questa deve aver determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, anche se il dipendente ha poi operato oltre i limiti delle sue incombenze (Cass. civ., sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403), persino qualora abbia violato gli obblighi a lui imposti, o addirittura abbia integrato un'ipotesi di reato, anche doloso, come nel caso di specie (Cass. pen., sez. III, 5 giugno 2013, n. 40613; Cass. pen., sez. I, 18 gennaio 2011, n. 21195). Di fatto solo quando la condotta del dipendente è frutto di una iniziativa personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni svolte (oltre che affidate) viene a mancare il predetto nesso.

Ciò premesso, alla luce dell'ampio perimetro della responsabilità datoriale disegnato dalla nostra giurisprudenza, non sorprende che la Corte di Appello abbia condannato ex art. 2049 c.c. il datore di lavoro, proprio sulla base delle peculiarità del caso di specie, dal momento che il tecnico radiologo ha commesso il reato in orario lavorativo, nei locali del servizio di radiologia dove lo stesso prestava la sua attività di tecnico radiologo e soprattutto proprio durante l'esecuzione di esami diagnostici, in parte richiesti dalla stessa vittima, in parte da questi consigliati, così che proprio lo svolgimento di un attività legata al lavoro del preposto ha notevolmente agevolato la commissione del reato, poiché ha costituito il pretesto per potersi ritrovare da solo con la persona offesa che si sarebbe spogliata proprio per procedere ai predetti esami, ponendosi così in una situazione di vulnerabilità.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

Sebbene alcune formulazioni del fondamento della responsabilità datoriale risentano ancora del paradigma della colpa e quindi costruiscano il nesso di causalità tra la condotta e l'illecito come rapporto di compenetrazione, o di totale estraneità, tra le mansioni affidate al dipendente e la sua condotta illecita, ciò non corrisponde all'indirizzo seguito dalla giurisprudenza, che costruisce il nesso causale come intercorrente tra la posizione attribuita al dipendente e le modalità con cui si è attuata l'attività illecita dello stesso, per verificare solo, con ragionamento contrafattuale, se quest'ultima avrebbe potuto svolgersi con le medesime modalità anche se il dipendente non avesse occupato quella posizione lavorativa. Questo itinerario argomentativo risulta evidente nella giurisprudenza relativa alle truffe poste in essere dai promotori finanziari, i quali non sono certo incaricati di commettere truffe, ma possono ingannare i clienti perché accreditati dalla loro posizione lavorativa (Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2012, n. 12448; Cass. civ., sez. I, 24 luglio 2009, n. 17393; Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2004, n. 20588).

Date queste linee ricostruttive, appare ovvio che la soluzione dei casi concreti dipende dalla valutazione dei fatti case by case, perché solo la valutazione degli stessi può portare alla riconducibilità del fatto all' “esercizio delle incombenze”, piuttosto che alla sfera “privata” del lavoratore. In quest'ultimo caso è evidente che nessuna responsabilità dovrebbe essere ascritta al preponente, divenendo altrimenti il rapporto di lavoro un semplice mezzo per scaricare il risarcimento della vittima su una “deep pocket” (tasca profonda).

Tornando al caso di specie - una violenza sessuale - appare palese l'anormalità di tale illecito rispetto a qualsiasi incombenza del preposto. Tuttavia l'anomalia dello stesso non è così lontana da quella di altri reati, tanto contro le persone tanto contro il patrimonio, che integrano situazioni di eccezionalità e difficile prevedibilità per l'imprenditore, sicché un'esclusione a priori di questo reato dalla responsabilità del datore di lavoro potrebbe non essere corretta. Anche la House of Lords, nel 2002, nel noto caso Lister v. Hesley Hall (2001 UKHL 22) ha affermato che “[c]ases which concern sexual harassment or sexual abuse committed by an employee should be approached in the same way as any other case where questions of vicarious liability arise”. Sembra questa la strada intrapresa dai giudici meneghini, che già in un precedente caso di violenza sessuale sul luogo di lavoro erano giunti ad escludere il nesso di occasionalità necessaria solo e soltanto “sulla base di un esame globale delle circostanze di fatto scrupolosamente esaminate” (così la Cassazione, cui il caso era giunto in sede di gravame, in Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 27706).

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