Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Donatella Salari

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

Principio angolare del sistema è quella del diritto al risarcimento sia nel caso di responsabilità contrattuale, sia nel caso di responsabilità extra contrattuale. In questo ultimo caso le norme di riferimento vanno dagli articoli 2043 e seguenti del codice civile, che disciplinano il risarcimento del danno patrimoniale conseguente al fatto illecito mentre per il danno non patrimoniale provvede l'articolo 2059 c.c. nonché l'art. 185 c.p. rispetto a condotte che costituiscono reato le quali oltre all'obbligo di restituzioni obbligano al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale, con la conseguenza che ogni comportamento può essere fonte sia danni patrimoniali che danni non patrimoniali. La domanda di risarcimento sotto il profilo processuale deve perciò considerarsi riferita ad ambedue i profili risarcitori ed infatti il giudice di legittimità ha specificato che la richiesta di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali deve considerarsi onnicomprensiva e pertanto la richiesta del lucro cessante quale perdita di «chance» lavorativa non costituisce domanda nuova allorché l'attore nell'atto introduttivo abbia chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano (Cass. III, n. 7193/2015).

Sul migliore risultato dell’attività medico chirurgica in termini di chances vedasi Cass. III, n. 5641/2018.

Sulla lettura giurisprudenziale del concetto di danno ingiusto la S.C è intervenuta sulle immissioni di onde elettromagnetiche con Cass.III, n. 11105/2020, stabilizzando quella giurisprudenza di merito che in tema di inquinamento elettromagnetico aveva affermato che  il mancato superamento dei parametri fissati dalla legislazione statale di settore, in ossequio al principio di precauzione, osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, in base ad una sorta di presumptio legis che esclude la sussistenza di un pericolo di compromissione del bene in questione.

In tema di mobbing  Cass. lav , n. 10992/2020, ha affermato che, per integrare la fattispecie non è sufficiente l’accertata esistenza di un demansionamento o della reiterazione di condotte datoriali contra ius, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con concreti elementi  che esse integrano un disegno unico di prevaricazione.

Costituisce danno ingiusto riferibile all’ente impositore e alla società concessionaria per la riscossione un illegittimo preavviso di iscrizione ipotecaria (Cass. III, n. 10814/2020) essendo tenuta la  P.A. ad attenersi anche in ambito tributario al rispetto non solo delle normative di settore, ma anche del principio fondante del neminem laedere, potendo, pertanto il giudice accertare profili di colpa idonei a pregiudicare un  diritto soggettivo .

Secondo Cass. VI-II n. 39/2021 in tema di illecito extracontrattuale la vendita a terzi, con atto trascritto, di un bene immobile che abbia già formato oggetto, da parte del venditore, di una precedente alienazione determina  la responsabilità contrattuale dell'alienante, con conseguente presunzione di colpa ex art. 1218 c.c.; al contrario, la condotta del  successivo acquirente, pur  estraneo al pregresso rapporto contrattuale, può rilevare solo sul piano extracontrattuale, purché ricollegabile ad una  dolosa preordinazione volta a frodare il precedente acquirente quantomeno , nella consapevolezza dell'esistenza di una precedente vendita e nella previsione della sua mancata trascrizione configurandosi, in tal modo una sorta di concorso all'inadempimento dell'alienante, in conseguenza dell'apporto dato nel privare di effetti il primo acquisto, al cui titolare, di conseguenza, la relativa prova ex art. 2697 c.c.

Sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale, ove sia difficile la prova rispetto al suo preciso ammontare si gioveranno nella liquidazione del criterio equitativo (artt. 1218, 1226 e 2056 c.c.), tema di danni causati dallo spedizioniere come perdita di chance in senso patrimoniale come possibilità obiettiva di guadagno cfr. Cass. I, n. 9571/2017; Cass. III, n. 6488/2017.

Tale è l'ipotesi dell'occupazione sine titulo rispetto ai danni causati dalla perdita di disponibilità del cespite e delle sue chances di sfruttamento da provare eventualmente per presunzioni (Cass. VI, n. 20545/2018).

Si tratta di un criterio di liquidazione versatile che non si sottrae ad un obbligo stringente di motivazione.

Nel caso in particolare di danno non patrimoniale, quando, all'esito del giudizio di primo grado, l'ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo tabelle successivamente modificate nel corso del giudizio di appello, il danneggiato è legittimato a proporre impugnazione per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, purché deduca, con specifico motivo di gravame, la differenza tra i valori minimi o massimi tra le tabelle (ante e post 2008) ed alleghi che l'applicazione dei nuovi valori-punto nel minimo comporterebbe per ciò stesso un risultato più favorevole della liquidazione del danno attribuitagli con la sentenza impugnata (Cass.III, n. 22265/2018).

In ogni caso la valutazione equitativa del danno non patrimoniale costituisce parametro efficace di liquidazione allorché la sofferenza o patema d'animo risulti difficilmente valutabile come nel caso di illegittima segnalazione alla centrale rischi di imprenditore che per tale infondata iniziativa non ha potuto operare sul mercato (Trib. Padova II, n. 833 del 27 gennaio 2016).

Equitativa è anche la liquidazione del danno da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. sia pure come forma speciale di illecito civile rispetto alla fattispecie generalista di cui all'art. 2043 c.c. con la conseguenza che deve in tal caso sussistere il dolo, la mala fede o la colpa grave nell'agire o nel resistere al giudizio con la conseguenza che grava su colui che chieda il ristoro dei danni la prova su tale elemento soggettivo.

Inoltre, il criterio di equità integrativa può essere utilizzato — secondo Cass. I, n. 11464/2015, anche per determinare la lesione del diritto morale d'autore e, pertanto, in tema di opera derivata, cui l'art. 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633, conferisce autonoma tutela, applicando il cd. principio di reversione degli utili, cioè quantificando il pregiudizio in una quota parte dei proventi realizzati dal titolare dell'opera derivata a seguito del suo sfruttamento.

Lo stesso principio vale per gli interessi (Cass. IIIord. 24468/2020) sulla somma liquidata per il danno da fatto illecito che svolgono una funzione diversa da quelli moratori, regolati dall'art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare la tempestiva reintegrazione dell'equivalente pecuniario del danno subito, con la conseguenza che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria – conformemente alle diverse funzioni – e che vanno riconosciuti anche in difetto di esplicita richiesta, anche in appello.

Tale orientamento ha infatti precisato che non incorre nel vizio di ultrapetizione il Giudice che liquidi a corredo del risarcimento per fatto illecito i detti interessi compensativi considerato che nella domanda principale è inclusa quella di attribuzione degli interessi compensativi, liquidabili dal giudice di merito, anche nel giudizio di rinvio (Cass. III n. 12140/2016).

Il danno patrimoniale

Premesso innanzitutto che nei pregiudizi scaturenti dalla responsabilità contrattuale è sufficiente la colpa che è sempre presunta va detto che l'art. 1174 c.c. che dopo avere specificato che la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica aggiunge che essa deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale del creditore.

Come noto il danno patrimoniale è individuabile nei danni inferti alla sfera patrimoniale individuale nelle due componenti del danno emergente (danno già concretizzato) e lucro cessante (danno proiettato nel futuro costituito dal mancato guadagno e dalla perdita di chance). Anche nella responsabilità extracontrattuale esso va valutato ai sensi degli artt. 2056 che richiama, a sua volta, l'art. 1226 del codice civile e necessita della prova, anche presuntiva della sua esistenza, sia pure in via potenziale e il creditore che chieda anche i danni derivanti dalla perdita di «chance» – ossia la possibilità concreta di conseguire un determinato bene, ha l'onere di provare, anche in via presuntiva la realizzazione in concreto degli antecedenti necessari al raggiungimento del risultato sperato. La concretezza della possibilità di guadagno va rigorosamente provata e non consiste in una semplice aspettativa di fatto (Cass. III, n. 13283/2016) azione ex art. 2043 c.c. non valutabile neppure sotto l'aspetto della perdita di chances.

Infatti, è vero che il principio generale del risarcimento è quello dell'integrale ristoro da fatto illecito sia contrattuale che extracontrattuale in quanto mira alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato e, pertanto, nel caso di distruzione di un bene produttivo andrà liquidato non solo il valore della cosa in sé ma anche il reddito producibile dalla stessa (Cass. III, n. 12284 /2016) ma la nozione del danno da perdita di chances fa leva, invero, sul principio che la tutela apprestata riguarda non tanto la perdita di un vantaggio economico, quanto la mera possibilità di conseguirlo (Cass. III, n. 2737 /2015), ossia un danno futuro, collegato ad un comportamento illecito che ha eliso la possibilità di conseguire un'utilità potenziale. Qui l'accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati. Nel caso di specie tale è stata ritenuta la responsabilità per tardiva trasposizione legislativa delle direttive Cee, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, nell'ambito della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato In questa ipotesi il giudice del merito aveva identificato la «chance» perduta nella possibilità di godere dei benefici effettivi sullo sviluppo professionale derivanti da una tempestiva attuazione delle direttive ed aveva liquidato il danno in ragione di un criterio prognostico, basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili.

A tale ultimo proposito secondo il S.C.  il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie configura una  responsabilità per l’inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di carattere indennitario in conformità degli orientamenti espressi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, (Cass. VI- III-3, n. 13283/2020, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi).

Va precisato in proposito che tale responsabilità (Cass. III, n. 30502/2019)  fa riferimento al comportamento omissivo dello Stato contra ius , anche rispetto all’ordinamento interno, riportando la qualificazione dell’obbligazione all’art. 1173 c.c., come  responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì all’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, con l’ulteriore conseguenza sull’applicazione, in tal caso, dell’ ordinario termine decennale di prescrizione come fatto dannoso “speciale” esclusa ogni responsabilità, neanche solidale delle Università presso  le quali la specializzazione viene disimpegnata (Cass. III, n. 20099/2019).

