Circolazione stradale, quantum probatorio e concorso di colpa

29 Dicembre 2014

“Ai sensi dell'art. 91 c. strada (d.lgs. n. 285/1992), in caso di danni provocati dalla circolazione di autoveicoli concessi in locazione finanziaria (leasing), corresponsabile con il conducente ai sensi dell'art. 2054, comma 3 c.c., è esclusivamente l'utilizzatore del veicolo e non il concedente proprietario. E non osta a tale pronuncia la circostanza che il documento, che attesta l'esistenza di un bene concesso in locazione finanziaria, sia stato prodotto per la prima volta in appello, atteso che detta produzione si rende indispensabile proprio a seguito della sentenza di primo grado, ossia per superare l'ingiusta decisione del primo giudice, il quale non avrebbe dovuto fondare la legittimazione passiva della società concedente sulla base della non contestazione, regola che non può operare allorché il convenuto scelga di rimanere contumace”.
Massima

App. Catania, II Sez. Civ., 29 aprile 2014, n. 658

“Ai sensi dell'art. 91 c. strada (d.lgs. n. 285/1992), in caso di danni provocati dalla circolazione di autoveicoli concessi in locazione finanziaria (leasing), corresponsabile con il conducente ai sensi dell'art. 2054, comma 3 c.c., è esclusivamente l'utilizzatore del veicolo e non il concedente proprietario. E non osta a tale pronuncia la circostanza che il documento, che attesta l'esistenza di un bene concesso in locazione finanziaria, sia stato prodotto per la prima volta in appello, atteso che detta produzione si rende indispensabile proprio a seguito della sentenza di primo grado, ossia per superare l'ingiusta decisione del primo giudice, il quale non avrebbe dovuto fondare la legittimazione passiva della società concedente sulla base della non contestazione, regola che non può operare allorché il convenuto scelga di rimanere contumace”.

Sintesi del fatto

Rigettata in primo grado la domanda risarcitoria per un sinistro stradale, gli appellanti ottengono il riconoscimento di un concorso di colpa in capo all'originario convenuto, con ogni conseguenza in ordine al quantum risarcitorio. Viene però escluso quale legittimato passivo il soggetto proprietario del veicolo concesso in leasing.

In motivazione

«La materia della precedenza in crocevia è assoggettata alla regola generalissima della massima prudenza da usare al fine di evitare incidenti, con l'unico limite della prevedibilità».

La questione

La principale questione affrontata dalla pronuncia in rassegna afferisce alla corresponsabilità con il conducente per danni cagionati durante la circolazione stradale da veicoli in leasing; trattasi di situazione di ampia incidenza statistica, dal momento che all'attualità tale forma contrattuale risulta di frequente applicazione nell'ambito della negoziazione degli autoveicoli, per i minori costi di esercizio e per i correlati benefici fiscali.

Ponendosi nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità, la Corte d'Appello chiarisce che la corresponsabilità vada individuata fra il conducente ed il soggetto utilizzatore del veicolo, senza che in tale relazione intervenga il proprietario dello stesso.

Il principio è stato da ultimo ribadito da Cass. Civ., Sez. III, 27 giugno 2014, n. 14635, secondo cui in caso di danni da circolazione prodotti da un veicolo concesso in leasing, responsabile in solido con il conducente ai sensi dell'art. 2054, comma 3, c.c. è esclusivamente l'utilizzatore del veicolo e non anche il proprietario concedente, al quale nessuna norma del sistema impone di verificare che l'utilizzatore abbia provveduto ad assicurare il mezzo, rispondendone, in proprio, in caso mancata copertura assicurativa.

Ne discende che litisconsorte necessario nell'azione diretta contro l'assicuratore in caso di danni da circolazione di veicoli, ex art. 23 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, è esclusivamente il "lessee" (utilizzatore) e non il "lessor" (concedente), al pari dell'usufruttuario e dell'acquirente con patto di riservato dominio, con esclusione del proprietario concedente, né assume rilievo – ad esempio – che l'utilizzatore sia moroso nel pagamento dei canoni di leasing. Ed infatti, il disposto normativo di cui all'art. 91, comma 2, Codice della Strada, nella parte in cui ha sancito il principio secondo il quale ai fini del risarcimento dei danni prodotti a persone o cose dalla circolazione dei veicoli, il locatario è responsabile in solido con il conducente ex art. 2054, comma 3, c.c. è ispirato alla ratio di cui all'art. 196, comma 1, parte prima, Codice della Strada, la responsabilità solidale alternativa del proprietario o, in sua vece, di uno dei soggetti ivi indicati costituisce, in particolare, il riflesso di situazioni giuridiche sostanziali e trova la sua ratio nella relazione qualificata tra il soggetto e la cosa. Tale relazione in caso di usufrutto, di vendita con patto di riservato dominio e di locazione finanziaria si atteggia nel senso che solo l'usufruttuario, l'acquirente o l'utilizzatore hanno il possesso del veicolo e sono in grado di controllarne la circolazione. Secondo la nuova disciplina, come innanzi delineata, dunque, in caso di concessione in leasing è corresponsabile, con il conducente, l'utilizzatore del veicolo.

Sul versante processuale, la decisione appare di indubbio interesse anche perché la produzione documentale in appello ammessa dalla Corte si correla all'efficacia del principio di non contestazione, che la Corte ritiene di non poter estendere nei suoi effetti a discapito del soggetto contumace (recuperando, tuttavia, l'acquisizione probatoria in concreto in sede di gravame).

