La liquidazione del danno da invalidità permanente va effettuata in valori monetari attuali con gli interessi compensativi

08 Agosto 2016

In tema di risarcimento del danno, dovendo la liquidazione essere effettuata in valori monetari attuali, non è necessaria l'espressa richiesta da parte dell'interessato degli interessi legali sulle somme rivalutate, la quale deve ritenersi compresa nella domanda di integrale risarcimento inizialmente proposta.
Massima

In tema di risarcimento del danno, dovendo la liquidazione essere effettuata in valori monetari attuali, non è necessaria l'espressa richiesta da parte dell'interessato degli interessi legali sulle somme rivalutate, la quale deve ritenersi compresa nella domanda di integrale risarcimento inizialmente proposta e se avanzata per la prima volta in appello non comporta una violazione dell'art. 345 c.p.c., atteso che nei debiti di valore il riconoscimento degli interessi c.d. compensativi costituisce una modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso con il limite dell'impossibilità di calcolarli sulle somme integralmente rivalutate alla data dell'illecito, e che l'esplicita richiesta deve intendersi esclusivamente riferita al valore monetario attuale ed all'indennizzo del lucro cessante per la ritardata percezione dell'equivalente in denaro del danno patito (tra le varie, cfr. Cass. n. 10193/2010).

Il caso

Mevia, quale trasportata sulla motocicletta condotta da Tizio e di proprietà di quest'ultimo, assicurata presso la Beta assicurazioni veniva sbalzata al suolo e mentre giaceva riversa sul manto stradale veniva investita da Sempronia, che conduceva una vettura di proprietà di Caio ed assicurata dalla Gamma assicurazioni s.p.a.. Il Tribunale di Monza attribuiva la responsabilità dell'evento per il 25 % a Mevia; la Corte d'appello di Milano, invece, escludeva la responsabilità di quest'ultima e personalizzava al massimo il danno, portando il risarcimento di quello non patrimoniale da € 549.599,00 ad € 750.000,00. Avverso quest'ultima decisione proponevano ricorso per cassazione Mevia ed i suoi familiari facendo valere sei distinti motivi di gravame, a cui rispondevano con controricorso sia la Beta che la Gamma assicurazioni. In particolare, i ricorrenti, con il terzo motivo di censura, lamentavano che il giudice, nel determinare la somma complessiva pari ad € 750.000,00 in termini monetari attuali, per quanto riguarda il danno da invalidità permanente, non aveva riconosciuto gli interessi sulla somma derivante dalla differenza tra quanto già corrisposto e quanto riconosciuto dalla Corte d'appello. La controricorrente compagnia non negava il diritto dei ricorrenti ma sosteneva che nel loro atto di appello i predetti interessi non erano stato richiesti e non avrebbero potuto quindi essere liquidati dalla Corte territoriale. E, gli Ermellini, rigettando la tesi della società assicurativa, accolgono la censura de qua chiarendo che la liquidazione del danno deve essere effettuata in valori monetari attuali e deve ritenersi compresa nella domanda di risarcimento inizialmente proposta. Di conseguenza, la Suprema Corte cassa la sentenza in relazione al succitato motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna la Beta assicurazioni al pagamento in favore della controparte, fino al saldo effettivo, degli interessi sulla somma corrisposta come ulteriore acconto in base alla sentenza d'appello, detratto quanto già riconosciuto dalla sentenza di primo grado.

La questione

La questione in esame è la seguente: in tema di risarcimento del danno da invalidità permanente, la rivalutazione della somma liquidata può essere riconosciuta dal giudice d'ufficio, in grado di appello, pur se non specificamente richiesta da parte dell'interessato?

