Bitcoin: natura giuridica e disciplina applicabile al contratto di cambio in valuta avente corso legale

Claudio Tatozzi
09 Agosto 2017

I bitcoin rappresentano uno strumento finanziario costituito da una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer.
Massima

I bitcoin rappresentano uno strumento finanziario costituito da una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer. L'operazione di cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale bitcoin e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall'operatore ai propri clienti è qualificabile dal lato dell'operatore come attività professionale di prestazioni di servizi a titolo oneroso, svolta in favore di consumatori.

Il caso

Nel caso oggetto della sentenza in commento, i clienti hanno corrisposto ad una società di servizi somme in valuta avente corso legale in cambio di criptovaluta (bitcoin), la quale avrebbe dovuto costituire la provvista necessaria all'adesione ad un'operazione di crowfunding condotta per il tramite di un soggetto terzo (e segnatamente una società di capitali avente sede legale in Ucraina), gestore di un portale web all'uopo dedicato, nonché soggetto emittente la valuta virtuale oggetto di cambio. Nonostante l'acquisto della valuta virtuale, il conto di cui alla relativa disponibilità di bitcoin non fu mai reso operativo dal gestore del portale. In ragione di ciò, i clienti hanno convenuto in giudizio la società di servizi che aveva riscosso le somme in valuta tradizionale al fine di ottenere la restituzione delle stesse.

La questione

In relazione alla vicenda sopra prospettata il Tribunale di Verona ha avuto modo di affrontare alcuni tra i temi più problematici legati alla diffusione delle c.d. criptovalute. In particolare, la sentenza in commento è la prima (da quel che consta), nell'ambito del panorama giurisprudenziale italiano, a prendere posizione sul problema dell'inquadramento giuridico dei bitcoin, nonché a pronunciarsi sul regime di disciplina applicabile al rapporto che si instaura tra due soggetti che concludono on-line un cambio di valuta reale con bitcoin.

Le soluzioni giuridiche

In merito alle questioni indicate, il Tribunale, nel rendere la propria decisione, ha svolto il seguente ordine di considerazioni. L'excursus argomentativo svolto dal giudicante muove dalla premessa per cui i bitcoin rappresentano uno«strumento finanziario costituito da una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer».

Il Tribunale ha dunque qualificato l'operazione di cambio di valuta tradizionale con unità di valuta virtuale bitcoin (e viceversa) alla stregua di «prestazione di servizi a titolo oneroso», svolta, nel caso di specie, «a favore di consumatori». Conseguentemente, il giudicante ha statuito:

  • che la società di servizi che ha collocato presso i clienti la valuta elettronica mediante “contratto a distanzaex art. 50 d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (“Codice del Consumo”) vigente rationae temporis, ha assunto «il ruolo di fornitore del servizio finanziario descritto dall'art. 67-ter, lett. a), b), c) e g) del Codice del Consumo», nonché;
  • che alla fattispecie in commento fosse applicabile la disciplina di cui agli artt. 67-quater, 67-quinquies, 67-sexies, 67-septies e 67-undecies Codice del Consumo.

Pertanto, il Tribunale di Verona - rilevata la totale assenza, nella singola operazione, di informativa al cliente, così come di un documento contrattuale redatto per iscritto (in «violazione degli obblighi di informativa precontrattuale, idonea ad alterare in modo significativo la rappresentazione delle caratteristiche dell'investimento») - ha affermato la nullità del contratto ai sensi dell'art. 67-septiesdecies Codice del Consumo e, a cascata, ex art. 2033 c.c., ha condannato la società convenuta a restituire le somme ricevute dagli attori. Peraltro, valorizzando la circostanza che le somme versate avrebbero dovuto costituire la provvista necessaria all'adesione ad un'operazione di crowfunding da compiersi attraverso il portale gestito dalla società di diritto estero, il Tribunale, giusto il disposto di cui all'art. 67-decies Codice del Consumo, ha ritenuto ascrivibile anche alla società convenuta la violazione delle norme di cui delibera CONSOB 26 giugno 2013, n. 18592 in materia di portali crowdfunding.

Osservazioni

Uno degli aspetti di maggiore interesse, che vengono in rilievo nell'analisi della sentenza in commento, è rappresentato dalla statuizione del Tribunale sul problema della definizione giuridica dei bitcoin.