In assenza di riscontri probatori, quindi, secondo la Corte non può essere valorizzato il comportamento processuale della controparte che non si è costituita e che non ha mosso alcuna contestazione in merito alle pretese avverse. Il principio di non contestazione opera in sfavore alla parte costituita e non anche del contumace; la contumacia è infatti una situazione processuale che determina specifici effetti ma non introduce deroghe al principio dell'onere della prova, per cui dalla contumacia del convenuto non è possibile dedurre la fondatezza dei diritti fatti valere dall'attore.

L'assunto, nondimeno, è contrastato da una parte della giurisprudenza di merito (affiancata dalla dottrina più “progressista”), la quale opina che, seppur con particolare riferimento al rito del lavoro, la parte convenuta, nel rimanere contumace, non ha adempiuto agli oneri di costituzione in giudizio e di contestazione delle circostanze di fatto dedotte in giudizio, circostanze che, anche in base all'interpretazione della Suprema Corte in ordine a detta atteggiamento (di non contestazione specifica) devono ritenersi come pacifici, con la conseguenza dell'esonero della parte attrice dell'obbligo di fornirne prova.

La sentenza della Corte d'Appello contiene poi interessanti indicazioni in tema di quantificazione del danno risarcibile, segnatamente con riguardo al danno morale, che la Corte ritiene di non dover specificamente liquidare in quanto “ricompreso nella nuova accezione del danno non patrimoniale” ed alla luce della richiesta generica avanzata sia in primo che in secondo grado.

La Corte si riallaccia all'ormai noto – quanto contrastato – orientamento secondo cui il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati, risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno (e quindi, nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri, anche solo astrattamente, come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica).

Quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato, spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato; tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo (circostanze delle quali occorre tenere conto in sede di liquidazione, ma irrilevanti ai fini della risarcibilità), e può sussistere sia da solo, sia unitamente ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali (ad es. derivanti da lesioni personali o dalla morte di un congiunto): in quest'ultimo caso, però, di esso il giudice dovrà tenere conto nella personalizzazione del danno biologico o di quello causato dall'evento luttuoso, mentre non ne è consentita una autonoma liquidazione.

Non va poi sottaciuto che, secondo una linea interpretativa che tende a farsi sempre maggiore spazio anche nella giurisprudenza amministrativa, dopo essersi progressivamente imposta in sede civile, il danno morale va rigorosamente provato con riferimento a specifiche circostanze, non potendosi ritenere in re ipsa. Detto danno va quindi ritenuto risarcibile solo qualora consegua a violazioni gravi della persona, cioè a lesioni di diritti costituzionali che, sul piano ontologico, superino la soglia della tollerabilità e siano qualificate dalla serietà dell'offesa e dalla gravità delle conseguenze nella sfera personale; si ritiene invece che non siano meritevoli di tutela risarcitoria, ad esempio, i pregiudizi consistenti in meri disagi, disappunti e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale.

Se ne deduce che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che, essendo deputato alla liquidazione del danno conseguente alla commissione di un fatto illecito accertato, quantifichi in favore del danneggiato anche il danno morale giacché il termine "danno non patrimoniale" deve intendersi in modo unitario, comprensivo, cioè, di tutte le voci possibili conseguenti al reato che lo ha originato e attribuendo all'eventuale specificazione avanzata con l'atto introduttivo del giudizio, valore meramente esemplificativo salva l'ipotesi in cui possa ragionevolmente escludersi la volontà attorea in tal senso.

Sul punto, va menzionata l'importantissima decisione n. 235/2014 della Corte Costituzionale, la quale fra l'altro ha puntualizzato che l'art. 139 Cod. Ass. consente il risarcimento anche del danno morale, inteso come sofferenza personale e componente del danno biologico. Se in concreto ne ricorrono i presupposti, il giudice può liquidare il danno morale incrementando l'ammontare del danno biologico secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione dell'art. 139, comma 3, Cod. Ass.

Il panorama di legittimità tuttavia non è univoco: recente decisione della Sezione Terza (Cass. sez. III, n. 12265/2014) ha infatti sottolineato che l'aspetto del danno non patrimoniale, tradizionalmente definito danno morale, va liquidato con criterio equitativo, che tenga debito conto di tutte le circostanze del caso concreto. In particolare, la liquidazione equitativa deve rendere evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito è pervenuto alla relativa quantificazione, permettendo di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo.

Le soluzioni giuridiche

Con riguardo alla questione afferente la corresponsabilità in caso di sinistro stradale, correttamente la Corte d'Appello evidenzia come la produzione documentale atta a dimostrare le vicende circolatorie del veicolo sia ammissibile anche per la prima volta in sede d'impugnazione, risolvendosi in una indispensabile acquisizione probatoria tendente ad incardinare la legittimazione passiva.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

Dalla lettura della sentenza, si evince inter alia un'indicazione – apparentemente sovrabbondante, nell'economia complessiva dell'argomentazione – resa dalla Corte d'Appello in merito ad un possibile deficit probatorio in capo alle parti attrici, le quali sarebbero incorse in decadenza per non aver insistito nell'audizione del secondo teste, pure indicato in primo grado. L'obiter dictum costituisce un importante monito per l'operatore, inducendolo ad ampliare nella misura massima possibile la propria piattaforma probatoria, onde non incorrere in reiezioni processuali scaturenti dalla mancata convincente prova dei fatti a sé favorevoli.

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