La responsabilità del liquidatore di società di capitali per i danni arrecati ai soci dal compimento di atti gestori non immediatamente funzionali alla liquidazione dell’attivo sociale

Claudio Tatozzi
23 Giugno 2015

La peculiarità della funzione del liquidatore rispetto a quella dell'amministratore della società impone che, nell'esercizio dei poteri gestori, questi adempia con la dovuta diligenza e professionalità al compimento di atti utili alla liquidazione
Massima

La peculiarità della funzione del liquidatore rispetto a quella dell'amministratore della società impone che, nell'esercizio dei poteri gestori, questi adempia con la dovuta diligenza e professionalità al compimento di atti utili alla liquidazione, ivi compresa la cessione d'azienda, in relazione alla quale il legislatore considera avere un ruolo prioritario l'assemblea dei soci in quanto deputata alla fissazione di criteri inderogabili volti a limitare (e indirizzare) il potere liquidatorio.

Sintesi del fatto

La fattispecie concreta portata al vaglio della Corte di Appello di Milano riguarda un'azione di responsabilità promossa, tra gli altri, nei confronti di un liquidatore di s.r.l., chiamato a rispondere del risarcimento del danno direttamente causato all'attore, socio al 50% della società in liquidazione, a seguito della vendita del ramo aziendale della società (costituito, in sostanza, da un unico asset, vale a dire un programma software) a condizioni ritenute non convenienti.

I fatti a base del giudizio (che avevano parimenti determinato la revoca giudiziale del liquidatore) hanno riguardato la decisione del liquidatore di cedere il ramo d'azienda di proprietà della società in liquidazione in favore di una società costituita appena 21 giorni prima dagli altri due soci, detentori insieme del residuo 50% della società in liquidazione e parimenti convenuti in giudizio, per un corrispettivo di euro 500.000, senza valutare la proposta di acquisto del medesimo ramo aziendale pervenuta dall'attore per un corrispettivo di euro 800.000.

Il Tribunale di Milano ha respinto l'azione di responsabilità, ritenendo legittimo l'operato del liquidatore, sulla scorta della considerazione che al medesimo deve riconoscersi una competenza gestoria ampia, tale da renderlo arbitro nello scegliere i tempi, i modi e le condizioni di realizzazione dell'attivo sociale, ritenendosi all'uopo ininfluenti gli indirizzi eventualmente enucleati nella delibera assembleare di nomina.

Avverso la decisione del Tribunale ha proposto quindi appello l'attore soccombente, chiedendone la totale riforma, tra l'altro, in punto di responsabilità ex art. 2476, commi 1, 3, 6 e 7, c.c. del liquidatore e, in via solidale, degli altri soci per i danni direttamente subiti dall'appellante come conseguenza della vendita del ramo d'azienda a condizioni sconvenienti, lamentando che il liquidatore aveva dato corso alla vendita del ramo d'azienda (i) senza la professionalità e la diligenza richieste e (ii) in spregio al principio di massimizzazione del profitto enucleato nella delibera assembleare di nomina.

La questione

La sentenza tocca il delicato tema della latitudine dei poteri del liquidatore di società di capitali, individuando gli interessi correlati alla vicenda liquidativa ed i criteri di giudizio circa la sua responsabilità per danni arrecati ai soci e conseguenti al compimento di atti gestori non immediatamente funzionali alla realizzazione dell'attivo sociale, secondo il criterio della massimizzazione del risultato per i soci.

Il tema è quindi essenzialmente quello di definire, nel difficile coordinamento tra le previsioni degli artt. 2489 e 2487, comma 1, lett. c), c.c., quale sia il canone del comportamento professionale del liquidatore, entro il quale si collochi il contemperamento degli interessi dei soci e dei creditori sociali.

Le soluzioni giuridiche

La pronunzia della Corte di Appello di Milano si innesta nel dibattito diretto ad individuare il perimetro dei poteri gestori dei liquidatori, con particolare riguardo al problema del coordinamento tra l'art. 2489 c.c. e l'art. 2487, comma 1, lett. c), c.c. e, diversamente dal Giudice di prime cure, ribadisce un orientamento della giurisprudenza di merito (App. Salerno 8 novembre 2012, in Foro It., 2012, 12, 1, 3489; Trib. Siracusa 13 maggio 2009, in Vita not., 2009, 2, I, 948; Trib. Milano 19 novembre 2003, in Giur. It., 2003, 1457), nonché della prevalente dottrina (Niccolini G., Gestione dell'impresa nella società in liquidazione: prime riflessioni sulla riforma, in Profili e problemi dell'amministrazione nella riforma delle società, a Scognamiglio G. (a cura di), 2003, 167 e ss.; Ferri G.B., Manuale di diritto commerciale, Angelici C., Ferri G.B. (a cura di), Torino, 2010, 508; Cottino G., Diritto societario, Padova, 2011, 564), in base al quale deve riconoscersi alla delibera assembleare una rilevanza giuridicamente delimitativa dei poteri riconosciuti al liquidatore, sia con riguardo all'esercizio provvisorio sia con riguardo alla cessione dell'azienda o rami di essa.

