Responsabilità dell’amministratore di diritto per gli atti di mala gestio dell’amministratore di fatto e il ricorso al criterio del deficit fallimentare

Claudio Tatozzi
25 Maggio 2015

Sussiste la responsabilità dell'amministratore di diritto di una s.r.l. per i danni causati alla società dagli atti di mala gestio compiuti in violazione dell'art. 2476 c.c., ancorché la gestione fosse affidata in concreto ad un soggetto terzo che agiva come amministratore “di fatto”. Nella liquidazione del danno risarcibile, in assenza di dati contabili (per cause imputabili all'amministratore convenuto in giudizio) che consentano di addivenire ad una quantificazione analitica, può procedersi, in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ricorrendo al criterio del “deficit fallimentare”.
Massima

Sussiste la responsabilità dell'amministratore di diritto di una s.r.l. - a titolo di omesso controllo e di omessa imposizione di una diligente gestione dell'attività sociale - per i danni causati alla società dagli atti di mala gestio compiuti in violazione dell'art. 2476 c.c., ancorché la gestione fosse affidata in concreto ad un soggetto terzo che agiva come amministratore “di fatto”; a nulla rileva l'ignoranza delle norme da osservare nella gestione sociale, essendo specifico onere di chi assume l'incarico di amministratore (anche solo formale) di provvedere ad informarsi e di prendere coscienza di esse.

Nella liquidazione del danno risarcibile, in assenza di dati contabili (per cause imputabili all'amministratore convenuto in giudizio) che consentano di addivenire ad una quantificazione analitica, può procedersi, in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ricorrendo al criterio del “deficit fallimentare”.

Il caso

La fattispecie al vaglio della Corte trae origine dalla richiesta di condanna (formulata dalla procedura fallimentare nei confronti di un'amministratrice di s.r.l.):

a) al risarcimento del danno cagionato alla società dagli atti di mala gestio ascrivibili alla medesima (irregolare/omessa tenuta delle scritture contabili - che aveva costretto il Curatore a ricostruire la contabilità sociale sulla base delle sole domande di insinuazione al passivo pervenute - atti distrattivi di fondi, prelievi ingiustificati, aggravio del dissesto per illegittima prosecuzione dell'attività);

b) alla restituzione dei beni inventariati (lasciati in custodia all'amministratrice in questione) che, all'atto della vendita, non erano più stati rinvenuti.

Avverso la decisione del Tribunale, che ha accolto la domanda del fallimento limitatamente al puntoa), ritenendo, invece, una mera duplicazione la domanda sub b), ha proposto appello l'amministratrice, lamentando, per quanto qui interessa:

  • l'erroneità della condanna al risarcimento di un danno che non era a lei riconducibile: ella era solo formalmente amministratrice della società, che era invece amministrata “di fatto” dal marito (non sussisterebbe quindi una condotta dolosa e/o colposa alla stessa imputabile);
  • l'erroneità del ricorso al criterio della differenza attivo-passivo ai fini della quantificazione del danno;
  • l'erroneità della determinazione in via equitativa dello stesso.

Ha resistito in giudizio il Fallimento, chiedendo il rigetto dell'appello e, in via di appello incidentale, censurando la decisione di primo grado in punto di liquidazione delle spese di lite. La Corte, rigettando l'appello principale e accogliendo quello incidentale, ha confermato parzialmente la sentenza di primo grado.

La questione

Superate le eccezioni processuali sollevate in via preliminare dall'appellata (non oggetto di questo commento - un breve accenno merita solo il fatto che la Corte ha ritenuto rispettato il disposto di cui al riformato art. 342 c.p.c., allorché «sebbene non espressi per capitoli separati, i motivi di appello» siano «individuabili» e siano, comunque, individuabili «le parti della sentenza che secondo l'appellante dovrebbero essere modificate»), la Corte ha avuto occasione di soffermarsi, nel merito, su due questioni di particolare interesse:

  • la possibilità di configurare la responsabilità in capo all'amministratore di una s.r.l., ancorché il medesimo fosse solo amministratore “formale” della stessa, essendo la gestione svolta in concreto da un altro soggetto (amministratore “di fatto”);
  • la possibilità di utilizzare, al fine di procedere alla quantificazione equitativa (ex art. 1226 c.c.) del danno, il criterio della differenza tra attivo e passivo (c.d. “deficit fallimentare”), allorché la contabilità della società fallita sia incompleta e/o assente (per fatto imputabile all'amministratore).