Le soluzioni giuridiche

La figura del debito di valore, essendo un modo di soluzione di conflitti di interessi concreti, risulta storicamente condizionata nel suo contenuto, dal particolare atteggiarsi di tali conflitti. L'aumento del tasso legale al 10% ad opera della novella sul rito civile, ex l. n. 353/1990, in un periodo storico di inflazione rientrante, non rimase privo di conseguenze quanto alla relativa teorica, specie sotto il profilo della cumulabilità di rivalutazione ed interessi. A quel livello, infatti, l'attribuzione degli interessi legali risultava ampiamente comprensiva del deprezzamento monetario e tale da attribuire un interesse reale di notevole entità e superiore, specie verso la fine degli anni Novanta, a quello ottenibile con la maggior parte degli impieghi del denaro sul mercato dei capitali.

Il problema centrale, dunque, riguarda l'an e il quomodo del calcolo di interessi sui debiti di valore per il periodo che va dal sorgere dell'obbligazione alla successiva liquidazione e, più in generale, attiene alla tematica relativa ai criteri da adottare per una corretta liquidazione dell'obbligazione stessa. Già a partire dalla sentenza del Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1712, le Sezioni Unite avevano affermato la validità del regime del cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria, negando, però, al fine di evitare ingiuste duplicazioni risarcitorie, che il calcolo degli interessi potesse essere effettuato sulle somme rivalutate. In effetti, le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sui contrasti che avevano cominciato ad affiorare in giurisprudenza, avevano abbandonato l'automatismo nell'attribuzione degli interessi legali. Così, da un lato, dando seguito concreto alla tesi del fondamento equitativo della spettanza degli interessi legali cosiddetti compensativi, la Suprema Corte aveva sostenuto che il relativo ammontare andava determinato non in base al saggio legale, bensì nella misura che apparisse congrua al giudicante in relazione al danno da ritardo e cioè al lucro cessante provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma, che doveva essere provato dal creditore anche mediante criteri presuntivi ed equitativi. Dall'altro lato, invece, si era statuito che, come base di calcolo degli interessi, non doveva assumersi la somma rivalutata al momento della decisione, bensì quella corrispondente al valore del bene al momento dell'illecito, precisandosi tuttavia che tale somma avrebbe dovuto essere via via rivalutata unicamente qualora il creditore riuscisse a dare la prova della possibilità di sottrarre l'impiego del denaro agli effetti negativi della svalutazione monetaria, laddove invece questa prova non fosse data, potrebbe essere attribuito l'interesse fissato soltanto e sempre sulla somma corrispondente al valore del bene al momento del fatto illecito. L'obbligazione risarcitoria deve perciò ristabilire la posizione patrimoniale nella quale il danneggiato si sarebbe trovato se non vi fosse stato né l'illecito né il ritardo per la liquidazione del danno.

Il prodotto dell'evoluzione giurisprudenziale in materia di debiti di valore, quale risulta dalla puntualizzazione delle Sezioni Unite nel predetto grand arrêt Cass., n. 1712/1995, cui si conforma il decisum che qui ci occupa, si sintetizza nell'affidare al giudice il compito di verificare caso per caso, in base agli elementi probatori, anche presuntivi, dedotti dalla parte, sia se si debba procedere alla rivalutazione del danno originario, sia se si debbano liquidare ed in quale misura gli interessi su detta somma.

Pertanto, la responsabilità risarcitoria comporta l'obbligo di rimuovere il pregiudizio economico subito dal danneggiato, restituendo al suo patrimonio la consistenza che avrebbe avuto senza il verificarsi del fatto lesivo: in quest'ottica, il danno corrisponde alla diminuzione patrimoniale determinatasi che è data dalla differenza tra il valore attuale del patrimonio del danneggiato e il valore che esso presenterebbe se il fatto dannoso non si fosse verificato.

Partendo da siffatte premesse, la giurisprudenza fino alla metà degli anni Novanta, ha costantemente utilizzato un metodo di liquidazione del danno fondato su di una triplice operazione: alla previa stima della diminuzione patrimoniale, effettuata con riguardo al valore del danno al momento della commissione dell'illecito, cosiddetta aestimatio, seguiva il successivo aggiornamento in termini monetari attuali del valore stimato, cosiddetta taxatio e, infine, sulla somma rivalutata si computavano gli interessi, con decorrenza dalla data dell'evento produttivo del danno.

