La responsabilità della banca per il fatto illecito del dipendente

Ivan Dimitri Calaprice
28 Aprile 2015

La responsabilità della banca per fatto illecito di un proprio dipendente richiede il solo accertamento del nesso di «occasionalità necessaria» tra l'esercizio dell'attività lavorativa e il danno, ed è riscontrabile ogni qual volta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile allo svolgimento dell'attività lavorativa, anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all'insaputa del datore di lavoro, sempre che sia rimasto, comunque nell'ambito dell'incarico affidatogli.
Massima

La responsabilità della banca per fatto illecito di un proprio dipendente richiede il solo accertamento del nesso di «occasionalità necessaria» tra l'esercizio dell'attività lavorativa e il danno, ed è riscontrabile ogni qual volta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile allo svolgimento dell'attività lavorativa, anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all'insaputa del datore di lavoro, sempre che sia rimasto, comunque nell'ambito dell'incarico affidatogli.

Il caso

I perimetri della responsabilità della banca nonché l'accertamento su eventuali limiti e compressioni del portato dell'art. 2049 c.c. sono all'oggetto di questa pronuncia della Corte di Appello di Milano, che ha rammentato, sul solco di principi già diffusamente espressi dalla Suprema Corte, la cogenza del valore dell'affidamento del correntista sulla correttezza dell'esercente l'attività bancaria, ribadendo conseguenze e rimedi che possono profilarsi in caso di condotte illecite poste a suo danno da parte di un dipendente infedele.

Il caso di specie riguarda la vicenda di una signora ottantenne che cita in giudizio una banca ed un funzionario del suo organico assumendo una serie di irregolarità nell'esecuzione delle operazioni di prelievo e nella gestione di titoli concretatesi nella distrazione di somme dal proprio conto corrente a quello di terzi.

In primo grado la domanda di restituzione di tali somme viene svolta richiamando, per l'appunto, il precetto codicistico della responsabilità oggettiva dei padroni e dei committenti e corroborando la pretesa con una generica richiesta di risarcimento dei danni.

La banca, una volta costituitasi, chiede ed ottiene, fra l'altro, sia la chiamata in giudizio dei soggetti destinatari delle somme distratte dal conto corrente della attrice (e tanto per agire «in via di rivalsa» nei loro confronti) sia quella della compagnia assicuratrice mallevante per la propria responsabilità.

La compagnia assicuratrice, intervenendo nel giudizio, svolge a sua volta «domanda di rivalsa» nei confronti dei medesimi terzi chiamati.

In primo grado viene però accolta la sola domanda attrice e nei soli limiti di quota parte degli importi distratta dal funzionario infedele.

La correntista promuove quindi gravame, deducendo, fra l'altro, l'omissione di pronuncia in relazione al risarcimento dei danni.

La banca, costituitasi anche in secondo grado, oltre a chiedere il rigetto delle domande, promuove appello incidentale facendo cenno, sostanzialmente, a tre fondamentali motivi di censura della pronuncia di prime cure: l'erroneo richiamo all'art. 2049 c.c., il mancato riconoscimento della sussistenza del concorso di colpa della appellante principale ex art. 1227 c.c. nonché il mancato riconoscimento della domanda di rivalsa sulla scorta dell'operatività dell'art. 2033 c.c..

La Corte di Appello di Milano in parziale accoglimento della domanda dell'appellante principale ridetermina la misura della sorte capitale, conferma il rigetto della domanda risarcitoria e respinge l'appello incidentale della Banca dichiarando altresì inammissibile quello svolto – tardivamente - dalla compagnia assicuratrice.

La questione

Il tema della responsabilità della banca, di fitta ed articolata strutturazione, involge una teoria di questioni e norme di diversa natura, atteggiandosi in diverse fattispecie di segno diverso (spaziando, ad esempio, dai macrotemi afferenti al fatto degli intermediari a quelli relativi alla concessione abusiva del credito per finire alle questioni che nascono in caso di pagamento di assegno a soggetti non legittimati).

Le diverse declinazioni di tale forma di responsabilità civile hanno, comunque, un unico, comune, referente costituzionale.