Di minor interesse è la statuizione sull'appello incidentale, avente ad oggetto l'erronea liquidazione delle spese di lite (da operarsi ratione temporis ex D.M. 140/2012) operata dal Tribunale.

Le soluzioni giuridiche

Sul primo aspetto, dopo aver riepilogato le circostanze (provate dal fallimento e/o non contestate da controparte, in applicazione del principio di cui all'art. 115 c.p.c.) che configuravano atti di mala gestio dell'amministratrice, la Corte ha integralmente disatteso le censure dell'appellante, affermando che «il fatto che» il «vero amministratore» di una società sia un soggetto diverso «non esime» l'amministratore formale «dall'osservanza dei doveri [...] di cui all'art. 2476 c.c.»; ed invero «l'esistenza di un amministratore di fatto, che in concreto compia tutti gli atti di gestione della società», non comporta «l'esenzione da responsabilità dell'amministratore di diritto, ma solo la corresponsabilità di entrambi». L'amministratore di diritto risponderà, quindi, in ogni caso, quantomeno per non avere controllato l'operato dell'amministratore di fatto e per non aver imposto una diligente gestione dell'attività sociale, a nulla rilevando l'ignoranza dei doveri e degli obblighi propri di tale carica. Ed invero, «nell'assumere l'incarico» l'amministratore (anche solo formale) «deve» infatti «provvedere ad informarsi e a prendere coscienza delle regole» proprie della gestione di una società, «quali sono quelle in materia di contabilità o divieto di nuove operazioni».

Anche in relazione al secondo aspetto la Corte ha condiviso la decisione del Tribunale, che aveva provveduto a quantificare il danno risarcibile, ex art. 1226 c.c., facendo ricorso al criterio del deficit fallimentare. Infatti, afferma la Corte, seppure - in astratto - il danno risarcibile non può essere identificato automaticamente nella differenza tra attivo e passivo, tale criterio può essere utilizzato ai fini della liquidazione equitativa del risarcimento, allorché sia impossibile - per assenza di dati contabili, imputabile all'amministratore, e non già, ad esempio, al consulente fiscale - provvedere ad una quantificazione analitica ed attendibile.

Osservazioni

Sulla prima questione la Corte, nel confermare la decisione del giudice di primo grado, ha dato continuità sia ai propri precedenti arresti sia all'orientamento giurisprudenziale (ormai costante) formatosi sul tema, secondo cui:

  1. la presenza di un amministratore di fatto non costituisce un'esimente di responsabilità per l'amministratore di diritto, anche se conseguente ad atti di mala gestio compiuti dal primo;
  2. l'accettazione della carica di amministratore di una società implica necessariamente l'assunzione delle connesse responsabilità, declinate nel senso dell'obbligo legale di controllare la corretta gestione (pur svolta di fatto da altri) della società e, quindi, anche, di opporsi attivamente agli atti di mala gestio posti in essere dall'amministratore di fatto;
  3. la responsabilità dell'amministratore di fatto concorre con quella dell'amministratore di diritto, con la conseguenza che entrambi potranno essere chiamati, in solido, a risarcire i danni cagionati alla società e/o ai terzi ( Cfr. App. Milano, 30 novembre 2012, in Società, 2013, 2, 208; App. Firenze, 4 febbraio 2009, in Pluris; Trib. Milano, 24 giugno 2014 in giusirpudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 29 novembre 2012, in Società, 2013, 10, 1057, nota di Cassani; Trib. Milano, 25 agosto 2006, in iusexplorer.it. Analoghi principi in ambito penale: cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. V, 28 maggio 2014, n. 44826; Cass. Pen., sez. III, 6 febbraio 2014, n. 15172; Cass. pen., sez. III, 19 settembre 2013, n. 14432; Cass. pen., sez. V, 14 maggio 2013, n. 37305).