Nelle obbligazioni risarcitorie, in base al sistema delineato, la giurisprudenza finiva per riconoscere la piena cumulabilità di interessi e rivalutazione monetaria, giustificandola in relazione alla diversa funzione rispettivamente assolta: mentre gli interessi andrebbero corrisposti a titolo di lucro cessante, in quanto diretti a risarcire il mancato guadagno che sarebbe derivato al danneggiato dal tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene leso, la rivalutazione, invece, andrebbe imputata alla componente del danno emergente, che consiste nella perdita secca subita dal danneggiato e corrisponde al valore attualizzato del bene perduto.

Gli interessi sull'obbligazione risarcitoria venivano qualificati come compensativi in quanto, essendo diretti ad assicurare la completa reintegrazione del patrimonio del danneggiato, si facevano decorrere automaticamente dal giorno del fatto dannoso, al fine di compensare il danneggiato del ritardo con cui poteva avvenire la liquidazione.

La ragione della creazione di tale categoria trovava giustificazione, altresì, nella difficoltà di qualificare giuridicamente i suddetti interessi come moratori, stante l'antico brocardo in illiquidis non fit mora nonché in ragione del mancato richiamo all'art. 1224 c.c. da parte dell'art. 2056 c.c..

È dunque negli artt. 1226 e 2056 c.c. che si ravvisa la base per attribuire al creditore-danneggiato un equo indennizzo, pur in assenza di prova specifica di danno da ritardo, per il mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario, ma ciò comporta che simile forma di risarcimento trovi ostacolo nell'adeguamento monetario della somma eventualmente intervenuto aliunde.

Tale classificazione non è di poco momento giacché, partendo dalla considerazione che gli interessi compensativi costituiscono una componente del danno sotto il profilo del lucro cessante, in giurisprudenza si riconosce che essi possano essere attribuiti dal giudice anche d'ufficio e si ammette che la relativa istanza possa essere formulata dal danneggiato per la prima volta anche in appello, senza costituire domanda nuova, ex art. 345 c.p.c., perché deve intendersi implicitamente formulata in primo grado con la generica domanda di risarcimento.

Difatti, secondo il consolidato e pacifico orientamento giurisprudenziale, (ex multis, Cass. civ. sez. III, sent., 28 aprile 2010, n. 10193), l'attribuzione di rivalutazione ed interessi in ordine alle domande aventi ad oggetto crediti di valore deve avvenire d'ufficio, anche in assenza di corrispondente domanda di parte. Ciò comporta che non sia domanda nuova la richiesta, formulata anche in appello, della rivalutazione in riferimento ai debiti di valore. Da tale impostazione discende che, pur quando il giudice di prime cure, come nella specie, abbia correttamente liquidato il danno con riferimento ai valori monetari al momento della pronuncia, il giudice dell'impugnazione è tenuto a rivedere tale liquidazione in relazione ai valori monetari del momento in cui egli emette la decisione.

E, pertanto, ai fini della soluzione della prospettata quaestio, dovendo la liquidazione essere effettuata in valori monetari attuali, non è necessaria l'espressa richiesta da parte dell'interessato degli interessi legali sulle somme rivalutate, la quale deve ritenersi compresa nella domanda di integrale risarcimento inizialmente proposta. Nella sentenza in esame, infatti si afferma che «nei debiti di valore il riconoscimento degli interessi c.d. compensativi costituisce una modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso con il limite dell'impossibilità di calcolarli sulle somme integralmente rivalutate alla data dell'illecito».

Osservazioni

Come noto i diversi criteri di liquidazione del danno alla persona hanno formato oggetto di ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale sin dagli anni Settanta.

Se la valutazione del danno alla persona nel suo aspetto percettivo è rimessa al consulente tecnico d'ufficio, che per il danno biologico nel suo profilo statico potrà far uso di tabelle che esprimono il dato stesso in percentuale di invalidità permanente o temporanea, difatti compete al giudice ed al giudice soltanto rinvenire, sulla base dell'ordinamento, il criterio cui ancorare la liquidazione del danno stesso.

