Responsabilità aquiliana, responsabilità per danni da cose in custodia: il diverso regime probatorio

25 Novembre 2015

Mentre l'azione ai sensi dell'art. 2043 c.c. comporta per il danneggiato la necessità di provare l'esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull'art. 2051 c.c., la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito.
Massima

Mentre l'azione ai sensi dell'art. 2043 c.c. comporta per il danneggiato la necessità di provare l'esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull'art. 2051 c.c., la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito.

Il caso

Tizia subiva danni in conseguenza della caduta causata dalla presenza di una buca di notevoli dimensioni presente sull'asfalto di una strada comunale; citava in giudizio il Comune, invocando l'applicazione dell'art. 2043 c.c. Il Tribunale fiorentino aveva rigettato la domanda, determinando il gravame dell'attrice che in comparsa conclusionale aveva invocato l'applicazione dell'art. 2051 c.c.. La Corte di Cassazione conferma la sentenza di secondo grado – che aveva a sua volta annullato la sentenza di prime cure – sul rilievo che l'accertamento operato dai giudici di seconda istanza del concorso di colpa dell'attrice integrava il caso fortuito idonea ad escludere la responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c.

In motivazione

«L'azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente, per così dire, diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere. Ciò in quanto "l'applicabilità dell'una o dell'altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d'indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all'art. 2051 c.c., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito».

La questione

La questione in esame è la seguente: in quali casi la domanda fondata sull'art. 2051 c.c. può non essere considerata nuova rispetto a quella fondata sull'art. 2043 c.c. e quindi proponibile in appello?

La soluzione giuridica

Dall'analisi letterale dell'art. 2051 c.c. emerge come questo, ai fini della nascita dell'obbligo al risarcimento del danno, non fa esplicito riferimento al profilo soggettivo relativo alla colpa del danneggiante, discostandosi così, quantomeno in apparenza, dai criteri generali in tema di responsabilità extracontrattuale dettati dall'art. 2043 c.c., il quale, invece, ai fini della configurabilità dell'obbligo risarcitorio richiede la presenza di un fatto causativo di un danno ingiusto connotato dalla colpa (o dal dolo) di chi lo ha commesso.

La funzione della norma è quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, intendendosi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione - potendo eliminare le situazione di pericolo insorte ed escludere i terzi dal contatto con la cosa -, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta, salva la prova, che incombe a carico di tale soggetto, del caso fortuito, interpretato nel senso più ampio di fattore idoneo ad interrompere il nesso causale e comprensivo del fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

Peraltro, in tema di danni da cose in custodia la giurisprudenza di legittimità ha elaborato principi che possono considerarsi consolidati.

La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art. 2051 c.c., ha carattere oggettivo e perché possa configurarsi in concreto è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone, né implica, uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario.

Invero, la responsabilità ex art. 2051 c.c. si fonda sul rapporto di custodia, cioè sulla relazione intercorrente fra la cosa dannosa e colui il quale ha l'effettivo potere su di essa (come il proprietario, il possessore o anche il detentore) (Cass. n. 25243/2006) e che, con specifico riferimento alle strade, l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse in modo immanente alla struttura o alle pertinenze della strada stessa (Cass. n. 8995/2013), essendo peraltro configurabile il caso fortuito in relazione a quelle provocate dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere (Cass. n. 15720/2011).

Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito (da intendersi nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato), fattore che attiene, non già ad un comportamento del custode (che è irrilevante), bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile, non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità.

L'attore che agisce per il riconoscimento del danno ha, quindi, l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Cass. n. 4279/2008; Cass. n. 1106/2011; v. anche Cass. n. 5910/2011). Con riferimento, poi, alla responsabilità della P.A. sui beni di sua proprietà, ivi comprese le strade, va ribadito che l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei sinistri causati dalla particolare conformazione della strada o delle sue pertinenze.

Tale responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, che può consistere, sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l'uso dell'ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa vittima, consistita nell'omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe e che, attraverso l'impropria utilizzazione del bene pubblico, abbia determinato l'interruzione del nesso eziologico tra lo stesso bene in custodia ed il danno (Cass. n. 8282/2014; Cass. n. 6306/2013; Cass. n. 2660/2013; Cass. n. 2108/2011; Cass. n. 12695/2010; Cass. n. 8229/2010; Cass. n. 24529/2009; Cass. n. 24419/2009; Cass. n. 20247/2008; v. anche Cass. n. 16542/2012).