Ed infatti, l'esercizio dell'attività bancaria incontra - come qualsiasi altra attività imprenditoriale - il suo primo limite nel comma 3 dell'art. 41 Cost., secondo cui «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” ed una sua prima puntualizzazione nell'art. 47 del medesimo testo, ove si legge: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

Va dato quindi conto - in via preliminare - della circostanza che la normativa primaria e regolamentare a tutela del risparmiatore e dell'investitore ha avuto nel corso dei primi anni del duemila, un'attenzione centrale da parte del Legislatore e degli Organi di Vigilanza (Consob e Banca d'Italia) per via di una serie di scandali finanziari che avevano sollevato un acceso dibattito politico circa la necessità di innalzare il livello di trasparenza e di consapevolezza a beneficio dei clienti nello svolgimento di operazioni bancarie e finanziarie.

La pronuncia in parola ha dunque il merito di aver rimesso al centro della discussione giurisprudenziale proprio la questione della natura e della misura della responsabilità delle banche attraverso l'illustrazione di alcune questioni riferibili - a loro volta - a pochi, centrali interrogativi:

  • come si atteggia il portato dell'art. 2049 c.c. in relazione alle attività del dipendente della Banca?
  • è sufficiente la mera allegazione della prova dell'infedeltà del dipendente per ritenere assolto l'onere probatorio in relazione alla richiesta di un danno?
  • quando può ritenersi integrata la fattispecie di concorso colposo del creditore nei rapporti con un istituto di credito?
  • che natura ha la domanda di ripetizione di indebito oggettivo?
Le soluzioni giuridiche

A ciascuno di questi interrogativi la Corte meneghina offre una dettagliata risposta, richiamando, di volta in volta, la portata di indicazioni giurisprudenziali di merito e di legittimità che ne sostengono la correttezza.

In primis:

a) Sul valore e la portata applicativa dell'art. 2049 c.c. in relazione alle attività della Banca.

L'argomento dell'istituto bancario in sede di gravame è tranchant: il Giudice di prime cure ha sbagliato a non considerare che «la controparte avrebbe dovuto quanto meno, cosa che non ha fatto, richiedere la dimostrazione dei tassativi presupposti previsti dalla legge».

La replica dei Giudicanti si affida però ad un secco tecnicismo, richiamando le scivolose teorie del nesso di casualità già portate a sostegno di precedenti pronunce di Piazza Cavour sul medesimo tema.

Al cliente della banca - rispondono infatti i Giudici - non è richiesto di accertare alcunché con riguardo ai limiti operativi entro cui il dipendente (con il quale si relaziona di volta in volta) deve muoversi in base alla legge.

E tanto in ragione del fatto che «la responsabilità della banca per fatto illecito di un proprio dipendente richiede il solo accertamento del nesso di “occasionalità necessaria” tra l'esercizio dell'attività lavorativa e il danno, ed è riscontrabile ogni qual volta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile allo svolgimento dell'attività lavorativa, anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all'insaputa del datore di lavoro, sempre che sia rimasto, comunque nell'ambito dell'incarico affidatogli».

A sostegno di tale impostazione viene per l'appunto invocato il dictum di una pronuncia della Corte di Cassazione (Cass.civ., sez.III,4 aprile 2013, n. 8210) emessa proprio fra la stessa banca appellante incidentale e altro soggetto.

Va dato atto che questa impostazione era comunque già stata valorizzata in altre occasioni (Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2008, n. 6632; Cass. civ., sez. I, 20 marzo 1999, n. 2574).

Quale il valore, dunque, di questa linea argomentativa sul piano pratico?

Deve ritenersi che – così stando le cose – debba venire anzitutto in linea di conto la gerarchia assiologica - formalizzata dalla Corte –fra mansioni di adibizione e incarico di assegnazione.

Le mansioni al quale il singolo dipendente viene adibito in una banca, ove disattese oppure svolte in termini disallineati rispetto al volere del datore di lavoro, possono, infatti, sempre determinare - in astratto - un danno.

Tuttavia, ai fini della mancata riconoscibilità di un nesso fra il danno astrattamente configurabile e la condotta del dipendente non rileva suddetto disallineamento quanto - ed è questo il solo ed unico elemento dirimente - il fatto che il danneggiante abbia agito al di fuori dell'incarico affidatogli.