In particolare, per quanto qui ci occupa, nei debiti di valore il riconoscimento degli interessi cosiddetti compensativi costituisce una modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso con il limite dell'impossibilità di calcolarli sulle somme integralmente rivalutate alla data dell'illecito. Resta quindi ferma la spettanza dei predetti interessi, quale strumento imprescindibile per mantenere inalterato il valore del credito e per tenere indenne il creditore per il fatto di ricevere il risarcimento in un momento necessariamente successivo a quello dell'illecito. Pertanto, da una parte, la rivalutazione reintegra il patrimonio della perdita subita, dall'altra gli interessi cosiddetti compensativi costituiscono la liquidazione del danno da ritardo nelle obbligazioni di valore, che si configura appunto come lucro cessante. Questi ultimi, infatti, sono dovuti, a differenza degli interessi moratori, prescindendo dalla mora e dall'inadempimento e, a differenza di quelli corrispettivi, indipendentemente dalla liquidità ed esigibilità del credito. La funzione dell'interesse compensativo è quella di compensare il creditore di un mancato godimento del bene. E' opportuno ricordare però che la produzione degli interessi non è ex abrupto, come di solito accade nel caso degli interessi moratori nelle obbligazioni di valuta; essendo queste ultime sottoposte al principio nominalistico, la rivalutazione del debito non è automatica, ma può essere provata solo come maggior danno, ex art. 1224, comma 2, c.c..

Per contro, sia o meno calzante la tesi per cui gli interessi compensativi mirerebbero a compensare il danneggiato per il lucro cessante discendente dalla perdita della utilitas che il creditore avrebbe tratto dalla somma originariamente dovuta, gli interessi andranno riconosciuti quale strumento per tener conto del pregiudizio reale sofferto dal creditore per non aver potuto utilizzare il denaro che egli aveva diritto a ricevere. Su queste basi, si può procedere a seconda dei casi ad una personalizzazione del danno, che consente di individuare in ordine a ciascun tipo di creditore il concreto e specifico danno conseguito per non aver potuto disporre tempestivamente della somma dovuta. Concreto e specifico danno che non potrà che commisurarsi in funzione dell'utile che quel determinato creditore avrebbe verosimilmente conseguito se avesse potuto disporre tempestivamente della somma.

Peraltro non è necessario che gli interessi de quibus siano esplicitamente domandati né, una volta chiesto al danneggiato l'integrale risarcimento, che nei debiti di valore presuppone sempre e comunque che la liquidazione sia effettuata in valori monetari, è configurabile una violazione dell'art. 345 c.p.c. per essere stati gli stessi esplicitamente domandati solo in appello.

Difatti, tale domanda sarebbe inutile in relazione al petitum iniziale, posto che gli interessi compensativi costituiscono voce dell'integrale risarcimento da illecito civile che tiene conto della ritardata percezione dell'equivalente monetario del danno.

Guida all'approfondimento
  • F. Busoni, Criteri ed oneri probatori per la determinazione del maggior danno da inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie, in Obbligazioni e contratti, 2009, 110
  • N. D'Agnese, Interessi compensativi come danno da lucro cessante nei debiti di valore, in www.justowin.it
  • M. De Cristofaro, Sul cumulo di rivalutazione ed interessi e su alcuni profili irrisolti del trattamento processuale dei debiti “di valore”, in Il corr. giur., 2000, 1065-1081
  • G. De Marzo, Debiti di valore e «overcompensation», in Foro it., 1995, I, 1470
  • F. Mastropaolo, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. giur. Treccani, vol. XXI, Roma, 1990
  • E. Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, vol. IX, Torino, 1999, 563
  • A. Perrone, Tra adempimento dell'obbligazione pecuniaria e disciplina del debito risarcitorio: appunti critici intorno all'espressione «debito di valore», in Banca Borsa e Titoli di Credito, 2000, 605
  • R. Sabato, Tecniche di accertamento e criteri di liquidazione del danno alla persona, in www.csm.it/quaderni
  • N. Rizzo, Il problema dei debiti di valore, Padova, 2010

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