Si è anche precisato che la presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia prevista dall'art. 2051 c.c. non si applica, per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, le volte in cui non sia possibile esercitare sul bene stesso la custodia intesa quale potere di fatto sulla cosa (...) per cui l'oggettiva impossibilità di custodia rende inapplicabile il citato art. 2051 c.c. (Cass. n. 8147/2014; Cass. n. 9546/2010).

I tratti salienti della responsabilità ex art. 2051 c.c. sono dunque costituiti - sul piano causale - dalla derivazione del danno da una situazione di pericolo connessa in modo immanente alla res e - sul versante soggettivo dell'imputazione della responsabilità - dall'esistenza di un potere di fatto sulla res che consenta di intervenire per impedire o rimuovere le anzidette situazioni di pericolo, potere che dev'essere effettivo, ossia tale da consentire concretamente l'effettuazione di interventi di controllo e manutenzione volti ad inibire gli effetti pericolosi.

È proprio il potere di gestione che il custode esercita sulla res a giustificare - in un'ottica di sollecitazione al corretto adempimento dei relativi obblighi - la previsione di un regime di imputazione della responsabilità più gravoso, che si sostanzia in una presunzione di responsabilità superabile soltanto con la prova del caso fortuito.

Tirando le fila di quanto riferito:

  • l'art. 2051 c.c., stabilendo che "ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito", contempla un criterio di imputazione della responsabilità che, per quanto oggettiva in relazione all'irrilevanza del profilo attinente alla condotta del custode, è comunque volto a sollecitare chi ha il potere di intervenire sulla cosa all'adozione di precauzioni tali da evitare che siano arrecati danni a terzi (di recente, testualmente si esprime Cass. n. 23584/2013);
  • a tanto, peraltro, fa pur sempre riscontro un dovere di cautela da parte di chi entri in contatto con la cosa: quando il comportamento di tale secondo soggetto sia apprezzabile come incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione squisitamente di merito, che va bensì compiuta sul piano del nesso eziologico ma che comunque sottende un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela (Cass. n. 2692/2014);
  • e perfino quando la conclusione sia nel senso che, anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa, la situazione di possibile pericolo comunque ingeneratasi sarebbe stata superabile mediante l'adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, potrà allora escludersi che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell'evento, e ritenersi integrato il caso fortuito.

I giudici di legittimità hanno affermato il principio di diritto a mente del quale il proprietario di una strada non è responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., degli infortuni occorsi ai fruitori di quest'ultima, ove sia provata l'elisione del nesso causale tra la cosa e l'evento, quale può aversi, in un contesto di rigoroso rispetto di eventuali normative esistenti o comunque di una concreta configurazione della cosa in condizioni tali da non essere in grado di nuocere normalmente ai suoi fruitori avveduti e prudenti, nell'eventualità di accadimenti imprevedibili ed ascrivibili al fatto del danneggiato stesso - tra i quali una sua imperizia o imprudenza - o di terzi (Cass. n. 2692/2014).

Pertanto, del tutto inesigibili - perché eccedenti, con tutta evidenza, quella soglia di contemperamento tra dovere di precauzione e dovere di cautela - le condotte di ogni proprietario di strada di costruirla e tenerla in condizioni tali da permettere in qualsiasi momento e in qualsiasi punto ai suoi utenti la velocità massima in tesi consentita, come pure di dotarla di segnalazioni di pericolo generico, ulteriori rispetto alla all'esistenza di specifici limiti di velocità e quindi già di per sé tale da imporre all'utente di adottare ogni cautela nell'affrontare la strada, rapportando la propria concreta condotta di guida alle effettive esigenze e circostanze del caso.

Le misure di precauzione e salvaguardia imposte al custode del bene devono ritenersi correlate alla ordinaria avvedutezza di una persona e perciò non si estendono alla considerazione di condotte irrazionali, o comunque al di fuori di ogni logica osservanza del primario dovere di diligenza, con la conseguenza che non possono ritenersi prevedibili ed evitabili tutte le condotte dell'utente del bene in altrui custodia, ancorchè colpose (Cass. n. 6065/2012; Cass. n. 10703/1999).