Con il che può dirsi che il risarcimento del danno tende a ripristinare un equilibrio non solo materiale ma anche giuridico oltre che nei diritti assoluti, ma anche nel campo di altre categorie d'interessi ugualmente tutelabili, per esempio nel campo degli interessi pretensivi (Cass. III, n. 11794/2015).

Siamo dunque fuori da un'aspettativa di fatto perché l'estensione della sfera di risarcibilità costituisce un valore misurabile sia dal punto di vista economico che giuridico rigidamente ancorato all'esigenza della prova sia pure agevolato da un criterio di probabilità, secondo il quale la mancata concretizzazione in degli antecedenti del risultato programmato sono stati impediti dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta. (Nella specie, relativa alla perdita di chance lavorative future asseritamente subite da un'infortunata in un sinistro stradale, la S.C. ha precisato che, configurandosi un danno patrimoniale futuro, come tale diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere, invece, non patrimoniale, la perdita di futuri guadagni non può essere desunta in via presuntiva dalla mera esistenza di postumi invalidanti, spettando al danneggiato l'onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l'accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni (Cass. III, n. 6488/2017).

Ne deriva che il danno risarcibile ex art. 1223 c.c. nei due momenti del danno emergente e lucro cessante concretizza la c.d. «perdita subita», con la quale l'art. 1223 c.c. individua il primo aspetti, non solo nelle diminuzioni patrimoniali o nell'esborso già materialmente intervenuti, ma in tutto il complesso nel quale l'obbligazione stessa si articola reagendo su tutti gli elementi attivi del patrimonio della parte danneggiata nella misura in cui crea dei rapporti giuridici con una ricaduta di diretta rilevanza economica, facenti capo al creditore.

Secondo il giudice di legittimità costituisce, invece, una mera aspettativa di fatto non azionabile ex art. 2043, neppure sotto il profilo della perdita di chances (Cass. III, n. 13283/2016) quella del mutuante verso il quale il mutuatario si era impegnato a preferirlo per eventuali polizze assicurative, ove il contratto di mutuo si risolva per inadempimento di quest'ultimo, considerato che le future provvigioni non costituiscono un elemento patrimoniale tutelabile “erga omnes”, neppure sotto il profilo di danno da perdita di “chances” cfr. Cass.III ,n. 12906/2020).

Danno emergente e lucro cessante

Per danno emergente ex art. 1223 c.c. può intendersi anche l'obbligo che il creditore del risarcimento si è assunto rispetto ad un esborso, che secondo il giudice di legittimità può sostanziarsi in un'ipotesi di responsabilità per ingiustificata interruzione di trattative concernenti la vendita di un immobile che costituisce già una posta passiva del suo patrimonio, ancorché il pagamento delle somme non sia ancora avvenuto (Cass. II, n. 4718 /2016), come pure il lucro cessante può essere considerato con apprezzamento equitativo da chi ha subito la violazione del diritto di utilizzazione economica di un'opera dell'ingegno, come beneficio tratto dall'attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante e parametrando quest'ultimo al profitto del danneggiante che aveva contraffatto il marchio (Cass. I, n. 4048/2016; Cass. I n. 11225/2015).

Anche l'uso di un criterio equitativo non esclude la individuazione preventiva di parametri certi cui ancorare una liquidazione plausibile (Cass. I, n. 38/2017, come già S.U., n. 9100/2015), in un caso di azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, secondo comma, l.fall. Ove si esclude che il pregiudizio derivante da una negligente tenuta delle scritture contabili, possa essere determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare.

Non basta, invece, a fondare il danno paventato come lucro cessante, come perdita di possibilità, la mera appartenenza del creditore ad una determinata categoria professionale, quando, come nel caso della gara d'appalto, manchi la prova di domande di partecipazione, o della concreta possibilità di aggiudicazione delle gare riferibili ad un determinato periodo di tempo (Cass. n. 19604 /2016).

Come pure il lucro cessante va escluso (Cass. I n. 14526 /2016) nel caso di indebito arricchimento perché l'assenza di un valido titolo contrattuale limita l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. al solo pregiudizio patrimoniale del creditore escluso il lucro cessante percepibile se il contratto fosse stato valido ed efficace.

Naturalmente il pregiudizio si atteggerà diversamente a seconda del bene cui si riferisce e le sue possibilità di realizzazione economica, così in tema di occupazione abusiva di immobile, il danno patrimoniale si diversificherà a seconda del godimento diretto o indiretto della res (Cass. III, n. 15757/2015).

In ogni caso, nell'ipotesi di ritardata restituzione del bene locato il locatore deve rigorosamente provare le circostanze concrete- indipendenti dalla sua volontà o dalla sua inerzia — che hanno vanificato il reimpiego del bene non restituito dal conduttore in mora e, pertanto, ove l'esperimento dell'azione di risarcimento abbia avuto esito positivo, il quantum sarà liquidato utilizzando il parametro del canone percepibile dal contratto non concluso a causa del mancato rilascio escluso il pregiudizio da lucro cessante per il periodo successivo al rilascio e fino alla stipulazione di un nuovo contratto ove non risulti provato il nesso causale tra l'inadempimento e l'ulteriore effetto negativo per il patrimonio del debitore (Cass. III, n. 19981/2016).

In materia di liquidazione del risarcimento del danno futuro, gli interessi di mora decorrenti dalla data del fatto illecito, ai sensi dell'art. 1219 c.c.sono calcolati sul credito risarcitorio scontato e reso attuale (Cass. VI, n. 18049 /2017).

Una peculiare forma di riparazione del danno patrimoniale è individuata da Cass. I, n. 18692/2015, nel provvedimento che accolga la richiesta di pubblicazione della sentenza che abbia accertato gli atti concorrenziali in violazione dell'obbligo di non concorrenza derivante dalla cessione di azienda.

Tutela aquiliana del credito

L'evoluzione giurisprudenziale considera ormai acquisita la nozione di risarcibilità della lesione del diritto di credito in uno con le componenti attive del patrimonio, come nel caso di presidio aquiliano del credito alimentare, ovvero la risarcibilità del danno derivante da uccisione o lesione cagionata a prossimi congiunti, ovvero di lesione della reputazione commerciale (Cass. III, n. 20120 /2009) distinguendo la decisione in un caso di denuncia infondata di truffa formulata dall'assicuratore nei confronti dell'assicurato tra il pregiudizio patrimoniale collegato alla reputazione commerciale, rispetto al vulnus impresso alla reputazione personale consistente in un danno non patrimoniale che è «in re ipsa»: «..., in quanto si realizza una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore (per quanto non patrimoniale) della persona umana alla quale il risarcimento deve essere commisurato». Di contrario avviso la giurisprudenza successiva (Cass. III, n. 21865 /2013) che ha inteso precisare che il pregiudizio patito, anche di fronte alla lesione di un diritto costituzionale, deve sempre essere effettivo e va adeguatamente provato, specie laddove la reputazione e l'onore debbano adeguarsi al sentimento etico di ciascun consociato in un determinato periodo storico (Cass. I, n. 12813/2016).

Costituisce, invece, illecito aquiliano (Cass. III, n. 3003/2012) il fornire informazioni non veridiche o scorrette a carico della società controllante di una delle due parti contraenti, considerato che in detta ipotesi tale società è estranea al vincolo contrattuale ancorché con tale comportamento anche manifestato direttamente attraverso gli organi societari abbia indotto l'affidamento del creditore della società controllata nella capacità di adempimento di quest'ultima.

Infine, con riferimento al profilo processuale (Cass. III, n. 7193/2015) nella formulazione della domanda con la quale venga chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, va tenuta distinta quella che indichi specifiche e determinate voci di danni: solo la prima, infatti, esprimendo la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, si estende anche al lucro cessante da perdita di chance lavorativa, la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova e, come tale, inammissibile, pur quando in citazione non sia presente alcun riferimento a tale tipo di danno.

Concorso di colpa

Va esclusa la condotta colposa nel caso dell'intermediatore finanziario il quale non può evocare il concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c. eccependo che costui sia rimasto inadempiente agli specifichi obblighi informativi previsti dalla legge a proposito di operazioni non conformi al suo profilo di rischio ed omettendo di seguire i suggerimenti dell'intermediario in tempo utile rispetto all'investimento perché, in un caso del genere al condotta colposa del danneggiato deve fondarsi su di una consapevole esposizione al rischio con una condotta che disattende le regole di prudenza (Cass. I n. 17333/2015).

Ne deriva che In materia di intermediazione finanziaria, risultano decisivi l'assolvimento degli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza nella negoziazione di titoli che gravano secondo le leggi speciali sull'intermediario (Cass. I n. 8619/2017). Non altrettanto può dirsi nel caso di intermediazione mobiliare, ove sia addebitabile all'investitore una condotta anomalo ovvero di avallo condotte del promotore non conformi ad un canone di diligenza (Cass. I, n. 9892 /2016).

Costituisce, invece applicazione concreta di attenuazione dell'obbligo risarcitorio nelle ipotesi di concorso del danneggiato nella causazione del danno ai sensi degli artt. 2043 e 1227 le condotte concorrenti di entrambi i proprietari rispetto alla manutenzione con rifacimento di un muro di recinzione posto tra due fondi a dislivello anche se di proprietà esclusiva di uno solo dei confinanti (Cass. III n. 17305/2015).

