Incombe sul cliente la prova del danno patrimoniale conseguente a negligenza ed inerzia dell'avvocato

Raffaella Caminiti
23 Ottobre 2014

“Posto che, in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l'evento, quello della probabilità di tali effetti e dell'idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste solo alla condizione che, con un giudizio probabilistico ex ante, possa vantarsi che l'opera del professionista, se tempestivamente e adeguatamente svolta avrebbe avuto, se non la certezza, quanto meno serie ed apprezzabili possibilità di successo”.
Massima

Trib. Milano, sez. I civ., 29 aprile 2014, n. 5570

“Posto che, in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l'evento, quello della probabilità di tali effetti e dell'idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste solo alla condizione che, con un giudizio probabilistico ex ante, possa vantarsi che l'opera del professionista, se tempestivamente e adeguatamente svolta avrebbe avuto, se non la certezza, quanto meno serie ed apprezzabili possibilità di successo”.

Sintesi del fatto

Tizio conveniva in giudizio gli eredi di due avvocati, esponendo di aver conferito all'uno mandato professionale per ottenere il recupero in via giudiziale di un credito, venendo informato che la causa sarebbe stata seguita dall'altro, suo collaboratore di studio, cui versava una somma di denaro in contanti.

Non essendo stata promossa alcuna azione giudiziale a tutela del credito, Tizio presentava un esposto all'Ordine degli avvocati, revocando il precedente mandato professionale e conferendo nuovo incarico al collaboratore di studio.

Non avendo più ricevuto notizie sull'esito dell'azione intrapresa, Tizio revocava il mandato da ultimo conferito, nominando nuovi difensori che ottenevano l'emissione in suo favore di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.

Ciononostante, l'esistenza di iscrizioni pregiudizievoli anteriori alla formazione del titolo esecutivo non consentiva il recupero del credito.

Tizio denunciava per patrocinio infedele gli originari difensori. Il procedimento penale a loro carico per i reati di cui agli artt. 110 e 380 c.p. si concludeva con sentenza di non doversi procedere per essere gli imputati deceduti.

L'attore chiedeva la condanna solidale delle parti convenute al risarcimento dei danni, patrimoniali e morali.

Si costituivano in giudizio gli eredi dei due avvocati, eccependo gli uni che nessun incarico professionale era stato conferito dall'attore al loro congiunto; gli altri obbiettando che il de cuius, in quanto collaboratore dello studio legale, aveva agito sotto la direzione del dominus ex art. 2232 c.c. e, comunque, non aveva posto in essere alcuna condotta infedele.

Disposta una perizia grafologica sulla sottoscrizione apposta in calce alla lettera di incarico, all'esito dell'istruttoria il Tribunale rigettava la domanda attorea.

Non poteva dirsi assolta da Tizio la prova dell'iniziale conferimento del mandato professionale ad entrambi i difensori deceduti, risultando, invece, per tabulas che tale mandato era stato conferito, successivamente, ad uno solo degli avvocati.

Era, inoltre, provata la colpa professionale di quest'ultimo, per avere redatto e iscritto a ruolo un decreto ingiuntivo viziato da inammissibilità per difetto di allegazione di rituale procura alle liti.

Inoltre, il silenzio serbato dal legale sull'esito della causa, imputabile all'errore professionale commesso, costituiva violazione dei doveri deontologici incombenti sul professionista.

L'attore, tuttavia, oltre a non produrre in giudizio i documenti citati nel ricorso per ingiunzione (apparentemente allegati nel procedimento monitorio), riferiva di iscrizioni antecedenti o coeve all'incarico asseritamente conferito ai due difensori.

Pertanto, le condizioni fondanti la diminuzione delle garanzie di soddisfazione del credito vantato da Tizio si erano concretizzate anteriormente alla data in cui questi aveva contattato lo studio legale e alla presumibile data in cui avrebbe potuto essere ottenuto il decreto ingiuntivo.