Osservazioni

Nell'esercizio del potere d'interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice del merito, ha il potere-dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile dal tenore letterale degli atti e dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante nonché dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio, nonché di tener conto del provvedimento richiesto in concreto; non di meno il giudice del merito incontra il limite, imposto dall'art. 112 c.p.c., di rispettare gli obblighi, da un lato, di conformare la pronuncia alla richiesta e, dall'altro, di non sostituire ex officio all'azione formalmente proposta una diversa perché fondata su fatti differenti o su una differente causa petendi, dacché, in caso di loro violazione, non d'eventualmente erronee interpretazione e conseguente qualificazione della domanda si tratterebbe, bensì di sua immutazione per alterazione o sostituzione d'uno o d'entrambi gli elementi identificativi dell'azione, petitum e/o causa petendi, e, correlativamente, di decisione estranea al thema decidendum effettivamente dedotto in giudizio e d'omessa pronunzia su di esso.

Come, inoltre, dal vigente sistema processuale sia dato evincere il principio secondo cui solo al giudice del primo grado è consentito l'incondizionato esercizio del potere di qualificazione della domanda, mentre, per quanto attiene al giudizio di secondo grado, deve ritenersi, in ragione dell'effetto devolutivo dell'appello e della presunzione d'acquiescenza posta dall'art. 329 c.p.c., con conseguente formazione del giudicato, che non sia più possibile mutare ex officio la qualificazione ritenuta dal primo giudice, ove questa non abbia formato oggetto di impugnazione esplicita o, quanto meno, implicita laddove una diversa qualificazione costituisca la necessaria premessa logico-giuridica d'un motivo d'impugnazione espressamente formulato; diversamente argomentando, si verrebbe a consentire una continua alterazione dei termini dell'accertamento giudiziale, e, quindi, della decisione nei gradi successivi al primo ed, in tal guisa, a violare, da un lato, il precetto costituzionale posto a garanzia del diritto di difesa e, dall'altro, gli stessi surrichiamati principi sui quali si basa il carattere dispositivo del processo civile.

Ne consegue che il giudicato deve ritenersi formato anche sulle questioni di qualificazione giuridica dei rapporti, qualora le parti abbiano accettato sul punto la decisione, omettendone l'impugnazione e svolgendo le rispettive difese proprio sul presupposto di quella qualificazione; nel qual caso, non può ritenersi che il giudice d'appello, pur trattandosi di qualificazione giuridica, debba o possa riesaminare ex officio la questione, in quanto, i suoi poteri essendo correlati ai motivi d'impugnazione secondo il principio tantum devolutum quantum appellatum, può bensì dare alla domanda, nei limiti del petitum, un fondamento giuridico diverso da quello esposto dalla parte, ma solo se ed in quanto sia direttamente, od indirettamente secondo quanto sopra evidenziato, investito della qualificazione e non già quando questa, risolta dai giudici di primo grado, non sia stata censurata in sede di impugnazione o debba essere necessariamente riesaminata ai fini della decisione d'una censura espressamente proposta.

Con l'ulteriore precisazione che, l'ambito d'estensione dell'autorità del giudicato dovendosi determinare non solo in riferimento all'oggetto della controversia ed alle ragioni fatte valere dalle parti (giudicato esplicito) ma anche con riguardo agli accertamenti che siano necessariamente ed inscindibilmente collegati alla decisione della quale costituiscono il presupposto (giudicato implicito), la cosa giudicata si forma non soltanto sulle statuizioni espresse nel dispositivo della sentenza ma anche sulle affermazioni che si presentino come il presupposto logico-giuridico della soluzione adottata e, quindi, anche sulla qualificazione della domanda pur ove non espressamente dichiarata.

Tuttavia, in relazione al rapporto tra l'art. 2043 c.c. e art. 2051 c.c., non vi è dubbio che l'art. 2051 c.c. può essere invocato per la prima volta nel grado di appello, quante volte nel giudizio di prima istanza la norma non sia stata espressamente invocata da parte attrice ovvero ad essa non abbia fatto riferimento il giudice di prime cure nella redazione della sentenza. La corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, infatti, è comunque garantita dal rilievo che, nel caso concreto, l'attore censuri il comportamento del proprietario della strada, per non avere adottato le misure idonee ad impedire che il bene oggetto di custodia potesse cagionare un danno a terzi.

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