Come noto l'art. 1227 prevede nei commi primo e secondo due differenti ipotesi:

a) La diminuzione del risarcimento in funzione della colpa del creditore

b) l'obbligo di cooperazione del creditore nell'adempimento del debitore secondo i principi di buona fede e correttezza.

Nel primo caso secondo la giurisprudenza di legittimità »il fatto colposo del creditore che abbia contribuito al verificarsi dell'evento dannoso è, ex art. 1227, comma 1, c.c., rilevabile d'ufficio dal giudice, per cui la sua prospettazione non richiede la proposizione di un'eccezione in senso proprio, avente natura di mera difesa (ex multis, Cass. S.U., n. 13902/2013).

Nel secondo caso il concorso del fatto colposo del creditore, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c., costituisce eccezione in senso proprio in ragione di un accertamento che involge il deficit di ordinaria diligenza da parte del creditore rispetto ad uno specifico obbligo giuridico di condotta di buona fede. Ne deriva che il debitore è tenuto, con apposita istanza, proporre l'eccezione ed a fornire la prova che il creditore avrebbe potuto evitare i danni, di cui chiede il risarcimento, usando l'ordinaria diligenza (Cass. III, n. 15750/2015).

Tale è il caso della mancata trascrizione di una domanda giudiziale — proposta contro terzi ai sensi dell'art. 2932 c.c. – determinata da irregolarità di tenuta del registro da parte del Conservatore, nella misura in cui rilevi come causa sopravvenuta un omissione di controllo sul deficit ci completezza del procedimento di trascrizione. In detta ipotesi tale colposo comportamento da parte del creditore è idoneo per la sua efficienza causale a interrompere la successione delle concause ex art. 1227, comma 2, c.c. (Cass. III n. 22923 /2011).

Secondo Cass. III, n. 515/2020, ai fini della riduzione del risarcimento, allorchè per motivi religiosi la vittima di un incidente stradale rifiuti di sottoporsi ad emotrasfusioni va esclusa l’ipotesi di cooperazione colposa ma va affermata quella di  concausa naturale dell’evento, da cui consegue l’ impossibilità di ridurre ex art. 1227, comma 1, c.c., il danno risarcibile.

Danno patrimoniale e interesse negativo da responsabilità precontrattuale

Come noto, nella responsabilità precontrattuale disciplinata dall'art. 1337 c.c., e secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e 2056, il danno risarcibile è limitato al solo interesse negativo, normalmente integrato dalle spese inutilmente intraprese nel corso delle trattative confidando nella conclusione del contratto, nonché da altre occasioni contrattuali ancorché di contenuto diverso rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, rispetto a trattative giunte ad una maturazione tale da determinare un ragionevole affidamento di esito positivo (Cass. II, n. 4718/2016), con un danno stimabile in via equitativa che, come afferma il giudice di legittimità, impone l'uso di criteri logici e non arbitrari (Cass. III., n. 24625/2015).

Anche in tema di mancata assunzione da parte della P.A. (Cass. sez. lav., n. 18159/2015) ha, una volta acclarata la fondatezza della pretesa ad assumere l'incarico e l'inadempimento dell'Asl, il pregiudizio da risarcire sarà extraquiliano, ossia travalicherà l'interesse negativo di cui all'art. 1337 c.c., né il danno può essere limitato al solo interesse negativo per perdità di chances e per rimborso delle spese sostenute. A riprova dell'indirizzo sopra citato il giudice di legittimità è intervenuto sulla responsabilità nei contratti d'intermediazione finanziaria affermando che non costituisce danno da responsabilità precontrattuale e dunque il risarcimento non è limitato all'interesse negativo il pregiudizio patito dall'investitore allorché l'intermediario manchi di acquisire le necessarie informazioni sulla situazione finanziaria del cliente, il suo obiettivo di investimento, nonché la sua propensione al rischio di investimento (suitability rule) costituisce oggetto di obblighi legali facenti parte integrante del rapporto contrattuale d'intermediazione che prescindono dall'interesse negativo.

Anche la pubblica Amministrazione rimane assoggettata alla culpa in contrahendo qualora agisca nelle fasi della procedura ad evidenza pubblica ossia di formazione progressiva del consenso contrattuale (Cass. I, n. 09636/2015) in un caso di mancata approvazione da parte dell'autorità di controllo) su cui si radica la responsabilità precontrattuale della P.A. da comportamento, che prescinde evidentemente dalla legittimità del provvedimento adottato, ma riguarda il giudizio sulla correttezza della condotta della P.A. secondo il principio di buona fede di cui all'art. 1337 e per gli effetti di cui all'art. 1338 c.c. anche con riferimento alla fase di aggiudicazione che non ha valore di conclusione del contratto, ma solo di individuazione dell'offerta migliore (Cass. I, n. 10743/2015).

In proposito, il giudice di legittimità è intervenuto (Cass. III, n. 14188 /2016) precisando che l'eventuale responsabilità della P.A., in pendenza dell'approvazione ministeriale, deve qualificarsi come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c. Pertanto essa rifluirebbe nell'inquadramento di responsabilità contrattuale da «contatto sociale qualificato», da considerare come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., capace di divenire fonte non di obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., ma di buona fede, di protezione e di informazione ex artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione di cui all'art. 2946 c.c.

C'è da chiedersi poi, rispetto alla previsione del primo comma dell'art. 1227 c.c., se sia corresponsabile del danno colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, possa rispondere per non avere rimosso tempestivamente una situazione di pericolo creata da terzi. Certo è che l'art. 1227, comma 1, c.c. è norma generalista, con il che la colpa potrebbe emergere sia in presenza di un obbligo giuridico di agire che nella violazione di una regola di diligenza che rilevi come colpa generica (Cass. III, n. 6481/2017) a proposito dell'obbligo del conducente circa la messa in circolazione di un veicolo in condizioni di sicurezza (nella specie, un ciclomotore con a bordo un passeggero, in violazione dell'art. 170, comma 2, cod. strada).

È da credere quando si tratti di accertare ex art. 1227, comma primo, c.c. il concorso di colpa della vittima dell'illecito è sufficiente la colpa generica. Questa è la soluzione offerta dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 24406/2011), con la conseguenza che nel caso di specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva escluso che un'impresa edile, danneggiata dall'esondazione d'un canale alla cui manutenzione la P.A. non aveva provveduto, potesse ritenersi corresponsabile del danno, per non avere provveduto ad innalzare l'argine del canale, nonostante la prossimità ad esso del cantiere, trattandosi di un intervento, nella specie, inesigibile nei suoi confronti.

Da un punto di vista processuale la condotta colposa di cui al primo comma, cc, è rilevabile d'ufficio e pertanto non va spiegata un'eccezione in senso proprio, ma una mera difesa (Cass. VI, n. 20619/2014).

Per contro il comma secondo dell'art. 1227 c.c. sarebbe un caso di eccezione in senso stretto, avente per oggetto un aggravamento delle conseguenze dannose, riferibile alla condotta del creditore Il giudice di legittimità ha inteso ricondurre l'ipotesi al principio di buona fede e di solidarietà nell'esecuzione dell'obbligazione come applicazione del dovere che incombe sul creditore di non aggravare la situazione del debitore.

Si tratta, in definitiva, di due distinte fattispecie rispetto al concorso di colpa strictu sensu con riguardo a quel fatto colposo del creditore che abbia- secondo il principio di causalità previsto dall'ordinamento penale (artt. 40-41 c.p.)- influito sulle conseguenze pregiudizievoli che ne sono scaturite secondo il principio di autoresponsabilità.

In proposito va ribadita la necessità dell’elemento soggettivo, quale autonomo requisito della fattispecie di responsabilità extracontrattuale. Secondo Cass.VI-III, n. 12420/2020, ai fini della responsabilità extracontrattuale non è, infatti, sufficiente dedurre l’inadempimento delle obbligazioni incombenti sul vettore (configurabile in mancanza di prova del caso fortuito, secondo lo schema dell’art. 1693 c.c.), ma è necessario l’accertamento positivo di una condotta caratterizzata da dolo o colpa, alla stregua dell’art. 2043 c.c.

Secondo Cass. III, n. 512/2020,  sussiste la colpa della pubblica amministrazione nel caso di obblighi di intervento dei comuni a tutela della pubblica incolumità, in una fattispecie di alluvione per i residenti a maggiore rischio dovendosi escludere che l’attività di monitoraggio del livello del fiume esondato o l’attivazione dei volontari e delle squadre di soccorso, possa escluderla.

Compensatio lucri cum damno

La compensatio lucri cum damno rientra nella nozione di danno-conseguenza nel senso che se è vero che il pregiudizio determinato da un particolare fatto dannoso, va ristorato — ponendo il soggetto leso nella situazione quo ante — è anche vero che lo stesso fatto, oltre alle conseguenze negative, potrebbe produrre anche un incremento patrimoniale a favore del danneggiato con il che costui non può trovarsi in una situazione migliore di quella precedente all'evento dannoso.

Come noto, il principio della compensatio lucri cum damno, non ha un punto preciso di riferimento normativo, certo è che la giurisprudenza ha enucleato due elementi indefettibili che consentono di individuarlo: a) lo stesso evento; b) lo stesso rapporto di causa – effetto rispetto al pregiudizio non essendo sufficiente una mera occasionalità tra evento e danno.

La disciplina codicistica e le leggi speciali la menzionano, spesso come fattore di riequilibrio della regola di disvalore verso gli arricchimenti imposti come accade per esempio con l'ipotesi dell'art. 1592, secondo comma cc in tema d'indennità per miglioramenti realizzati dal conduttore rispetto al deterioramento sofferto dalla cosa locata, purché non imputabili a colpa grave del locatario, ovvero nel caso di espropriazione per pubblica utilità quando la realizzazione dell'opera pubblica crei un vantaggio speciale ed immediato al cespite da detrarre dall'indennità di espropriazione.

