La prova presuntiva nel danno non patrimoniale del prossimo congiunto del macroleso

Paolo Maria Storani
27 Settembre 2017

La Corte enuncia in modo fluido il pregiudizio, consistente in un moto dell'animo, non è provabile in concreto con le cd. prove storiche, ma solo facendo ricorso alle prove cd. critiche, prima tra tutte la prova presuntiva (art. 2727 c.c.).
Massima

Una volta che la parte abbia dedotto e provato i fatti che ne possono costituire il fondamento, il giudice deve ricercare, anche d'ufficio, la prova presuntiva, la quale, senza essere svilita a mera massima di esperienza, consiste nel ragionamento logico-deduttivo che, sulla base di fatti noti, permette di risalire a fatti ignorati. Così agendo il giudice potrà trarre dal materiale utilizzabile ai fini del decidere la prova che cercava oppure concludere che i fatti noti dei quali dispone sono sprovvisti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e non permettono di risalire al fatto ignoto. Nella fattispecie, il padre-attore aveva allegato e provato gli elementi costitutivi del diritto risarcitorio, vale a dire la gravità delle lesioni risentite dal minore, comportanti un lungo periodo di ricovero ospedaliero, l'intensità del rapporto di parentela e la coabitazione; da tali fatti il giudice desume, secondo l'id quod plerumque accidit, la circostanza che il padre della vittima primaria si mise in allarme per la salute del figlio.

Il caso

La vicenda processuale trae origine da un sinistro stradale occorso ad un giovane centauro che, conducendo il motociclo del padre, rimase infortunato in modo non lieve. Il genitore, agendo sia in proprio che in rappresentanza del figlio allora minorenne, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Matera l'automobilista ed il suo assicuratore, chiedendo il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'incidente stradale. Il giudice di prime cure accolse la domanda, ma la Corte d'Appello di Potenza dichiarò il concorso paritetico dei due antagonisti; rideterminò, riducendolo, il danno risentito dal minore e rigettò, perché non provata, la domanda di risarcimento proposta dal padre a titolo di sofferenza interiore, circoscrivendola al solo danno patrimoniale generato dal danneggiamento del motociclo. Padre e figlio, che ha nelle more del giudizio raggiunto la maggiore età, ricorrono ora in Cassazione. In particolare, il padre del centauro denuncia, con il terzo motivo di ricorso riferibile esclusivamente al proprio danno riflesso, come la Corte distrettuale abbia errato nel ritenere non provato il danno non patrimoniale da lui patito, consistito nella sofferenza interiore provata per la malattia del figlio. Il ricorrente deduce che il danno, avendo egli formulato in modo rituale la relativa domanda, doveva essere ritenuto provato per il fatto che il ragazzo, minorenne, conviveva con lui, era stato in coma e in pericolo di vita, aveva sopportato un periodo di invalidità temporanea assoluta superiore a quattro mesi e aveva alfine riportato consistenti postumi permanenti, quantificati in un'invalidità permanente del 25%.

La Corte di Cassazione esalta il ruolo della prova presuntiva, accoglie il ricorso sia per l'omissione denunciata, che per la decisività dei fatti, a mente dell'art. 360, n. 5, c.p.c., e, di conseguenza, cassa la pronuncia d'appello con rinvio alla Corte distrettuale in diversa composizione, effettuando significative considerazioni in ordine alla complessa problematica, che spesso recita il ruolo di prova regina nel risarcimento del danno.

La questione

La cerchia degli affetti è presidiata da principi di rango costituzionale, anche eurounitario, talché è garantito il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, conseguenti alla loro lesione; a prescindere da ogni acritico automatismo e da qualsiasi serialità, che degraderebbe il danno parentale a danno-evento o in re ipsa, il giudice, una volta che l'attore abbia allegato e provato le circostanze di fatto (vincolo familiare, minore età, convivenza, ricovero protratto, postumi non lievi), può ricercare d'ufficio la prova presuntiva per risalire, muovendo da tali elementi, ai fatti ignorati?

Le soluzioni giuridiche

Il danno non patrimoniale, dopo le sentenze di San Martino del 2008, ha valutazione unitaria ed è concretizzato da una serie di “voci” che, pur non avendo autonomia ontologica, ne costituiscono pur sempre l'essenza strutturale. La Corte di Cassazione, con la pronuncia ora in disamina, delinea il perimetro entro cui può e deve muoversi il giudice quando si trova al cospetto di una pretesa relativa alla sofferenza interiore, la grave lesione del rapporto parentale patita iure proprio dal prossimo congiunto di persona ferita in modo non lieve.