In motivazione

«Si ricorda che nel giudizio di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale è onere dell'attore dimostrare unicamente l'esistenza e l'efficacia del contratto, mentre è onere del convenuto dimostrare di avere adempiuto, ovvero che l'inadempimento non è dipeso da propria colpa; (...); il principio trova applicazione anche in caso di inesatto adempimento, gravando sul creditore istante l'allegazione dei soli profili di inesattezza dell'adempimento (cfr., Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533; Cass. civ., sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2720; Cass., n. 205/2007).

Ne consegue che il creditore che abbia dimostrato l'esistenza del contratto d'opera professionale stipulato con il proprio difensore - (…) - deve offrire prova del mancato esito positivo della vertenza, con l'allegazione di inadempienze specifiche, idonee alla causazione della perdita subita; grava, per contro, sulla controparte dimostrare o che l'inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur essendovi stato, non ha determinato il danno.

Il danno derivante da eventuali errori od omissioni è dunque ravvisabile ove, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione o quell'errore, il risultato positivo sarebbe stato conseguito e la soccombenza in causa avrebbe potuto essere evitata (cfr. Cass., S.U., n. 577/2008).

È noto che l'inadempimento dell'avvocato alla propria obbligazione deve essere valutato sulla base dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale prescritto ai sensi degli artt. 2236 e 1176, comma 2, c.c. - parametro da commisurarsi alla natura dell'attività esercitata - non assolto nell'ipotesi in cui, per incuria o ignoranza di disposizioni di legge o, in genere, per negligenza o imperizia, comprometta la posizione processuale del proprio assistito e il buon esito del giudizio.

Trattandosi dell'attività di difensore, l'affermazione della sua responsabilità non può dunque essere desunta de plano dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, non potendo il professionista garantire comunque l'esito favorevole richiesto dal cliente, ma implica un'indagine sul chiaro fondamento dell'azione che, dopo essere stata proposta, avrebbe dovuto essere diligentemente coltivata e, quindi, la certezza logicamente raggiunta che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente (cfr. Cass. n. 16846/2005)».

Nel caso di specie, secondo il Tribunale, «difetta del tutto la prova che dall'allegato ritardo, derivante da colpevoli inerzie e da errori di uno o di entrambi i difensori originariamente convenuti sia derivato un danno patrimoniale all'attore».

La questione

La sentenza in commento è attenta nell'escludere la risarcibilità del danno patrimoniale reclamato dal cliente, non essendo stato provato che a quest'ultimo fosse effettivamente derivato un danno dall'attività professionale svolta dal legale, nella fattispecie a seguito della tardiva promozione dell'azione giudiziale per il recupero del credito.

Come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione «la responsabilità del legale non potrebbe affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, ma è necessaria la verifica se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla sua condotta professionale, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone» (Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2014, n. 16690, D&G 2014, 23 luglio).

L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica derivante dalla condotta omissiva passa attraverso l'enunciato “controfattuale” che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, alla luce del quale verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2009, n. 20828, in Guida al diritto 2009, 43, 49).

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

Incombe sul cliente che agisca giudizialmente nei confronti del difensore per il ristoro dei danni conseguenti all'asserita negligenza o inerzia del professionista – danni che ai sensi dell'art. 1223 c.c. devono essere dimostrati in concreto e consistere in una diminuzione patrimoniale – l'onere rigoroso di provare che l'azione giudiziaria, che assume compromessa dall'omissione o dall'errore professionale, risulti fondata, altrimenti finirebbe per avvantaggiarsi della colpa dell'avvocato, traendo un'utilità che il legale non avrebbe comunque potuto procurare o avrebbe procurato con estrema difficoltà.

Spetta, dunque, al giudice di merito compiere una valutazione prognostica ex ante sul probabile esito dell'azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita dal difensore, configurandosi la responsabilità dell'avvocato ove si accerti la ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe avuto, per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l'uso dell'ordinaria diligenza professionale.

L'inadempimento dell'avvocato dovuto a colpevoli inerzie ed errori non determina automaticamente l'accoglimento della domanda risarcitoria proposta dal cliente, ove questi non offra prova della sussistenza di eventuali danni patrimoniali ad esso eziologicamente connessi.

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