Corte di Giustizia Europea: il portale web può essere responsabile delle violazioni dei suoi utenti?

Vincenzo Colarocco
25 Ottobre 2017

Se nella piattaforma vi è la condivisione di opere tutelate dal diritto d'autore, senza la necessaria autorizzazione del titolare, la stessa è da considerarsi responsabile per l'illecito ivi commesso, con il conseguente risarcimento del danno patito dal soggetto titolare delle opere protette.
Massima

La messa a disposizione e la gestione su Internet, di una piattaforma di condivisione che, mediante l'indicizzazione di metadati relativi ad opere protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale piattaforma di localizzare dette opere e di condividerle nell'ambito di una rete tra utenti (peer-to-peer), rientra nella nozione di comunicazione al pubblico. Pertanto, se nella piattaforma vi è la condivisione di opere tutelate dal diritto d'autore, senza la necessaria autorizzazione del titolare, la stessa è da considerarsi responsabile per l'illecito ivi commesso, con il conseguente risarcimento del danno patito dal soggetto titolare delle opere protette.

La questione

La Corte Suprema olandese aveva sottoposto il caso alla CGUE ponendo la seguente questione: «se si configuri una comunicazione al pubblico, ai sensi dell'art. 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, ad opera del gestore di un sito Internet ove sul sito in parola non si trovano opere protette, ma esiste un sistema (...) con il quale vengono indicizzati e categorizzati per gli utenti metadati relativi ad opere protette disponibili sui loro computer, consentendo loro in tal modo di reperire e caricare e scaricare le opere protette».

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento assume particolare rilievo sia per i principi ivi espressi, sia in chiave comparatistica, in quanto conferma l'orientamento più recente della giurisprudenza italiana ed in particolare quello espresso con la sentenza n. 2833/2017 del 28 aprile 2017 della Corte d'Appello di Roma sul caso RTI c. Break Media.

La CGUE, come i giudici di Roma, nel valutare il grado di coinvolgimento della piattaforma di condivisione di contenuti TPB nell'attività di comunicazione al pubblico degli stessi –oltre a valutare se, nella fattispecie, sussistessero le condizioni per poter affermare l'esistenza di un atto giuridicamente rilevante di “comunicazione” e di un “pubblico nuovo”- ha rilevato che nel caso in esame i gestori della piattaforma online in oggetto non si limitavano a una mera attività tecnica e dunque neutra di gestione dei dati immessi dagli utenti. Infatti, la piattaforma TPB indicizza i file torrent, di modo che le opere a cui tali file torrent rinviano possono essere facilmente localizzate e scaricate dagli utenti della suddetta piattaforma di condivisione. Inoltre, la piattaforma TPB offre,in aggiunta a un motore di ricerca, un indice che classifica le opere in diverse categorie, a seconda della natura delle opere, del loro genere o della loro popolarità, e gli amministratori di tale piattaforma verificano che un'opera sia inserita nella categoria adatta. Inoltre detti amministratori provvedono ad eliminare i file torrent obsoleti o errati e filtrano in maniera attiva determinati contenuti (cfr. paragrafi 36, 37, 38, 39 della decisione).

Peraltro, specifica la Corte, «non si può contestare che la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento principale, sono realizzate allo scopo di trarne profitto, dal momento che tale piattaforma genera, come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte, considerevoli introiti pubblicitari» (cfr. paragrafo 46).

Tale attività, prosegue il Giudice europeo, non realizza una “mera fornitura” di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione, ai sensi del considerando 27 della direttiva 2001/29. Bensì, costituisce una chiara condotta attiva del provider costituente atto di comunicazione, ai sensi dell'art. 3, par. 1, dir. 2001/29.

Osservazioni

Tale reasoning ricorda molto quello fornito dal giudice d'appello nel già richiamato caso (RTI c. Break Media). Infatti, anche in quell'occasione il giudice italiano aveva ritenuto che l'attività svolta dal provider Break Media non poteva ritenersi limitata alla sola fornitura di un supporto tecnico per consentire agli utenti di accedere alla piattaforma digitale; ma tale attività era «risultata ben più complessa ed articolata di una attività di tipo neutro, automatico e meramente tecnico, tenuto conto delle pluriarticolate attività svolte dal provider nella gestione dei contenuti immessi sulla propria piattaforma digitale».

In particolare, il primo giudice romano con la sentenza n. 8437 del 27 aprile 2016, aveva chiarito che tale attività di gestione si concretizzasse proprio nell'attività di indicizzazione e catalogazione dei contenuti, oltre che allo sfruttamento degli stessi a fini economici.

Il Tribunale capitolino dopo aver accertato la responsabilità del portale Break Media ha condannato lo stesso al risarcimento del danno patito dal titolare delle opere protette, utilizzando per la quantificazione dello stesso il criterio del prezzo del consenso, ovvero il corrispettivo che il contraffattore avrebbe dovuto pagare per avere la facoltà di utilizzare il diritto violato. Stabilito il criterio per la quantificazione del danno patito il Tribunale ha stabilito che la determinazione dello stesso «deve avvenire in riferimento al modello di business adottato dal titolare del diritto per stabilire quanto sarebbe stato disposto ad accettare per concederne l'uso; anche perché il valore è influenzato dal c.d. “controllo editoriale” e quindi dalla capacità del titolare di regolare l'utilizzazione e le modalità di sfruttamento dell'opera per consentire una completa ed adeguata fruizione dei diritti ceduti».

Detto criterio è stato ampiamente confermato anche dalla Corte distrettuale romana con la sentenza ricordata.

Negli stessi termini si è già espresso lo stesso Tribunale delle Imprese di Roma con sentenza 14279/2016 del 15 luglio 2016 sul caso RTI c. Megavideo: anche in tale occasione i giudici romani avevano rilevato che detta piattaforma di condivisione non avesse un comportamento agnostico rispetto ai contenuti caricati dagli utenti sulla base di attività di ottimizzazione e catalogazione dei contenuti effettuata direttamente dai gestori della stessa. In detta occasione il Tribunale di Roma ha confermato nel cd. “prezzo del consenso” il criterio di stima del danno patrimoniale (come nella sentenza RTI c. Break Media cit.) – desumibile dalle licenze d'uso siglate dal titolare dei diritti per utilizzi analoghi a quelli oggetto di causa- ed ha inoltre accertato l'esistenza anche del danno non patrimoniale derivante dal fatto che i comportamenti censurati rilevano anche penalmente, in quanto idonei ad integrare le specifiche fattispecie di reato di cui all'art. 171-ter (lett a. i comma, lett. b., comma 2) della legge sul diritto d'autore; danno quantificato nella misura del 10% sul danno patrimoniale.

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