Un primigenio formante giurisprudenziale si formò nel corso degli anni novanta avanti alle Corti di merito tramutandosi in indiscutibile diritto vivente con il sigillo della S.C. che non tardò ad arrivare soltanto alcuni anni dopo. Prima di occuparci del responso del giudice di legittimità, è utile ricordare che, in un'epoca remota in cui la Cassazione costantemente escludeva il diritto in disamina circoscrivendolo all'infortunato, il Tribunale di Milano, con la innovativa sentenza (le Sezioni Unite sopraggiungeranno soltanto dodici anni dopo) n. 4768/1990 (Trib. Milano, 18 giugno 1990 n. 4768, Est. Damiano Spera, in “Il Foro Italiano”, 1990, I, p. 3498) già riconosceva il danno non patrimoniale ai prossimi congiunti del macroleso, a mente dell'art. 2059 c.c., epicentro del sistema, proprio per le non transeunti sofferenze psicofisiche risentite per lo sconvolgimento del menage familiare. Con ciò veniva capovolto il principio tralatizio che i prossimi congiunti, non soffrendo per i patimenti del proprio familiare, non sarebbero colpiti in modo diretto ed immediato dalla condotta lesiva del terzo responsabile (a titolo esemplificativo si veda in tal senso Cass. civ., sent., n. 6854/1988).

In particolare, il Tribunale di Milano, nella citata sentenza del 1990, scolpiva il concetto in modo “rivoluzionario”: «non può escludersi, quindi, che uno stesso fatto illecito riverberi, immediatamente e contemporaneamente, i suoi effetti dannosi su più soggetti. D'altra parte è massima di comune esperienza che i prossimi congiunti soffrono sia nell'ipotesi di morte che di lesioni gravi della vittima del fatto illecito. E' invece destituita di fondamento la tesi che il dolore sia strutturalmente diverso e muti, da diretto a riflesso, nelle ipotesi, rispettivamente, di morte o lesioni gravi del prossimo congiunto. Al contrario, la continua presenza del soggetto leso fa rivivere nel prossimo congiunto, e forse anche in modo più penetrante, la sua personale sofferenza, la quale è comunque riconducibile, direttamente, al fatto illecito che aveva cagionato l'evento lesivo».

Orbene, pur non ricompresa in nessuna norma dell'ordinamento giuridico, tale tipologia di danni nei quali, paradossalmente e per così dire, il danneggiato non è la parte lesa, ma è legittimato iure proprio ad agire contro il responsabile dell'evento lesivo, è stata pacificamente riconosciuta dal leading case delle Sezioni Unite come danno non patrimoniale risarcibile (Cass. civ., Sez. Un., 1 luglio 2002 n. 9556); con tale fondamentale pronuncia si è ampliata l'area della risarcibilità, allargandone le frontiere pur tenendo a mente la prospettiva che un allargamento a dismisura delle maglie risarcitorie e della platea dei legittimati non sarebbe stata né sostenibile, né corretta.

Sovvertendo il verdetto di appello, che, a propria volta, aveva riformato la sentenza di primo grado sul presupposto che l'attore non avesse fornito alcuna prova in ordine ai “danni di diversa natura”, ora la S.C., con la pronuncia attuale, enuncia in modo fluido e solare che un siffatto pregiudizio, consistente in un moto dell'animo, non è provabile in concreto con le cd. prove storiche, ma solo facendo ricorso alle prove cd. critiche, prima tra tutte la prova presuntiva (art. 2727 c.c.).

Di certo, la sentenza di legittimità non si mostra accondiscendente ad automatismi risarcitori ed accentua l'importanza del ruolo dell'avvocato che, nell'avviare il motore del giudizio di merito, dovrà essere particolarmente accurato nell'individuare e nell'elencare in modo circostanziato gli elementi costitutivi per la dimostrazione dell'esistenza di un danno non patrimoniale da sofferenza interiore; a parte andranno vagliati gli aspetti esteriori incidenti sulle attività realizzatrici che dimostrino i concreti cambiamenti in senso peggiorativo nella qualità di vita del danneggiato e nella sua sfera esistenziale; a tali solidi aspetti attinenti al fatto storico il giudice potrà ancorare la ricerca dei fatti ignorati, avvalendosi, dunque, delle presunzioni e anche del notorio, distinguendo - è ovvio! - caso da caso in rapporto alle peculiarità ed al… peso del compendio istruttorio.

E veniamo a quello che Carl Schmitt definirebbe il “punto di attacco” immanente alla posizione di valori posti alla base della istruttiva pronuncia; la prova presuntiva, rileva autorevolmente la Corte di legittimità, se da un lato non può essere svilita ad una «mera massima d'esperienza», dall'altro deve essere cercata anche d'ufficio, qualora la parte abbia dedotto e provato fatti i noti che ne possano costituire il fondamento, essendo un «ragionamento logico-deduttivo che consente di risalire a fatti ignorati partendo da fatti noti».