Sul secondo aspetto esaminato, invece, la sentenza della Corte ambrosiana si inserisce nell'ampio dibattito giurisprudenziale sulle condizioni e i limiti di utilizzabilità del criterio del deficit fallimentare ai fini dell'accertamento e liquidazione del danno ascrivibile all'amministratore di una società di capitali. Come noto, nella giurisprudenza di legittimità, si sono registrati sul punto tre distinti orientamenti:

  • un primo orientamento ammette il ricorso a tale criterio, acconsentendo (quasi a voler sanzionare il comportamento dell'amministratore che ha omesso di tenere la contabilità sociale) ad una sostanziale inversione dell'onere della prova del nesso di causalità (Cfr. Cass. civ., sez. I, 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. civ., sez. I, 4 aprile 2011, n. 7606; Trib. Milano, 31.1.2014, in Fallimento, 2014, 5, 597.);
  • un secondo orientamento (Cfr. Cass. Civ., sez. I, 17 settembre 1997, n. 9252; Cass. Civ., sez. I, 8 febbraio 2000, n. 1375), più restrittivo, ammette l'utilizzo di tale criterio solo laddove, sulla base di un giudizio presuntivo, il giudice ritenga che lo sbilancio tra attivo e passivo sia (esclusivo) frutto degli atti degli amministratori convenuti in giudizio. Ed invero: a) lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe essere stato causato da una pluralità di fattori (e non già dai soli atti dell'amministratore convenuto in responsabilità); b) tale criterio si pone in contrasto con i principi in tema di onere della prova della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno;
  • un terzo orientamento (Cfr. Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2005, n. 3032; Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2012, n. 11155; Cass. civ., sez. I, 11 luglio 2013, n. 17198; Trib. Milano, 9 aprile 2013, in Pluris), fatto proprio dalla sentenza in commento, ammette l'utilizzo di tale criterio, ai fini della liquidazione del danno ex art. 1226 c.c., allorché non sia possibile oggettivamente (e per fatto imputabile al medesimo amministratore, quale - caso emblematico - la mancata tenuta della contabilità) procedere ad una puntuale ed analitica ricostruzione degli effetti patrimoniali degli atti di mala gestio (Il tutto purché il giudice del merito indichi specificamente - come fatto dalla Corte - le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli effetti pregiudizievoli e la plausibilità logica del ricorso a tale criterio).

La questione, certamente ancora aperta, potrebbe peraltro trovare una (auspicabile) composizione, alla luce della recente Cass. civ., sez. I, ord., 3 giugno 2014, n. 12366, la quale introduce, altresì, un interessante parallelismo con i principi enunciati dalla Suprema Corte in tema di responsabilità del medico in caso di difettosa tenuta della cartella clinica (in Società, 2, 2015, 153, con nota di Campaniele), che - preso atto della divergenza degli orientamenti e dell'importanza della tematica - ha rimesso la questione alle Sezioni Unite della Suprema Corte.

La pronuncia in commento, laddove non riconosce alcuna esimente - in punto di responsabilità - all'amministratore di diritto di una società (ancorché mero “prestanome”) che acconsenta a che la gestione, di fatto, sia svolta da un soggetto terzo, lancia un chiaro monito a chi accetta incarichi gestori (anche solo formali), a valutare con attenzione i rischi e le conseguenze di tale scelta. Inoltre, dando seguito all'orientamento che ammette la possibilità di fare ricorso al criterio del deficit nella quantificazione equitativa del danno risarcibile (alla luce del recente intervento Cass. civ. , S.U., 6 maggio 2015, n. 91000) quanto , pone l'attenzione sull'importanza di una corretta e completa tenuta delle scritture contabili, non solo (ovviamente) nell'interesse della società amministrata e dei terzi, ma anche degli stessi amministratori, i quali solo in questo modo possono evitare il rischio che si faccia ricorso a criteri di quantificazione del danno che, molto spesso, si rivelano assai onerosi e penalizzanti per chi viene convenuto in giudizio nell'ambito di un'azione di responsabilità.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.