Diversamente - ed incontestabilmente - la responsabilità oggettiva dell'istituto di credito è sempre pacifica.

Sul punto giova anche ricordare che in questa pronuncia i Giudici milanesi hanno richiamato – in via analogica - quel complesso di categorie di comportamento che informa l'intero assetto della regolamentazione delle attività degli intermediari finanziari, sui quali gravano – nelle relazioni con la clientela - oneri di diligenza, correttezza e trasparenza.

A nulla rileva, dunque, ogni altra circostanza che incida nelle relazioni contrattuali fra correntista e istituto di credito.

Nella specie, infatti, i Giudici hanno ritenuto irrilevante il dato - pacifico - della intensità confidenziale della conoscenza fra la attrice e il funzionario infedele, la cui attività era stata addirittura qualificata dalla Banca quale vera e propria «consulenza personale».

b) La mancata qualificazione (e prova) del danno ai sensi dell'art. 2697 c.c.

I Giudici di seconde cure - pur accogliendo parzialmente la domanda dell' appellante principale per quanto concerne le somme richieste a titolo di sorte capitale sono invece lapidari nell'osservare che la richiesta di «tutti i danni (da lucro cessante e morali)» appare sfornita di adeguato supporto probatorio «in palese violazione del principio di cui all'art. 2697 c.c.».

Ciò in quanto «le richieste risarcitorie avanzate dall'attrice in primo grado non risultano infatti suffragate da idonei elementi di prova sia in relazione all'an che al quantum della pretesa».

Perché la Corte non si sofferma più di tanto nell'esplicitare la ratio di questa perentoria affermazione è facilmente intuibile.

La doglianza della appellante viene evidentemente ricondotta ad una figura di supposto «danno in re ipsa» di cui - ormai - da tempo la Suprema Corte ha definitivamente smentito la acritica accettabilità.

Più volte, infatti, i Magistrati di Piazza Cavour hanno ricordato che «è onere del danneggiato fornire al giudice del merito i necessari elementi di prova funzionali a dimostrare, sul piano processuale, tanto l'esistenza quanto l'entità delle conseguenze dannose risarcibili asseritamente subite a seguito del prodursi di un evento di danno connotato dal carattere del "contra ius" e del "non iure", non essendo legittimamente predicabile, in seno al sottosistema civilistico della responsabilità, alcuna fattispecie di danni "in re ipsa"» (ex multis Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22890).

L' illiceità della condotta dell'istituto bancario non innesca quindi una automatica risarcibilità del danno, che - in generale - deve essere sempre ed anzitutto definito in termini giuridicamente sostenibili, e, successivamente, disegnato nella sua chiara riconducibilità eziologica all'evento di cui si assume l'antigiuridicità.

c) Il concorso colposo del creditore ex art. 1227 c.c.

Un argomento di particolare suggestione spiegato dalla banca è, inoltre, quello della supposta superficialità dell' appellante principale in relazione al mancato svolgimento di azioni di controllo sull'operato del dipendente infedele.

Da tale assunto l'istituto di credito fa discendere una forma di responsabilità concorsuale nei termini in cui essa è strutturata dall'art. 1227 c.c..

Anche su questo tema la presa di posizione dei Giudici di seconde cure è rigorosa: sostengono, infatti, che «grava sul debitore responsabile del danno l'onere di provare la violazione, da parte del danneggiato, del dovere di correttezza impostogli dall'art. 1227 c.c. e l'evitabilità delle conseguenze dannose prodottesi, trattandosi di circostanza impeditiva della pretesa risarcitoria. E pertanto il debitore, al fine di invocare una riduzione della propria obbligazione per fatto del creditore, deve dimostrare non solo la colpevolezza della condotta del creditore stesso ma anche il nesso causale fra quella condotta e le conseguenze pregiudizievoli che si pretendono da essa derivate».

Nel caso di specie la banca non solo non aveva adempiuto il richiesto onere probatorio ma aveva addirittura inviato alla appellante una comunicazione attestante la consistenza (fittizia) del proprio dossier titoli.