Al riguardo si segnala che diverse sono state le ipotesi ricostruttive sino ad oggi prospettate. Una prima opinione dottrinale ha tentato di inquadrare le criptovalute alla stregua di beni immateriali, laddove, ai sensi dell'art. 810 c.c., «sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti. Secondo l'opinione che pare essere dominante, il bitcoin dovrebbe invece qualificarsi alla stregua di moneta privata o complementare». Si segnalano poi i numerosi tentativi di ricostruire il bitcoin alla stregua di titolo di credito, strumento ovvero prodotto finanziario. La Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE 22 ottobre 2015, causa C-264/14) nonché l'Agenzia delle Entrate, risoluzione n. 72/E 2 settembre 2016, hanno invece suggerito l'inquadramento dei bitcoin nell'ambito dei c.d. sistemi di pagamento.

Il Tribunale di Verona, con la sentenza in commento, ha qualificato il bitcoin alla stregua di «strumento finanziario costituito da una moneta […] sfruttabile per compiere transazioni», adottando una soluzione oltremodo ondivaga che, se da un lato sembra riecheggiare la tesi dottrinale che classifica il bitcoin alla stregua di moneta privata e/o complementare, dall'altro lato, non chiude la porta ad un possibile inquadramento di tale entità in termini di vero e proprio strumento ovvero prodotto finanziario. La soluzione in ogni caso non appaga e suscita molteplici interrogativi. La sensazione è che il giudicante abbia voluto mantenere una posizione “attendista”, in attesa di un intervento auspicabilmente organico sulla materia, da parte delle istituzioni internazionali e delle autorità di vigilanza (se non dal legislatore), le quali, ad oggi, faticano ad elaborare una visione organica del fenomeno.

D'altronde, nessuna delle categorie “tradizionali” tra quelle dianzi indicate si presta ad inquadrare compiutamente tale fenomeno. Ciascuno dei menzionati tentativi ricostruttivi, infatti, presta il fianco a rilievi critici difficilmente superabili. Eppure il bitcoin - con la sua natura «virtuale, polimorfa, ibrida, anonima e ubiqua»– è idoneo a recare, a seconda del contesto di riferimento, i caratteri propri di ciascuna delle categorie dianzi citate. Probabilmente la chiave di volta nella individuazione dell'esatta natura del bitcoin consiste proprio nel prendere atto di tale circostanza. A fronte dell'impossibilità di addivenire ad una definizione generale del fenomeno secondo le categorie tradizionali, occorrerebbe forse adottare un approccio a-sistematico, che tenga tali categorie sullo sfondo, e guardi alla funzione concreta che il bitcoin svolge nella dinamica dei rapporti (pubblici o privati) che di volta in volta vengono in rilievo. La Banca Centrale Europea, del resto, ha da tempo evidenziato come la definizione giuridica del Bitcoin possa variare a seconda del contesto di riferimento.

Laddove, invece di considerare l'entità bitcoin,si rivolga l'attenzione ai soggetti emittenti e/o che svolgono attività di intermediazione, si segnala che il Tribunale di Verona ha considerato di per sé perfettamente lecita l'attività di cambio di bitcoin in valuta tradizionale, “sanzionando” l'attività della società di servizi, solo in ragione del mancato rispetto della disciplina consumeristica. Sennonché se, con tale soluzione, il giudicante è riuscito comunque ad apprestare una forma di tutela ai privati consumatori di bitcoin (attraverso una condivisibile applicazione estensiva della nozione di servizio finanziario di cui all'art. 67-ter Codice del Consumo), tale pronuncia non sembra tenere conto - o, comunque, potrebbe porsi in contrasto - con quanto chiarito dalla Banca d'Italia in un recente comunicato. Invero, l'Autorità, pur affermando che l'acquisto, l'utilizzo e l'accettazione in pagamento delle valute virtuali devono ritenersi attività lecite, ha altresì precisato che «le attività di emissione di valuta virtuale, conversione di moneta legale in valute virtuali e viceversa e gestione dei relativi schemi operativi potrebbero […] concretizzare, nell'ordinamento nazionale, la violazione di disposizioni normative, penalmente sanzionate, che riservano l'esercizio della relativa attività ai soli soggetti legittimati (artt. 130, 131 TUB per l'attività bancaria e l'attività di raccolta del risparmio; art. 131-ter TUB per la prestazione di servizi di pagamento; art. 166 TUF, per la prestazione di servizi di investimento)».

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