La responsabilità del medico psichiatra per il suicidio del paziente fuggito dal ricovero

22 Dicembre 2015

L'art. 591 c.p. tutela, non già il rispetto dell'obbligo legale di assistenza in sé considerato, quanto il valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo che non deve necessariamente essersi realizzato e la condotta di "abbandono" resta integrata da qualunque azione od omissione, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo.
Massima

L'art. 591 c.p. tutela, non già il rispetto dell'obbligo legale di assistenza in sé considerato, quanto il valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo che non deve necessariamente essersi realizzato e la condotta di "abbandono" resta integrata da qualunque azione od omissione, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo. Il dolo richiesto dalla norma incriminatrice è generico e consiste nella coscienza di abbandonare a sé stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità di cui si abbia l'esatta percezione.

Il caso

Nella sentenza in commento la corte di cassazione viene chiamata a pronunciarsi all'esito di una complessa vicenda processuale che vedeva imputati per abbandono di persona incapace (inizialmente l'imputazione era anche per omicidio colposo contestato in alternativa) la responsabile di turno del reparto di psichiatria e il coordinatore del personale infermieristico della casa di cura ove era ricoverato la persona offesa.

La persona offesa, soggetto affetto da gravi patologie psichiche, con un comportamento “oniroide”, dopo le dimissioni dal reparto psichiatrico dell'ospedale di Rimini era stata ricoverata presso la casa di cura, che si caratterizzava per essere una struttura “aperta”, con possibilità anche per i pazienti di entrare ed uscire solamente azionando il bottone di apertura del cancello, senza una vigilanza o un sistema di videosorveglianza all'ingresso.

Il paziente si era allontanato dalla casa di cura; il suo corpo era poi stato rinvenuto cadavere nei pressi della struttura solo cinque anni dopo, quando il processo era già in corso, ed il particolare dopo la prima pronuncia della cassazione di annullamento con rinvio alla corte di appello.

Il giudice per l'udienza preliminare del tribunale di Rimini, all'esito del giudizio celebrato con le forme del rito abbreviato, aveva condannato entrambi gli imputati per il reato di abbandono di persona incapace, assolvendoli per il delitto di omicidio colposo, contestato in alternativa.

La corte d'assise d'appello di Bologna, riformando la sentenza di primo grado, aveva assolto entrambi gli imputati per non aver commesso il fatto. La corte di cassazione, su ricorso proposto dal procuratore generale e dalla parte civile, annullava con rinvio la sentenza d'appello rilevando la totale irrazionalità della motivazione della pronuncia assolutoria.

Nelle more del giudizio, veniva rinvenuto il corpo della persona offesa, pertanto la corte d'appello di Bologna condannava gli imputati per il reato di cui all'art. 591 c.p., con l'aggravante di cui al terzo comma. In merito a tale sentenza proponevano separato ricorso gli imputati e la parte civile.

In particolare la difesa della dottoressa rilevava l'insussistenza dell'elemento soggettivo in capo alla stessa perché non avrebbe avuto competenze sulla direzione del reparto di psichiatria e pertanto non avrebbe potuto predisporre misure di vigilanza continua, inoltre non era a conoscenza di precedenti tentativi di fuga del paziente. infine, rilevava l'erronea applicazione della legge penale in ordine all'aggrevante di cui al comma 3 dell'art. 591 c.p. poiché non era stato provato il nesso di causa tra l'evento morte e l'allontanamento dalla casa di cura.

Analoghe censure venivano mosse dal difensore di M.B., coordinatore del personale infermieristico, ed in particolare con riferimento all'elemento soggettivo riferiva che lo stesso all'epoca dei fatti svolgeva solo una funzione di coordinamento tra le esigenza di diagnosi e la cura da apportarsi al paziente, dovendo verificare l'adempimento da parte del personale delle attività assistenziali predisposte dai sanitari, senza avere però un potere di scelta o di modifica sulle stesse.

La parte civile, invece, ricorreva in merito al quantum del risarcimento, lamentando l'esclusione di alcune categorie di danno.