All'esito di una lunga elaborazione giurisprudenziale si è fatta strada l'idea della compatibilità di poste risarcitorie di natura giuridica diversa, ossia indennità basate sul principio solidaristico da una parte e del risarcimento del danno basato sul principio del neminem laedere dall'altro, con conseguente ripristino della situazione patrimoniale e non patrimoniale del creditore antecedente all‘evento pregiudizievole.

Il principio, così rimeditato ha trovato una sua verifica in tema di danni da emotrasfusioni ove la legge speciale (legge n. 210/1992 e succ. mod, vedi infra) riconosceva, in certi limiti, l'indennizzo per i danni conseguenti ad essa e alle vaccinazioni obbligatorie Su sollecitazione della giurisprudenza di merito (App. Firenze, 15 aprile 2015, n. 695) si è arrivati alla regola della non cumulabilità ragionando sul divieto di locupletazione da parte di chi poteva agire per ottenere la doppia tutela.

Il Giudice di legittimità ha finito per ammettere la compensatio lucri cum damno sempreché il quantum dell'indennità sia stato effettivamente corrisposto o, almeno, determinato e pertanto nel caso di risarcimento del danno causato da sangue infetto il ristoro di cui alla legge n. 210 del 1992 non può essere dedotto, ove non ancora liquidato, dal quantum del risarcimento (Cass. VI, n. 14932/2013 e più recentemente Cass. VI, n. 9434/2016).

Secondo il Giudice di legittimità, dal punto di vista processuale, l'azione di compensatio lucri cum damno costituisce un'eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio e proponibile per la prima volta anche in appello (Cass. III, n. 991/2014) purché desumibile dagli atti di causa (Cass. I, n. 5249/2016).

Il criterio della compensazione, allora, può rispondere sia ad un criterio equitativo ovvero essere considerato come un indebito arricchimento, ossia applicazione diretta del principio generalissimo che esclude che nessuno possa ricevere un vantaggio senza una giusta causa in danno di altri, ex artt. 2041 e 2042 c.c.

Il danno non patrimoniale

Come noto, il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'articolo 2059 del codice civile secondo cui il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

Si tratta, allora, di delineare dei parametri d'individuazione del pregiudizio non patrimoniale secondo un modello unitario all'interno del quale le singole categorie di danno rivestano solo efficacia descrittiva. Ne deriva che il danno non patrimoniale può rappresentarsi in una pluralità di aspetti, al pari di quello patrimoniale rappresentato nelle note categorie di danno emergente e lucro cessante.

Il danno non patrimoniale presenta, dunque, una serie di articolazioni di natura descrittiva che lo individualizzano quali il danno morale, il danno biologico, il danno da perdita del rapporto parentale ovvero il danno esistenziale.

A questa affermazione si giunge attraverso le note sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (n. 26972/2008, n. 26973/2008, n. 26974/2008 e n. 26975/2008, dette anche di San Martino) che hanno ricostruito la fonte dell'obbligo risarcitorio del danno non patrimoniale secondo il disegno codicistico della risarcibilità nei soli casi previsti dalla legge.

Ne consegue che fonte del pregiudizio può essere, sì, una condotta di rilievo penale, ma anche ogni fatto che, pur non previsto in modo espresso incida, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. e 2043 c.c. su un diritto della persona di livello costituzionale, anche se la condotta o il fatto non abbia rilievo penale (Cass. III, n. 22190/2009).

Pertanto, oltre al danno patrimoniale che pure consegue alla responsabilità extracontrattuale ex artt. 2043 e 2056 c.c., l'art. 2059 c.c. risulta riferito ad un danno tipico, ossia risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, ivi comprese le norme costituzionali.

Ipotesi tipica è quella di cui all'art. 185 del codice penale, secondo il quale ogni reato obbliga non solo alle restituzioni a norma delle leggi civili, ma anche al risarcimento del danno, sia esso di natura patrimoniale sia non patrimoniale. Infatti, il primo è quello riferibile alla diminuzione del patrimonio nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante il secondo, se attinge a valori costituzionali, come la vita, la salute, l'ambiente, va inteso come danno biologico, morale soggettivo o lesione di un interesse costituzionalmente protetto.

Questa non è, ovviamente, la sola classificazione che dottrina e giurisprudenza hanno proposto nel senso che oltre al danno biologico e al danno morale è stato enucleato anche il danno esistenziale, inteso come sconvolgimento delle proprie regole di vita e del sistema relazionale proprio di ciascun individuo. Tale pregiudizio, nonostante il tentativo di ridefinizione delle sentenze di San Martino, attende ancora una sua collocazione sistematica.

Danno esistenziale

Le sentenze gemelle del 2008 affermano, in sostanza, che il danno esistenziale non è che un aspetto della plurioffensività dell'illecito e che la sua la sua risarcibilità è subordinata al disimpegno di in un onere –rigoroso- della prova.

La difficoltà emerge in tema di prova la quale va finalizzata a fare emergere- con modalità precise e dettagliate — quello sconvolgimento radicale nella vita dei familiari superstiti, tale da incidere gravemente sulle abitudini di vita, radicalmente mutate in pejus, come avviene nel caso di morte di un familiare.

Gli arresti giurisprudenziali successivi al 2008 (cfr. Cass. III, n. 19402/2013) non negano l'astratta configurabilità di questa voce di specific damage, rispetto al precedente ridimensionamento che l'aveva declassato a mera sotto-voce del danno non patrimoniale.

Si tratta, insomma, di un nuovo — ma prevedibile- capitolo della tormentata elaborazione e concettualizzazione del danno esistenziale come voce di difficile omologazione nei parametri più consueti che lo vorrebbero assimilato al danno biologico ricomprendente, quale pregiudizio del bene –salute, inteso nella massima estensione, anche il danno alla vita di relazione intesa come diminuita capacità dell'individuo a reintegrarsi nel tessuto sociale e a condurre, dopo il danno-lutto, una vita normale.

È a tutti nota la complessa valorizzazione in termini giuridici della sofferenza da perdita relazionale e dell'espressione più intensa del danno stesso costituita dal danno parentale e come questi pregiudizi si siano espansi attraverso la categoria giuridica del danno esistenziale, attraverso la elaborazione della giurisprudenza di merito nell'ambito degli illeciti endofamiliari (cfr. Trib. Palermo III, 3 giugno 2016, n. 2999).

La Corte di Cassazione aveva, infatti fin dal 2003 polarizzato due macrocategorie di danno: quello patrimoniale e quello non patrimoniale riconducendo poi in questa seconda area le c.d. sofferenze relazionali intese come espressione del c.d. danno morale soggettivo.

Si trattava di un'apertura forte di riconoscimento del danno esistenziale inteso come impedimento della vittima dell'illecito a svolgere tutte quelle attività impedite dalla compromissione dell'integrità psicofisica.

In conseguenza di ciò, le citate sentenze del 2003 avevano avuto il grande merito di riconoscere le affinità tra danno biologico e danno esistenziale ancorando entrambi i pregiudizi alla previsione generale dell'art. 2059 c.c. ridisegnando, nel contempo, la grande area del danno non patrimoniale nelle tre sotto-categorie di danno biologico/esistenziale e morale (meglio noto come sofferenza transitoria).

Insomma, il danno esistenziale si era configurato per questo arresto giurisprudenziale come qualcosa di ulteriore e diverso rispetto alla lesione dell'interesse protetto dalla categoria tradizionale del danno non patrimoniale.

I provvedimenti citati si erano impegnate in una lettura attuativa dei valori costituzionali, nel tentativo di superare l'impostazione eccessivamente materialistica ed ancorata al concetto di malattia sia pure in senso psicologico, omologando anche la sofferenza relazionale all'antinomia benessere – sofferenza psichica ossia al danno biologico.

Si era così facilitata la prova del danno esistenziale semplicemente collocandolo nella disciplina del 2059 c.c. sul rilievo che anche il danno biologico può apprezzarsi come danno esistenziale nel momento in cui la sofferenza psichica impedisce al danneggiato lo svolgimento di quelle attività che il disagio psicologico, al pari di quello della malattia fisica, gli impediscono di disimpegnare a causa del dolore e della sofferenza esistenziale.

Con Cass. S.U., n. 6572/2006 (in tema di demansionamento professionale) sembrava, alla fine dell'elaborazione giurisprudenziale più evolutiva, essersi consolidata la definizione del danno esistenziale come illecito che incide sulle potenzialità non reddituali del danneggiato privandolo di quelle occasioni che consentono, secondo un criterio tendenziale di normalità, lo svolgimento pieno della sua personalità ed il pregiudizio inteso come modificazione peggiorativa delle abitudini di vita.

Si afferma, insomma, la natura del danno esistenziale come danno- conseguenza e non danno-evento a dire che il pregiudizio consegue non dalla lesione pura e semplice dell'interesse protetto (danno-evento) ma dalle conseguenze non patrimoniali (ma il meccanismo è il medesimo per i danni patrimoniali) che ne scaturiscono.

 

Sorge certo, nel concreto, un problema di prova.

Infatti, sarà il danneggiato a dovere provare- rigorosamente — le attività cui si dedicava prima del danno-evento — e quelle che, dopo l'evento pregiudizievole, non potrà più svolgere.

La migliore dottrina aveva sottolineato che solo in tal modo si poteva garantire una tendenziale integralità del risarcimento e la personalizzazione del pregiudizio già conosciuta dal diritto anglosassone come specificazione dei general damages (conseguenze ordinarie della lesione) specific damages (caratterizzate dalla personalità e dalle abitudini di vita del danneggiato) assicurando così il risarcimento del c.d. «sconvolgimento esistenziale».