Nel caso di specie, l'attore ha lamentato che il liquidatore aveva ceduto, frettolosamente ed in spregio ai suoi doveri istituzionali, il ramo d'azienda alla società neocostituita, a condizioni peggiori rispetto ad altra, coeva, proposta di acquisto pervenutagli, tra l'altro, senza provvedere ad una valutazione ex ante del medesimo ramo d'azienda e senza indire una procedura competitiva per la scelta dell'acquirente, nonostante dalla delibera assembleare di nomina potesse desumersi il principio per cui gli atti del nominato liquidatore dovevano improntarsi al criterio della massimizzazione del profitto nell'interesse dei soci.

In particolare, la Corte ha evidenziato come «la peculiarità della funzione del liquidatore rispetto a quella dell'amministratore della società impone che, nell'esercizio dei poteri gestori, questi adempia con la dovuta diligenza e professionalità al compimento di atti utili alla liquidazione, ivi compresa la cessione d'azienda, in relazione alla quale il legislatore considera avere un ruolo prioritario l'assemblea dei soci in quanto deputata alla fissazione di criteri inderogabili volti a limitare (e indirizzare) il potere liquidatorio».

A questa stregua, la Corte ha posto l'accento sul fatto che, come risultava dal verbale di assemblea del 13 luglio 2006 (anteriore di 4 mesi dalla conclusione della compravendita per cui è causa), l'assemblea, pure rimettendo al liquidatore la decisione in merito ai criteri in base ai quali procedere alla liquidazione, aveva autorizzato il medesimo «alla cessione dell'azienda o a parti di esse ad un soggetto interessato al proseguimento dell'attività, cui dare seguito l'incasso dei crediti, il pagamento dei debiti e la suddivisione dell'eventuale residuo dei soci» e, nel caso di specie, solo la proposta dell'appellante aveva previsto (oltre al versamento di un corrispettivo maggiore) l'accollo di debiti e crediti in ottica di continuazione dell'attività d'impresa.

In ragione di ciò, la Corte ha ritenuto di riformare la sentenza di primo grado condannando l'ex liquidatore a risarcire i danni cagionati all'attore, posto che «l'operato del liquidatore, dovendo essere improntato alla massimizzazione del profitto al fine di procedere all'incasso dei crediti e al pagamento dei debiti della società posta in liquidazione, non poteva prescindere da un'esatta, preventiva valutazione del bene oggetto di vendita [che nel caso di specie ha formato solo ex post oggetto di perizia], oltre che dall'indicazione di una gara fra tutti gli offerenti secondo criteri di assoluta imparzialità e trasparenza».

Peraltro, la Corte ha altresì rilevato che, non solo l'offerta presentata dall'appellante «presentava ampie garanzie circa il pagamento del prezzo», ma la proposta di acquisto della società neocostituita presentava altresì un'espressa manleva in favore del liquidatore da parte dei soci convenuti, in virtù della quale questi ultimi si erano impegnati a tenere indenne il liquidatore da ogni responsabilità e pretesa fosse promanata dall'appellante per il fatto di avere ceduto il ramo aziendale alla società neocostituita.

Di talché la Corte ha desunto la corresponsabilità dei soci convenuti, posto che «tale condotta, caratterizzata da intenzionalità e specifica volontarietà, perché diretta ad indurre il liquidatore al compimento di un'operazione lucrosa per sé medesimi e nel contempo dannosa per la società in liquidazione, integra la fattispecie di cui all'art. 2476, comma 6, c.c.».

Osservazioni

Se da un lato l'art. 2489, comma 1, c.c. sembrerebbe richiedere, per integrare il canone del comportamento professionale del liquidatore, l'individuazione del requisito dell'“utilità” da intendersi nell'interesse dei creditori sociali, dall'altro lato, il coordinamento con l'art. 2487, comma 1, lett. c), c.c. impone uno sforzo interpretativo, perché la norma riserva all'assemblea dei soci, in via prioritaria, il potere di autorizzare e indirizzare il compimento di determinate attività, quali la cessione totale o parziale dell'azienda.

In merito, si osserva che, sebbene, come rilevato nella sentenza in commento, il legislatore sembrerebbe prima facie attribuire priorità al volere dei soci nella definizione del canone di comportamento professionale cui è tenuto il liquidatore nel compimento degli atti gestori, è altresì vero che la questione rimane controversa nella misura in cui il dibattito investe anche il coordinamento con norme espressamente deputate a garantire la prevalenza delle ragioni dei creditori sociali, i cui interessi vanno dal liquidatore, in astratto, anteposti a quelli dei soci nella fase di liquidazione (cfr. artt. 2633, 2491 e 2495 c.c.).

In sintesi, la sentenza qui commentata aderisce a quell'orientamento che conferisce al volere dell'organo assembleare una funzione non solo suppletiva nel definire i limiti e i criteri di esercizio del potere gestorio del liquidatore, che, nell'ambito del suo mandato, sarà pertanto tenuto a rispettare prioritariamente finalità e criteri di emanazione assembleare, in aggiunta a quelli istituzionali di diligenza (qualificata) e professionalità, e, solo nel silenzio della delibera (e dello statuto), potrà operare nell'alveo della maggiore discrezionalità prevista nella disciplina generale di cui all'art. 2489 c.c..

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