Dal momento che nel caso di specie erano state debitamente provate le circostanze che la vittima primaria fosse minorenne, che era stata ricoverata in ospedale per un lasso assai ampio (il caso comportò un periodo di invalidità temporanea assoluta ascendente ad oltre quattro mesi), che aveva patito lesioni non lievi (invalidità permanente del 25%) e che conviveva con il padre, la Corte le ritiene coincidenti con altrettanti fatti che il giudice avrebbe dovuto prendere in considerazione ex artt. 2727 e 2729 c.c. per il riconoscimento del danno invocato correttamente dall'istante, eppur negato nel giudizio d'appello. Dunque, la gravità delle lesioni patite dal minore ed il rapporto di parentela tra questi ed il padre non potevano non essere considerati elementi dai quali desumere - secondo l'id quod plerumque accidit - la circostanza che il padre della vittima «si mise in allarme» per la salute del figlio.

Altrimenti opinando, in difetto di dimostrazione, si cadrebbe in una sorta di automatismo risarcitorio ed il danno parentale, danno che le Sezioni Unite del 2002 inquadrarono nella figura del c.d. danno morale riflesso o da rimbalzo, la cui propagazione investe le vittime secondarie, vale a dire i soggetti avvinti da legame significativo con la vittima primaria, scadrebbe come una sorta di danno-evento o in re ipsa.

Ma in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili della persona ed, ancora più in generale, in tutte le ipotesi di applicazione dell'art. 2059 c.c., congegno nevralgico dell'intero sistema del risarcimento del danno non patrimoniale, va conclamato che il danno non è mai in re ipsa, riconducibile all'evento lesivo dell'interesse protetto, ma è pur sempre danno conseguenza che deve essere in concreto accertato, sia pure - talvolta o sovente - mediante presunzioni; a titolo di mera esemplificazione, rievocando C. Cost. n. 372/1994, «è sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato».

Inoltre, immancabilmente pure le sentenze di San Martino sanciscono che «il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003 n. 8827; Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003 n. 8828; Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2003 n. 16004), che deve essere allegato e provato… E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

Ad ogni buon conto, per completezza espositiva e per offrire al lettore un quadro completo dell'argomento qui trattato, va anche rilevato che Cass. civ., sez. III, 14 giugno 2016, n. 12146, per una fattispecie di lesioni gravissime (esiti invalidanti pari all'85% e perdita definitiva della deambulazione e dell'autonomia nella maggior parte delle attività fisiologiche) subite da un pedone di nazionalità ucraina ch'era stato - secondo il Tribunale di Monza, sez. dist. di Desio - trascinato sul selciato per circa trenta metri, mentre per la Corte d'Appello di Milano l'automobilista aveva sormontato il corpo di un ciclista caduto per ebbrezza, si è così espressa: «La Corte territoriale, senza addivenire ad un riconoscimento in re ipsa del danno non patrimoniale ai congiunti della vittima del sinistro per le gravissime lesioni patite da quest'ultima, ha fatto applicazione del principio - enunciato da questa Corte con la sentenza Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2012 n. 4253 - secondo cui il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare». La Corte distrettuale avrebbe errato a liquidare il danno non patrimoniale ai prossimi congiunti del cittadino ucraino in assenza di allegazioni specifiche sul punto e di prova su taluni elementi presuntivi, come quello della coabitazione, in considerazione del fatto che al momento dell'incidente la vittima era in Italia e i familiari in Ucraina. La Cassazione risponde alla ricorrente assicurazione che non era contestato lo stretto vincolo di parentela, trattandosi del coniuge e dei figli dell'investito ed essendo provate le gravissime sequele invalidanti patite da costui. In sintesi, le doglianze alle quali allude la compagnia assicurativa ricorrente non risultano decisive per l'operare della predetta presunzione, soprattutto in considerazione che non venne neppure dedotto che la convivenza fosse insussistente per separazione personale dei coniugi ucraini e non già, invece, soltanto temporaneamente sospesa stante l'attività lavorativa prestata in Italia dalla vittima primaria.

Osservazioni

Nel caso di specie oggi affrontato è stata opportunamente considerata grave una fattispecie di invalidità permanente ascendente al 25%, che di per sé potrebbe anche non tradursi in una menomazione grave; il collegio, però, ha verosimilmente valorizzato il lunghissimo periodo di malattia, superiore a mesi quattro.