Il problema della prova appariva, in questa fase, agevolato dal carattere accentuato del danno esistenziale come danno-conseguenza e non come danno evento.

Ne conseguiva una forte personalizzazione del danno da sconvolgimento esistenziale e, attraverso la depurazione del tema probatorio, circa quali e quante abitudini di vita risultavano pregiudicate dal fatto illecito, si preveniva il pericolo di duplicazioni di voci di danno.

L'ulteriore evoluzione di questa giurisprudenza aveva trovato, però, un nuovo arresto nei costi sociali di una proliferazione di voci di danni vissuta – forse per la spinta di risarcimenti di danni pseudo esistenziali e/o bagatellari (la sposa che subisce il danno esistenziale di un'acconciatura sbagliata) o border line (la morte del piccolo cane d'affezione sbranato da un mastino sfuggito al controllo del padrone etc.) come ingiustificata laddove spinta fino alla duplicazione delle voci di risarcimento e come, questa preoccupazione, abbia condotto a quell'arresto giurisprudenziale che la sentenza in commento ripercorre e, in definitiva, conferma.

Infatti, con le decisioni a Sezioni Unite dell'11 novembre 2008, n. 26972 ed ancora, con quelle gemelle n. 26973, 74 e 75 la Corte di Cassazione era tornata sul danno esistenziale con una decisione tacciata, forse a torto, di intenti restauratori,quanto meno per avere negato autonomia al danno morale inteso come sofferenza transitoria e danno esistenziale inteso come perduta attitudine allo svolgimento della propria vita espressiva di una pienezza di possibilità che il soggetto si era dato nel suo progetto di vita: dall'impegno sportivo a quello sociale più generico, dalle relazioni sentimentali alla pienezza dell'attività sessuale e via discorrendo.

Conosciamo l'epilogo: secondo le sentenze gemelle del 2008 il pregiudizio che attinge alla vita di relazione è un tutt'uno e si chiama danno non patrimoniale con la conseguenza che le c.d. sofferenze morali sono risarcibili solo se attengano ai diritti di rilievi costituzionali, perciò, d definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Infine, le S.U. con le storiche sentenze del 2008 hanno chiarito che, in assenza di reato e al di fuori dei casi determinati dalla legge, «pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona». S'incastona nella rielaborazione del danno non patrimoniale questa ipotesi, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) con gli oneri probatori che ne scaturiscono.

Così il congiunto della persona rimasta vittima della condotta illecita altrui può risentire di un danno non patrimoniale capace di atteggiarsi sia come sofferenza soggettiva sia come deterioramento delle abitudini di vita, sulla base di prove da allegare secondo fatti di comune esperienza, e che risarcito in misura integrale, ove il pregiudizio sia serio e la lesione grave (Cass. III, n. 25843/2020).

I valori costituzionali ricondotti dalle S.U. nella ridefinizione del danno non patrimoniale sono quelli della centralità della persona e riecheggiano l'art. 1 della Carta di Nizza e il Trattato di Lisbona ratificato dall'Italia con legge 190/2008 e che colloca la Dignità umana come massima espressione della sua integrità morale e biologica.

Insomma, per citare un'autorevole dottrina personalizzare il danno marcandone la natura di danno-conseguenza significa, in definitiva, valorizzare l'area di tutte quelle ripercussioni vitali proprie di ciascun individuo, le quali, sia pure ancorate al criterio guida dei valori costituzionalmente protetti, costituiscono risposta giurisprudenziale ragionevole alla sofferenza esistenziale e a quelle pronunce negazioniste di un danno difficile da provare con criteri scientifici, ma, pur sempre, espressione di un «diritto vivente», nel rispetto dell'indispensabile rigorosità della prova.

La giurisprudenza si è comunque attestata su posizioni tendenti ad equilibrare le spinte contrapposte tra pericolo di duplicazioni del danno ed integralità del risarcimento secondo le fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie, incombendo sul lavoratore la prova che un particolare e specifico aspetto della sua personalità ed integrità morale, purchè nel rispetto degli oneri probatori (Cass. sez. lav., n. 583/2016).

La giurisprudenza di legittimità sottolinea, comunque, la difficoltà di catalogazione del danno esistenziale come categoria autonoma pura (Cass. III, n. 336/2016) davanti al limite invalicabile del livello costituzionale dei pregiudizi da ristorare, confermando la statuizione del giudice di merito che escludeva la liquidazione autonoma del danno esistenziale da perdita parentale perché già considerato nella voce del danno non patrimoniale comprensivo sia della sofferenza soggettiva sia dello sconvolgimento da perdita del congiunto, nello stesso senso anche Cass. III, n. 30997/2018.

Danno biologico

Nel codice delle assicurazioni, (articolo 138 comma 2, lett. a; art. 139 comma 2, d.lgs. n. 209/2005) di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005 n. 209 si è offerta la seguente definizione del danno biologico:

«Agli effetti della tabella per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». Come appare alla prima lettura ci si trova al cospetto di un danno alla salute, senza un riferimento specifico al danno morale da intendersi invece come «il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato» (art. 1, lett. b, d.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181, Danni alle vittime del terrorismo).

Secondo la S.C. senza che ciò costituisca un automatismo risarcitorio considerato che il danno morale costituisce voce del danno reddituale (Cass. III, n. 7766/2016; Cass. III, n. 11851/2015) nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, come tali, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni cd. micro permanenti di cui all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, va risarcito il danno morale come momento del generale pregiudizio non patrimoniale, in quanto conseguente alla violazione di un interesse di rilievo costituzionale che va tutelato ed è da tenere distinto dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato.

La coesistenza dei due elementi psichici e fisici non esaurisce, ovviamente, la categoria del danno morale. Infatti, l'art. 5 del d.P.R. n. 37 del 3 marzo 2009, (danni da uranio impoverito per i militari in missione all'estero) nonché l'art. 1 del d.P.R. n. 181/2009 (regolamento sui criteri medico legali per l'accertamento ed individuazione del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo) consentono di riconoscere autonomia al danno morale rispetto a quello biologico. Infatti, con il d.P.R. n. 37/2009 citato è lo stesso legislatore a diversificare il danno biologico da quello morale disancorandolo dalle angustie definitorie di cui agli artt. 138-139 del codice delle assicurazioni appena citate. È vero che quello appena citato è un provvedimento tipico destinato alle cause di servizio dei militari all'estero esso, tuttavia, costituisce un forte indizio della sua autonomia rispetto al danno biologico onnicomprensivo calcolato in percentuale secondo l'importanza in concreto della sofferenza e dello sconvolgimento psichico individuale e del pregiudizio inferto alla dignità della persona.

Nel caso dell'art. 1 del d.P.R. n. 181/2009 il danno morale acquista autonomia rispetto a quello biologico attraverso i citati criteri guida che prevedono:

a) per danno biologico, si intende la lesione di carattere permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito;

b) per danno morale, si intende il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato;

Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, l'ammontare del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.

Insomma, il legislatore lascia intendere che il danno biologico è ontologicamente diverso da quello morale, nel momento in cui questo ultimo supera gli steccati di cui agli artt. 138-139 del Codice delle assicurazioni (d.lgs. n. 209/2005). Tale distinzione fondamentale per una riparazione integrale del danno alla persona sembra rimanere ferma anche nel tortuoso iter legislativo che dal 2015 interessa nel ddl concorrenza (ora approvato con d.lgs. 4 agosto 2017, n. 124) che va a modificare il testo dell'art. 138 del codice delle assicurazioni, demandando ad un futuro d.P.R. da adottare entro 120 giorni la definizione di una tabella unica valida su tutto il territorio nazionale per il risarcimento delle lesioni all'integrità psico-fisica comprese tra 10 e 100 punti.

Allo stato è da credere, allora, che il danno biologico dovrà essere valutato caso per caso con l'ausilio delle tabelle elaborate dai vari uffici giudiziari le quali consentono di personalizzare al meglio il pregiudizio ai fini della liquidazione del risarcimento, utilizzando come dato di partenza quelle contenute nel codice delle assicurazioni nei casi previsti con aumenti in percentuale ove la menomazione incida apprezzabilmente sulle dinamiche relazionali del danneggiato ex art. 138 comma 3 codice delle assicurazioni. Infatti, qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, l'ammontare del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato

Sul punto la giurisprudenza ha chiarito nell'accertamento e quantificazione del danno morale l'utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima della sentenza delle S.U. n. 26972 del 2008 (n.d.r. sulle quali vedi sopra) non comporta che, provato il primo, il secondo non necessiti di accertamento, perché altrimenti si incorrerebbe nella duplicazione del risarcimento; essendo doveroso prima accertare, con metodo presuntivo, il pregiudizio morale subito, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo, allegando i fatti dai quali emerge la sofferenza morale di chi ne chiede il ristoro, e successivamente, se provato, può ricorrersi al suddetto metodo percentuale come parametro equitativo (Cass. III, n. 3260/2016). 

Nel caso di liquidazione del danno biologico di un soggetto deceduto "ante tempus" per causa diversa dal fatto dannoso, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva liquidato il risarcimento avendo riguardo al valore monetario tabellare giornaliero previsto per l'inabilità temporanea assoluta moltiplicato per il numero di giorni della effettiva esistenza in vita del danneggiato. In tal caso la liquidazione del danno alla salute secondo equità in base al criterio cd. "tabellare", è stato disatteso nel caso del danno biologico pur utilizzando le tabelle come base di calcolo, ma fornendo congrua rappresentazione delle modifiche apportate e rese necessarie dalla peculiarità della situazione esaminata (Cass. III, n. 24468/2020).