La questione

La sentenza in commento affronta due problematiche relative alla configurabilità del reato di abbandono di persona incapace: la verifica della sussistenza di una posizione di garanzia da cui discenda un dovere di cura e custodia e i presupposti per la configurabilità dell'elemento soggettivo richiesto dalla norma.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza, prima di valutare i due aspetti più rilevanti per la configurabilità nel caso di specie dell'art. 591 c.p., ribadisce alcuni aspetti fattuali ritenuti consolidati, affermati anche dai giudici di merito, all'esito dei principi indicati nella prima sentenza di rinvio della Cassazione. In particolare riconosce che la casa di cura in questione era una struttura aperta e come tale non era adeguata ad accogliere un paziente con delle problematiche complesse come quelle della persona offesa. Inoltre, la persona offesa, a causa delle sue patologie, costituiva un paziente a rischio, con plurimi episodi di tentativi di fuga, perdita dell'orientamento o della percezione della sua collocazione spaziale, da cui un'assoluta incapacità di provvedere a sé stesso ed alla proprie cure. Situazione questa, compresi i tentativi di cura, chiaramente indicata nella cartella clinica e nel diario infermieristico, per cui entrambi gli imputati dovevano esserne a conoscenza.

Ciò premesso, la Corte si richiama all'indirizzo interpretativo più rigoroso consolidatosi con riferimento al reato di cui all'art. 591 c.p. secondo il quale oggetto della tutela penale sarebbe non tanto il rispetto dell'obbligo legale di assistenza in sé considerato, quanto il valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni, per cui la condotta di “abbandono” resta integrata “da qualunque azione od omissione, contrastante con il dovere di cura o di custodia, che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l'incolumità del soggetto passivo”. Inoltre, con specifico riferimento all'elemento soggettivo richiesto dalla norma, il dolo è generico, consistendo “nella coscienza di abbandonare a se stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità di cui abbia esatta percezione”.

La Corte, quindi, affronta il problema dell'individuazione della posizione di garanzia, con particolare riferimento agli obblighi impeditivi. In merito alla posizione di garanzia, si allinea alla giurisprudenza consolidata che richiede una valutazione in concreto: “nell'individuazione dei destinatari degli obblighi protettivi, vengono in rilievo le funzioni in concreto esercitate dal soggetto agente”. Inoltre, per qual che riguarda, in particolare, “l'operatività della così detta clausola di equivalenza di cui all'art. 40, comma 2, c.p., nell'accertamento degli obblighi impeditivi incombenti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l'interprete deve tenere presente la fonte dai cui scaturisce l'obbligo giuridico protettivo, che può essere indifferentemente la legge, il contratto, la precedente attività svolta, la situazione di fatto e, in tale ambito ricostruttivo, per individuare lo specifico contenuto dell'obbligo, discendente dalla fonte, occorre avere riguardo alle finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia e la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, scopo della tutela rafforzata”.

La corte, quindi, distingue le posizioni dei due imputati. In particolare, con riferimento alla dottoressa, quale responsabile del reparto di psichiatria per quel giorno, rileva come la stessa avesse una posizione di garanzia nei confronti del paziente. Secondo i turni, era lei la responsabile del reparto il giorno in cui la persona offesa si era allontanata dalla struttura e come tale aveva il dovere di effettuare la valutazione clinica e di adottare le scelte terapeutiche e di cure ritenute necessarie, indipendentemente dalle valutazioni dei colleghi nei giorni precedenti e dei medici dell'ospedale di Rimini dove era precedentemente ricoverato.

La stessa, inoltre, era a conoscenza della situazione clinica del paziente e dei suo precedenti tentativi di uscire dalla struttura indicati nel diario infermieristico, pertanto avrebbe dovuto e potuto, rientrando nelle sue competenze, prevedere un regime di sorveglianza costante del paziente onde evitare l'evento. Sottolinea sul punto la corte come l'entrata in vigore della l. 180 del 1978 e l'adozione di un sistema di cura su base volontaria non esime il personale sanitario dal dovere giuridico di protezione e sorveglianza della persona loro affidata. Allo stesso modo, la creazione di strutture “aperte” senza metodi di restrizione coercitivi, richiede adozione di misure diverse ed alternative, nel rispetto della libertà e della dignità individuale. Si configura, quindi, lo stato di abbandono di cui al reato di cui all'art. 591 c.p. quando la protezione dell'ammalato doveva essere assicurata con la materiale vigilanza e le terapie farmacologiche volte ad arginare la patologia.