Ovviamente la prova deve pur esserci, seppur in linea presuntiva; ricordiamo che il danno da lesione grave della vittima primaria si riverbera sul congiunto, ledendo diritti di rilevanza costituzionale, quali l'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della solidarietà; tali diritti sono tutelati dagli artt. 2, 29, 30 Cost. sincronicamente agli artt. 2 e 32 Cost.; ma rileviamo anche che, in analogia al caso menzionato da Cass. civ. n. 11851/2015 della rottura ad opera di un terzo responsabile del dente mentre il danneggiato si sta recando dall'odontoiatra a farsi estirpare proprio quello stesso dente, la giurisprudenza individua ipotesi nelle quali il bene protetto viene offeso, ma non ne consegue danno da rifondere. Orbene, anche nel campo della lesione parentale non è sempre possibile presumere che, pur in presenza di lesione dell'interesse protetto, ricorra una sofferenza interiore.

La presunzione può essere definita come la deduzione logica attraverso cui il giudice può desumere la prova di un fatto ignorato, prendendo le mosse da un fatto o da una serie di fatti oggettivi, proprio come è accaduto nella fattispecie in rassegna; quando il giudice fa ricorso a tale prova presuntiva, a mente dell'art. 2729 c.c. le presunzioni dovranno essere gravi, precise e concordanti; in definitiva, dovranno addirittura vantare le caratteristiche dell'oggettivamente inconfutabile: la certezza? Pare sufficiente che il fatto ignorato sia una conseguenza probabile del fatto noto e di un legame logico-causale con il fatto conosciuto. Talché, è importante che la deduzione del giudice possieda il requisito della logicità; per contro, di un fatto non si potrà mai affermare la logicità, bensì la concretezza.

Del resto, comprimere la prova presuntiva entro confini eccessivamente angusti sarebbe deleterio ed irrazionale: è sufficiente che il percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alle conseguenze, ossia l'inferenza, sia probabile e non occorre, invece, che sia esclusiva.

Oltretutto, la ravvisabilità dell'inferenza esclusiva renderebbe inutile ed implausibile il ricorso alla prova presuntiva perché si verserebbe in ipotesi di raggiunta prova storica, mentre la prova presuntiva è una prova critica.

Inoltre, il giudice non dovrà valutare in modo atomistico i molteplici indizi individuati; dovrà, invece, soppesarli complessivamente.

L'indizio, infine, è il fatto noto da cui prende avvio il ragionamento deduttivo.

In sintesi, facendo ricorso ad un preistorico precedente (Cass. civ., n. 2971/1962), deve reputarsi sussistente una prova presuntiva laddove da più indizi possa desumersi un'armonica spiegazione, benché alcuni degli indizi isolati siano suscettivi di diversa interpretazione.

Ovviamente, se solo le avesse allegate e dimostrate, per il ricorrente - congiunto del macroleso sarebbero state risarcibili anche le alterazioni che avessero provocato riflessi nella vita quotidiana, nella vita di tutti i giorni, nelle attività realizzatrici del versante areddituale, all'interno della relazione familiare con costui intessuta e che, pertanto, hanno la caratteristica di incidere nella vita quotidiana dei congiunti.

Sotto il profilo squisitamente processuale la sentenza in commento si segnala per un'applicazione pregevole ed ineccepibile del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Il terzo motivo di ricorso si articolava in due sottopartizioni: una prima, in cui si lamentava il vizio di violazione di legge, in particolare degli artt. 147, 2043, 2059, 2056 e 1226 c.c., all'evidenza infondata in quanto stabilire se esista o non esista la prova di un danno non patrimoniale è un accertamento di fatto; una seconda, che, invece, ha sortito la favorevole pronuncia per il ricorrente, riguarda il versante dell'omesso esame di un fatto decisivo; ricordiamo che la Corte d'Appello di Potenza aveva liquidato al padre del motociclista il solo danno patrimoniale consistente nel pregiudizio materiale al mezzo, di proprietà del medesimo genitore. Qualche spunto di una maggiore apertura rispetto al rigorismo precedente, che, riformulato il vizio specifico denunciabile in cassazione dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134, ha ridotto al minimo costituzionale il controllo sulla motivazione in sede di legittimità (Cass. civ., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053 e Cass. civ., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8054), è da elogiarsi in un contesto dell'amministrazione della giustizia in cui si assiste con sempre maggiore (e quasi inquietante) frequenza all'intima incongruenza logica della struttura stessa del giudizio di fatto. A nostro sommesso orientamento l'ermeneutica meno rigorosa e più elastica del vizio di motivazione denunciabile è auspicabile; di certo, non equivale, come per contro sostenuto talora in dottrina da pur autorevoli autori, a travalicare il confine della verifica estrinseca del giudizio di fatto.

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