Il danno morale

Verificata l'autonomia del danno morale rispetto al danno biologico a seguire l'impostazione delle sentenze di S. Martino esso costituirebbe niente altro che una componente del danno non patrimoniale. In queste decisioni, infatti, la S.C. riconosce la risarcibilità del danno morale perché rientrante in uno dei casi previsti espressamente dalla legge ex art. 2059 c.c.

il danno non patrimoniale s'identifica, allora, in un concetto unitario pensabile in una suddivisione non categoriale ma descrittiva e verrebbe ad identificarsi in quel perturbamento dell'anima, anche transeunte che s'inserisce nel concetto più ampio di danno non patrimoniale.

Tale sofferenza, quando abbia ricadute sull'equilibrio psichico, rientra nell'alveo del danno biologico il quale indica qualsiasi alterazione del benessere psichico o fisico dell'individuo e che può tradursi in una duplicazione di poste risarcitorie se riconosciuto unitamente al danno morale con il che esso viene liquidato in percentuale rispetto al biologico. Per tale ragione rispetto al danno non patrimoniale quello morale rappresenta solo un possibile pregiudizio e non una categoria generale collegata ad un reato ovvero alla lesione d'interessi e valori costituzionale, ovvero altre ipotesi previste direttamente dalla legge.

Tale ricostruzione necessita, pertanto, di una valutazione onnicomprensiva della liquidazione, esaustiva di ogni profilo del danno con pari considerazione del danno morale in concreto patito e si riverbera nella difficoltà della prova del turbamento e del dolore psichico.

Come detto le sentenze c.d. gemelle hanno cercato di ricondurre ad unità il danno non patrimoniale in tutta la sua espressività descrittiva nel rispetto dei valori fondanti dell'individuo, ossia dell'uomo, attraverso il diritto vivente, espungendo dalla ricostruzione i danni c.d. bagatellari, come il danno da vacanza rovinata, perché non fondate su interessi di rango costituzionale, anche nel caso di danno morale derivante da reato (Cass. III, n. 9735/2012), ossia una grave che travalichi la tollerabilità usuale comunque dovuta rispetto al dovere di solidarietà sancito dall'art. 2 Cost., e che escluda si tratti di fastidi facilmente tollerabili e, soprattutto non immaginari..»

Tra le tante ipotesi scrutinate dal giudice di legittimità può ricordarsi quella di esclusione (Cass. III, n. 21725/2012) della azionabilità come danno non patrimoniale del mancato godimento del "tempo libero", definito, dalla S.C. come diritto immaginario, giacché la definizione del ritmo lavoro /tempo libero dipende dal sindacato individuale di gestione della propria esistenza e pertanto va disattesa la domanda dell'avvocato che lamenti tale pregiudizio da imputare- in tesi- al cattivo funzionamento degli uffici giudiziari.

Naturalmente, rimangono fermi i pilastri sistematici del danno non patrimoniale, ossia la prova degli elementi strutturali del fatto illecito tra cui quello relativi al nesso di causa tra la condotta e la lesione dell'interesse protetto che rimandano a quelli generali della responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale.

La riconduzione ad unità operata dalle Sezioni Unite con le c.d. «sentenze di San Martino» (Cass. S.U. 26972/3/4/5/2008) hanno risolto, pertanto, in un approccio unitario gli interrogativi più cruciali sul danno morale, sul danno esistenziale e sulla necessità di una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, da considerare non in re ipsa, ma quale danno conseguenza, rimandando all'obbligo dell'integrale risarcimento del pregiudizio del soggetto leso.

Il danno morale potrebbe, allora, definirsi come il disagio, o meglio, la sofferenza individuale scaturente dal fatto illecito come sua conseguenza diretta e che può manifestarsi come effetto transitorio o permanente.

Così ricostruito unitariamente il danno morale ricomprende già in sé il danno esistenziale con il quale s'intende qualsiasi compromissione di tutte quelle dinamiche umane che formano per ciascun individuo il proprio sistema relazionale di riferimento, da quello sociale a quello familiare fino al suo rapporto- diritto con l'ambiente salubre.

Fino all'intervento della Corte di Cassazione nel 2008 si era ritenuto che il danno esistenziale costituisse pregiudizio distinto dal danno biologico vero e proprio ma anche autonomo rispetto al danno morale perché non corrispondente ad una sofferenza soggettiva se non nel senso dello sconvolgimento del proprio sistema di relazione che rappresenterebbe qualcosa di diverso, o meglio, interiore rispetto alla sofferenza psichica, tale da incidere sulla vita del soggetto che la vedrà drasticamente mutata.

I costi sociali di un eccessivo ampliamento del danno non patrimoniale ha spinto il giudice di legittimità ad un ripensamento nella definizione della categoria di danno non patrimoniale tale da utilizzare quello esistenziale come ipotesi descrittiva di valorizzazione di certi aspetti del danno nella declinazione degli articoli 2043 e 2059, fermo restano la unicità del danno non patrimoniale, tanto più personalizzato ed integralmente risarcibile rispetto alla capacità d'incidere nella vita della persona.

Il danno morale e i casi previsti dalla legge

Ciò premesso, la condizione primaria ai fini del risarcimento di questo è che il danno non patrimoniale come inteso dall'art. 2059 c.c. sia risarcibile secondo la legge, come indicato dall'art. 185 c.p.

Altre ipotesi esemplificative sono:

-, mancato rispetto del termine della ragionevole durata del processo (art. 2 legge n. 89 del 2001 e succ. modifiche);

- le condotte discriminatorie (articolo 44 comma 7 d.lgs. 286 1998);

- illecita raccolta di dati personali (art. 29 comma 9 l. n. 675 1996);

- responsabilità dei magistrati rispetto alla privazione della libertà personale(art. 2 della legge n. 117/1998 e successive modifiche).

La conferma di un rilievo autonomo del danno non patrimoniale può essere, quindi, disancorata da quello penale della condotta illecita. In proposito il giudice di legittimità in un caso di accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico protetto che integra, tra l'altro, un atto di concorrenza sleale (Cass. I, n. 13085/2015) ha affermato che il pregiudizio non patrimoniale risarcibile a mente degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., non richiede necessariamente che la condotta illecita costituisca un reato, né, a maggior ragione, che sia stata pronunciata condanna penale passata in giudicato. In questo modo il giudice civile può liberamente accertare il fatto, poiché è sufficiente che esso sia astrattamente previsto come reato. In questo caso la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza degli elementi costitutivi della condotta illecita.

Ne consegue che (Cass. III, n. 25447/2015), ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 (nell'ambito di altri giudizi civili) c.p.p., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p. Nel caso scrutinato, la corte di merito, infatti, aveva affermato l'impossibilità di ricostruire i fatti.

È comunque possibile per il giudice civile accertare incidenter tantum l'esistenza di un reato ai fini della sussistenza del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (Cass. I, n. 7110/2017) nel rispetto degli elementi di tipicità della fattispecie penale.

Come clausola generale prevista dal combinato disposto degli artt. 2043 e 2059 cc occorrerà verificare in primis l'esistenza del fatto illecito (azione od omissione), la sua riferibilità all'autore, la sua imputabilità,ossia se il soggetto era capace d'intendere e di volere al momento del fatto, il carattere colposo o doloso della condotta, il rapporto di causalità diretta tra condotta e pregiudizio lamentato, l'ingiustizia del danno ossia è conseguenza di un reato, ovvero il danno non patrimoniale è previsto direttamente dalla legge speciale, ovvero risulta violato un diritto presidiato a livello costituzionale

Ne deriva che nel caso di risarcimento scaturente da un reato saranno dovuti tutti i danni non patrimoniali patiti dalla parte offesa stante la specifica norma di legge che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale, nel secondo caso saranno la risarcibilità discenderà direttamente dalla lesione di un diritto o interesse tutelato da norme di rango costituzionale.

Secondo il giudice di legittimità nei reati di danno Cass. III, n.8477/2020, la decisione di condanna generica al risarcimento emessa dal giudice penale contiene implicitamente l’accertamento del danno evento e del nesso di causalità materiale tra questo e il fatto-reato. Deve perciò escludersi che lo stesso meccanismo operi rispetto al danno conseguenza, occorrendo, allo scopo, un distinto esame, sul nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e il conseguente pregiudizio.

Il principio di onnicomprensività del risarcimento

Come già chiarito, la categoria generale del danno non patrimoniale – che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona di tipo areddituale – ha una sua natura complessa, ma unitaria rispetto alle evidenze fenomeniche del pregiudizio.

Si tratta di un punto d'arrivo rispetto ad una complessa elaborazione giurisprudenziale dell'art. 2059 c.c. tenuto conto che la disposizione civilistica citata aveva lo scopo di dare continuità concettuale all'art. 185 c.p., limitando la risarcibilità della lesione della sfera morale della persona ai soli casi previsti dalla legge.

Prima delle note sentenze gemelle del 2008 il danno morale è sempre stato identificato come sofferenza psichica legata al turbamento momentaneo conseguente al fatto illecito.

Il tentativo di ricondurre ad unità il fenomeno multiforme anche rispetto ai nomina del danno morale in vista della tendenziale integralità del risarcimento risarcitorie ammette comunque la plurioffensività di una condotta unica con il solo limite di forme di duplicazione delle poste risarcitorie, ancorché siano attinti beni diversi) ossia tanti danni quanti sono i beni pregiudicati dall'illecito. Rileva, al riguardo – e con riferimento ad una fattispecie di danni da morte – la giurisprudenza di legitimità che ha affermato come in materia di responsabilità civile, il principio della onnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto (Cass. III, n.9320/2015).