Dunque la prova di una responsabilità concorsuale - a fronte di siffatta allegazione documentale - avrebbe comunque dovuto vincere le risultanze documentali di una missiva che dava invece atto di una realtà contraria a quella effettiva e che ingenerava nella cliente un obiettivo affidamento circa la correttezza dell'operato dell'istituto.

d) La natura della domanda di ripetizione ex art.2033 c.c.

Desta interesse, infine, il complesso di rilievi che la Corte milanese svolge in relazione al travisamento - da parte della banca - della funzione di un istituto civilistico.

Sul punto la banca aveva sostenuto l'applicabilità del portato dell'art. 2033 c.c. in ragione del fatto che gli importi contestati dall'appellante erano confluiti sui conti correnti di altri correntisti - i terzi chiamati - senza una causa giustificatrice del versamento.

Da ciò sarebbe derivata - nella prospettazione dell'appellante incidentale - la sostenibilità giuridica di una ripetizione delle suddette somme.

I Giudici milanesi - confermando il rigetto della domanda in prime cure - hanno però rilevato che il presupposto per lo svolgimento di tale azione è l'esperibilità della domanda da parte del solo solvens e nei confronti del solo accipiens sguarnito di causa acquirendi.

La banca – dunque – avrebbe colorato in termini risarcitori un'azione ontologicamente restitutoria peraltro con l'aggravante della deformazione del carattere necessariamente personale di quest'azione.

Osservazioni

Come osservato all'inizio, l'intero assetto argomentativo della Corte milanese fa leva su orientamenti già consolidati della Corte Suprema.

Uno di questi - sui quali però i Giudici milanesi in questa occasione non si sono soffermati - è il fatto che l'operatività dell'art. 2049 c.c. è comunque di piana inconfutabilità allorchè sussistano tre meri presupposti.

Ci si riferisce alla:

  • esistenza di un danno causato dal fatto illecito del "commesso";
  • esistenza di un rapporto tra "commesso" e "committente" (definito rapporto di preposizione);
  • relazione tra il danno e l'esercizio delle incombenze del "commesso" (Cass. civ., sez.III, 14 giugno 1999, n.5880).

In ragione di ciò il tentativo di scardinamento della tesi dell'applicabilità dell'art. 2049 perpetrato dalla Banca avrebbe comunque avuto difficile approdo, attesa l' assoluta ininfluenza – ai fini della configurabilità della responsabilità civile - della posizione soggettiva del danneggiato.

Di certo l'intera pronuncia - pur senza chiarirne e formalizzarne espressamente l'intenzione - ha il pregio di aver ribadito la decisività - anche per le valutazioni prodromiche alla promozione di un giudizio di appello (e le analisi circa le probabilità di esiti propizi) - della corretta determinazione dei reciproci oneri probatori ai fini della corretta rappresentazione della responsabilità civile di un soggetto e degli effettivi obblighi risarcitori a suo carico.

È infatti innegabile che l'atteggiamento «ultra - fideistico» circa una - invero inesistente - «sostenibilità probatoria in re ipsa» delle proprie tesi abbia egalitariamente nuociuto sia alla appellante principale (che non si è peritata di provare alcunché in relazione al danno asseritamente patito) sia all'appellante incidentale (deficitaria sul piano delle allegazioni circa la concorsualità della colpa della creditrice).

La pronuncia in esame sintetizza quindi, compiutamente, i principi cardinali in tema di responsabilità della banca per il fatto illecito del proprio dipendente affermando, sul solco di quanto postulato dalla Giurisprudenza di legittimità, che in tale ambito non rileva lo sconfinamento dei limiti delle proprie mansioni o il fatto della mancata conoscenza del datore di lavoro quanto l'aver agito nello svolgimento dell'incarico di assegnazione.

In questa prospettiva si profila in termini di assoluta essenzialità anche l'individuazione delle reciproche allegazioni probatorie giacché il cliente non sfugge mai all'onere di provare i fatti a fondamento del proprio diritto (tanto anche in relazione alle poste di danno eventualmente richieste) mentre l'istituto di credito non può mai lamentare in termini generici il concorso di responsabilità del creditore ove non provi un deficit di correttezza nell'esecuzione del contratto di conto corrente.

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