Diversa, invece, secondo la corte, la posizione dell'altro imputato, coordinatore del personale infermieristico, poiché non risultava provato che avesse poteri autonomi di decisione sui trattamenti o sulle modalità di assistenza nei confronti dei pazienti; non era pertanto esigibile nei suoi confronti una condotta differente, non potendo impartire disposizioni vincolanti sulla modalità di sorveglianza della persona offesa. La Corte, quindi, riforma sul punto la sentenza di secondo grado, assolvendo l'imputato per non aver commesso il fatto.

Infine, in riferimento all'aggravante di cui al terzo comma dell'art. 591 c.p., la corte accoglie i ricorsi degli imputati, rilevando come non sia stato possibile, essendo stato trovato il cadavere solo ad anni di distanza, ricostruire l'effettiva causa del decesso e quindi affermare con sicurezza la sussistenza del nesso di causa tra l'evento morte e la condotta di abbandono.

Pertanto, in conclusione, con riferimento alla posizione della dottoressa, la Corte, riconoscendone la penale responsabilità, dichiara il reato prescritto, essendo venuta meno l'aggravante specifica, e conferma le statuizioni civili, annullando senza rinvio. Riforma, invece, con riferimento all'infermiere assolvendolo per i reati ascritti, annullando senza rinvio. Infine rinvia al giudice civile per la determinazione del danno accogliendo il ricorso della parte civile.

Osservazioni

La corte si trova a valutare la responsabilità del personale di una casa di cura per l'omessa adozione di misure di sicurezza e vigilanza sufficienti ad evitare l'allontanamento di un paziente, affetto da problematiche psicologiche e dunque incapace di provvedere a se stesso. la persona offesa era infatti stata ricoverata, dopo un periodo in un ospedale psichiatrico, presso una struttura “aperta”, con possibilità di entrata ed uscita non controllata.

La problematica affrontata dalla suprema corte, quindi, era relativa alla esigibilità e da parte di quali soggetti della predisposizione di una sorveglianza costante in considerazione della specifica condizione del paziente e delle suo precedenti tentativi di uscire dalla struttura e delle peculiarità della casa di cura stessa.

La corte si è conformata alla giurisprudenza costante che configura l'elemento materiale del reato di abbandono in qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di custodia che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo anche potenziale per l'incolumità della persona.

Dovere giuridico che incombeva, secondo la corte, solo sulla dottoressa in quanto quel giorno responsabile del reparto, unica che poteva e doveva non solo valutare la situazione del paziente, conoscendone la cartella clinica ed il diario, ma adottare tutte le misure necessarie perché lo stesso si trovasse in una situazione di sicurezza fintanto che era ospitato in quella struttura, benché la stessa, avendo carattere aperto, non era adeguata alla sua situazione. Tra le misure idonee che la Corte ritiene richiedibili, esclusa ogni forma di misura coercitiva, rientrava però sicuramente la sorveglianza continua.

Si rileva, come unica perplessità il fatto che nessuna rilevanza, invece, sia stata attribuita dalla corte alle valutazioni effettuati dei colleghi della dottoressa che l'avevano preceduta nei giorni antecedenti o dei medici del ospedale di Rimini ove la persona offesa era stata ricoverata e che non avevano ritenuto opportuno predisporre misure di vigilanza o trasferire il paziente in una struttura più idonea. Dagli elementi forniti in sentenza sempre che l'imputata fosse solo un sostituta del primario e fosse la responsabile di turno nel giorno della scomparsa della persona offesa. Tali elementi, quindi, forse potevano incidere sulla posizione di garanzia riconosciuta solo in capo alla dottoressa e sull'esigibilità da parte della stessa dell'adozione di quelle misure durante il suo turno.

(Tratto da: www.ilpenalista.it)

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