Il pregiudizio non patrimoniale in questione prescinde, comunque, dalla convivenza. Secondo il giudice di legittimità (Cass. III, n. 21230/2016) in un caso di morte violenta del nonno, la convivenza costituisce indice dell'importanza del legame affettivo ma non esaurisce il valore affettivo e significante del rapporto non certo riducibile al concetto di famiglia nucleare.

Il criterio di onnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale emerge nella giurisprudenza di legittimità anche con riferimento alla sofferenza-pregiudizio conseguente alla violazione del principio di durata ragionevole del processo (art. 6 Cedu) e del pregiudizio che ne è esitato il quale va sempre considerato unitariamente perché unico è il patema d'animo sofferto anche in caso di pluralità di domande formulate nei confronti della stessa parte (Cass. VI, n. 09418/2015). A corredo di tale affermazione può dirsi che il danno biologico, derivante da un'eccessiva durata del processo non rileva come pregiudizio autonomo rimanendo compreso nel complessivo turbamento legato all'incertezza sulla conclusione della lite e sempre che sussista la prova sul nesso di causalità tra ritardo e danno non patrimoniale (Cass. VI n. 26969/2016). Lo stesso principio della onnicomprensività informa il danno non patrimoniale conseguente alla ritardata corresponsione dell'indennizzo da contagio da vaccinazioni ed emotrasfusioni, ex art. 1, della legge n. 210 del 1992, in questo caso, infatti in tale caso va escluso la configurabilità del danno morale dal momento che il valore inerente alla persona risulta già tutelato mediante l'erogazione dello stesso indennizzo e relativi accessori (Cass. sez. lav., n. 07912/2015).

Il danno da perdita della vita

All'indomani delle sentenze di San Martino del 2008 si era, riproposto prepotente il carattere composito del danno non patrimoniale in rapporto all'esigenza della tendenziale integralità del risarcimento (Cass. III, n. 1361/2014) che attinge interessi areddituali per definizione ossia coinvolgendo con finalità descrittive una serie di pregiudizi che vanno dal danno morale, rappresentato dalla sofferenza dell'animo a quella psichica fino al vulnus della dignità e integrità morale. A questi pregiudizi va aggiunto, come elemento di complessità il danno biologico, e quello esistenziale.

Tale è il caso del danno da perdita della vita e la sua risarcibilità considerato come valore supremo ultroneo rispetto al bene della salute e che va considerato sia come danno biologico terminale che come pregiudizio catastrofale valutabile autonomamente in vista del risarcimento integrale, secondo parametri ragionevoli per la quantificazione e senza automatismo (vedi anche Cass. sez. lav., n. 26590/2014).

Questa impostazione risulta in parte mitigato allorché con altro arresto giurisprudenziale (Cass. III, n. 13537/2014) si è affermato che l'evento catastrofale estremo di perdita della vita, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere l'imminenza della propria fine con la conseguenza che, ovi manche tale consapevolezza, il danno in questione non è concepibile, anche se esso sia conseguenza delle lesioni patite.

Trasmissibilità del diritto

Nel caso di danno da perdita della vita (Cass. III, n. 5684 /2016; Cass. S.U., n. 15350/2015) il giudice di legittimità ha escluso nel caso di decesso della vittima immediatamente dopo il sinistro o, comunque, dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali l'esistenza di un diritto risarcitorio iure hereditatis.

Secondo il S.C. in tema di danno non patrimoniale, ove conseguenza dell'illecito sia la morte del danneggiato stesso, la perdita della vita costituisce un bene giuridico autonomo rispetto a quello della salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove «il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo».

La liquidazione del danno in via equitativa

Come sopra accennato la possibilità di una liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale costituisce principio pacifico in giurisprudenza. Infatti, quando la liquidazione non possa fare riferimento a criteri di certezza il giudice può con prudente apprezzamento provvedere alla sua liquidazione purché la decisione sia sostenuta da una motivazione congrua dal punto di vista logico. Offrono presidio in tal caso quei parametri di orientamento di apprezzabile omogeneità documentati dalle tabelle in uso negli uffici giudiziari che si riferiscono a situazioni analoghe di esiti dannosi.

Nel segno dell'adattabilità del caso concreto in condizioni di omogeneità e di uguaglianza cruciale rimane il presidio offerto delle tabelle milanesi (Cass., n. 12408/2011) dove sono state ritenute viziate da nullità, per violazione di legge, quelle decisioni che non hanno tenuto conto di quei parametri rispetto al danno non patrimoniale da lesione del bene salute e da perdita o grave lesione del rapporto parentale.

La esigenza di garantire parità di trattamento attraverso l'uso delle tabelle non esclude che, in determinate emergenze del caso concreto (Cass. III, n. 3505/2016) la personalizzazione del danno imponga il superamento del parametro tabellare minimo o massimo, ovvero sconsiglino, nei caso di specie l'utilizzo di dette tabelle, dando comunque ragione della scelta compiuta anche negli aumenti massimi in percentuale previsti (Cass. III, n. 12717/2015, in un caso danno da perdita parentale di un feto nato morto, ove la relazione si apprezzi dal punto di vista solo potenziale)

È evidente, comunque, che la valutazione equitativa del danno morale agevola l'adempimento degli oneri probatori del creditore, senza esimere il giudice dall'obbligo di una decisione scevra di errori logici (Cass. I, n. 16222/2015).

Il criterio equitativo trae il suo presidio positivo dall'art. 115, comma 2, c.p.c. (Cass. sez. lav., n. 00777/2015) e trova evidente applicazione, in tutti quei dati di comune esperienza che consentono di ricostruire il pregiudizio alla vita del danneggiato in tutte le sue espressioni personali e relazionali tenuto conto del sviluppo della storia individuale di ciascun danneggiato (età, condizione personale e professionale, affetti vita di relazione) vulnerate dall'evento dannoso.

In questo senso le tabelle in uso ai vari Uffici giudiziari (Cass. III, n. 16788/2015) vengono a presidiare il criterio equitativo, ad esempio nella liquidazione del danno biologico, consentendo la personalizzazione del danno secondo un criterio di equità integrativa che esclude analogico il ricorso ad altri criteri, quali quelli della liquidazione del danno non patrimoniale da lesioni micro permanenti causate da circolazione di veicoli a motori o natanti, come per esempio nel caso di danno connesso all'aggravamento delle condizioni di salute, derivato dall'adibizione del ricorrente, avente qualifica di operaio, ad attività lavorative incompatibili con la patologia da cui era affetto (Cass. L, n. 13982/2015).

Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale è preferibile il ricorso alle tabelle (in primis a quelle in uso a Milano) rispetto al criterio equitativo puro, se non fondata su elementi di convincente obiettività e che siano idonee a presidiare la valutazione del pregiudizio del caso concreto, in ossequio al principio costituzionale di uguaglianza, in rapporto a decisioni del caso concreto (Cass. III, n. 20895/2015). In casi del genere nella liquidazione del danno biologico che può essere personalizzato agendo sul punto d'invalidità (Cass. III, n. 15733/2015) per esempio nel caso d'intervento chirurgico non eseguito a regola d'arte e forirero di postumi invalidanti maggiori rispetto a quelli che sarebbero esitati se l'intervento fosse stato eseguito correttamente.

La preferenza accordata alle tabelle milanesi ha trovato ulteriore conferma nella giurisprudenza di legittimità ( Cass. III n. 9950/2017) salva la particolarità della fattispecie risarcitoria e con obbligo di motivazione specifica circa il mancato adeguamento ai parametri delle tabelle milanesi.

La liquidazione del danno biologico permanente

Una volta acclarata la concezione unitaria di danno non patrimoniale il danno biologico e quello morale pur rappresentando lesioni diverse da un punto di vista ontologico fenomenologico, vanno poi liquidati insieme come profili dello stesso danno, onde evitare ciò che il giudice di legittimità teme di più anche in termini di costi sociali ossia una duplicazione risarcitoria del medesimo pregiudizio, senza perdere di vista l'esigenza di una liquidazione unitaria del danno.

L'uso delle tabelle consente al giudice di adattare letteralmente il risarcimento al caso concreto attraverso la percentuale di personalizzazione. Secondo l'orientamento in parola, dunque, la liquidazione del danno alla persona indicato dalle tabelle ricomprende tutti i pregiudizi normalmente derivanti da quel tipo di evento, risultandone escluse solamente le conseguenze eccezionali legate alle peculiarità concrete della fattispecie (Cass. n. 16788/2015, con nota di Rosada, La liquidazione del danno non patrimoniale tra divieto di duplicazione delle poste di danno e divieto di negazione dell'integrale risarcimento in ridare.it; Cass., n. 23778/2014, con nota di Di Marzio, Danno non patrimoniale: un rotondo «no» alle duplicazioni risarcitorie, in ridare.it).

Nel caso di danno biologico permanente allorché il giudice faccia riferimento alle tabelle «a punti», l'onere motivazionali diventa per il giudice stringente circa i criteri tabellari opzionati e gli elementi costitutivi. Ne consegue – (Cass. III, n. 16788/2015) – nella liquidazione c.d. a punto variabile, il giudice è tenuto a precisare il «valore monetario di base del punto e il grado di invalidità permanente, il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima e le ragioni per cui ha ritenuto di variare o non variare il risarcimento standardizzato».

La personalizzazione della liquidazione nel danno biologico permanente dovrà evidenzierà prima le conseguenze ordinarie della lesione onde poi personalizzare la liquidazione in funzione di quegli esiti peculiari derivanti dal pregiudizio subito senza automatismi(Cass. III, n. 16788/2015).

Il danno da perdita del rapporto parentale e il disinteresse verso la prole

Come sopra accennato nell'ambito delle cd. sentenze gemelle (Cass. S.U., n. 26972/2008) sembra stabilizzato l'orientamento secondo il quale il danno non patrimoniale, oltre a rivestire natura complessa (così come il danno patrimoniale che si articola nelle categorie del danno emergente e lucro cessante) si caratterizza per la sua natura areddituale, ossia rappresenta pregiudizi inerenti alla persona in quanto tale nella sua pluralità di aspetti dell'individuo come singolo e come partecipe di un consorzio sociale. Ciò sta, evidentemente, a significare che le singole « voci di danno non patrimoniale, rivestono funzione meramente descrittiva, tale essendo – nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale ovvero il danno cd. esistenziale».

L'interpretazione del danno non patrimoniale fondata sulla valorizzazione di diritti di rilievo costituzionale nella valutazione del pregiudizio, prescindendo dal rilievo penale della condotta causativa del danno morale, ha condotto la S.C. ad attribuire rilievo, come tale, al diritto all'identità personale e sociale, il cui vulnus può sostanziarsi anche in un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, senza che il fatto lesivo costituisca o meno reato, trattandosi di condotta illecita in quanto attinge un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché alla luce di un'interpretazione orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c. a detti valori costituzionali, (Cass. I, n. 16222/2015) il risarcimento deve essere comunque assicurato. In un caso del genere nella liquidazione del danno patito dal figlio il creditore non può giovarsi del criterio della compensatio lucri cum damno dei benefici ricevuti dal danneggiato in conseguenza dell'adempimento, da parte del falso padre, degli obblighi di mantenimento, non potendosi configurare un effetto lucrativo derivante da prestazioni dovute da chi, a seguito del riconoscimento, seppur falso, abbia assunto lo status di genitore. In questo stesso ambito va collocato il danno da perdita del rapporto parentale. Secondo il giudice di legittimità (Cass. III, n. 16992/2015) prendendo spunto da Cass. S.U., n. 26972/2008, va precisato che il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, non è altro che un particolare atteggiarsi del danno non patrimoniale, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste nello «sconvolgimento dell'esistenza»ancorate a fondamentali stili di vita che vengono a mutare radicalmente. Nel caso scrutinato la Corte ha accolto il ricorso cassando la decisione impugnata rilevando che la morte di un figlio può condurre la madre a causa dell'intollerabile sofferenza a malattia ed alienazione. L'unitarietà del pregiudizio, come appena descritto, esclude, tuttavia, la duplicazione risarcitoria, prima come danno morale, poi come perdita del legame parentale, trattandosi dello stesso danno in due diversi momenti descrittivi, (Cass. III n. 25351/2015). Tale epilogo non esclude l'idoneità di condotte plurioffensive idonee a generare pregiudizi di natura psichica per effetto della perdita di una relazione parentale (Cass. III, 09320/2015).

Il pregiudizio non patrimoniale in questione prescinde, comunque, dalla convivenza. Secondo il giudice di legittimità ( Cass. III, n. 21230 /2016) in un caso di morte violenta del nonno, la convivenza costituisce indice dell'importanza del legame affettivo ma non esaurisce il valore affettivo e significante del rapporto non certo riducibile al concetto di famiglia nucleare.

Ciò premesso va evidenziato che le molteplici evidenze fenomeniche del danno non patrimoniale impongono flessibilità pur all'interno della stessa categoria di danno morale che impone la ricerca di onnicomprensività del risarcimento. La giurisprudenza di legittimità è dovuta, infatti, intervenire più volte sul tema di parametri utilizzati in materia di liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale da lesione del vincolo parentale in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta. Questa valutazione, secondo la Corte di Cassazione tuttavia non può essere spesa allorché il figlio sia nato morto giacché la relazione perduta va considerata in senso potenziale e sorretta da adeguata motivazione (Cass. III, n. 12717 2015).

Anche un riconoscimento di paternità non veridico può causare un pregiudizio a mente degli artt. 2043 e 2059 rispetto alla relazione parentale (Cass. I, n. 16222/2015) e può essere liquidata come tale considerato il rilievo costituzionale del diritto all'identità personale e sociale che giustifica il risarcimento del danno non patrimoniale indipendentemente dal rilievo penalistico della condotta.

Rileva ai sensi dell'art. 2043 anche un pregiudizio all'identità genitoriale, come affermato da Cass. III, n. 8459/2020, in un caso in cui la madre, consapevole della gravidanza, non ne ha abbia fatto partecipe il padre del concepito. Il giudice di legittimità ha considerato che tale silenzio possa arrecare pregiudizio al figlio ove non giustificato da un oggettivo e apprezzabile interesse di costui e nonostante che tale comunicazione non sia imposta da alcuna norma, essa si appalesa come condotta  che, se realizzata con con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., idonea a produrre un  danno ingiusto rispetto al diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale, ossia di ristabilire la verità inerente al rapporto di filiazione.

In queste ipotesi risarcitorie ciò che viene ad essere pregiudicato è proprio il rapporto di filiazione ossia che trova riconoscimento assoluto nella Carta Costituzionale agli artt. 2 e 30 dando vita ad un danno risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c. anche con riferimento al danno da perdita dell'identità personale.

Per converso, secondo Cass. I, n. 16740/2020, l'addebito della separazione personale dei coniugi, di per sé considerato, non conduce all'affermazione di una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., venendo, piuttosto, in considerazione, solo il diritto del coniuge incolpevole al mantenimento, con la conseguenza che la risarcibilità di danni ulteriori è configurabile solo per quei fatti che sostanziano l'addebito inscrivibili nell'illecito di cui al citato articolo

Il danno da lesione dell'identità sessuale

Le condotte di discriminazione sessuale con riferimento al diritto costituzionalmente garantito al proprio orientamento sessuale costituiscono fonte di danno non patrimoniale nella forma del danno morale.

Infatti, secondo Cass. III, n. 1126/2015 tale pregiudizio costituisce danno non patrimoniale sub specie di danno morale considerato il rilievo costituzionale all'identità sessuale, sia come inclinazione sia come coming out.

In proposito anche la Corte Europea dei diritti dell'uomo ricorso (M.C. e A.C. c. Romania, 12 aprile 2016, n. 12060/121981) è recentemente intervenuta su di un episodio di violenta aggressione nei confronti di un gruppo Lgb stigmatizzando, tra l'altro, che gli orientamenti sessuali costituiscono un aspetto precipuo della vita privata di ogni individuo da cui discendono obblighi positivi non derivanti solo dall'articolo 3 Cedu, ma anche dal diritto al rispetto per la vita privata di ciascun individuo.

In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha considerato come condotta omofobica fonte di un danno morale, e lesiva della privacy individuale, la segnalazione della dichiarazione di omosessualità di un chiamato alla leva da parte dell'Ospedale militare ad altri organi amministrativi, escludendo che ai fini delle determinazioni quantitative del risarcimento per violazione del diritto alla riservatezza ed a quello di coming out fosse rilevante la comunicazione ristretta ad un ambito amministrativo.

Il danno da lesione del diritto di autodeterminazione

Sul diritto di autodeterminazione nell'ambito delle cure mediche le SS.UU., n. 25767/2015 escludono che si possa chiedere il risarcimento per violazione del diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria circa le malformazioni del feto, informazioni che, se date, avrebbero messo la madre in condizioni di scegliere se abortire o meno.

In questo caso il medico si presenterebbe come una sorta di responsabile indiretto del danno, per aver conculcato il diritto materno – riconosciuto dalla legge per effetto della l. 22 maggio 1978, n. 19 — sull'interruzione volontaria della gravidanza attraverso una condotta omissiva posta in relazione diretta di causalità efficiente con la nascita indesiderata.

La Corte ha dovuto affrontare sia il profilo della ripartizione dell'onere probatorio, sia quello della legittimazione autonoma del nascituro alla richiesta risarcitoria.

Le Sezioni Unite Civili, a risoluzione di contrasto, sulla responsabilità medica per nascita indesiderata, hanno focalizzato due direttive interpretative: a) sulla madre grava l'onere di fornire elementi univoci, circa l'opzione abortiva, quale elemento costitutivo dell'azione risarcitoria; b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da «vita ingiusta», poiché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano» pena la reificazione del concetto stesso di vita sana e sua conseguente monetizzazione assicurativa. Ne deriva che la risposta dell'ordinamento a simili evenienze va cercata nei principi generali di solidarietà sociale perché la nascita di un essere non sano costituisce un danno evento mentre il danno-conseguenza non corrisponde alla nascita in se stessa considerata ma con la vita handicappata conseguente alla nascita, ossia con la wrongful life rispetto alla wrongful birth.

Più recentemente, secondo Cass. III, n. 653 /2021 il deficit informativo concernente la il rischio di malformazioni fetali è fonte di risarcimento del danno da nascita indesiderata a carico del medico il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata, per  mancata interruzione della gravidanza, oltre il novantesimo giorno, considerato che ai sensi dell'art. 6, lett. b), della legge n. 194 del 1978 da accertarsi in concreto, a tutela della salute , fisica o psichica della donna ,senza che sia necessario che la malformazione si sia già prodotta o risulti strumentalmente o clinicamente accertata.

Il danno da lesione dell'altrui reputazione

Anche l'onore e la reputazione di ciascun individuo costituiscono diritti della persona di rango costituzionale con la conseguenza che la violazione di tali beni è fonte di risarcimento del danno indipendentemente dal rilievo penalistico della condotta offensiva. Ne deriva che ai fini del risarcimento del danno l'elemento soggettivo (dolo o con colpa) dell'autore non è rilevante ai fini del riconoscimento el danno non patrimoniale.

Fonte di danno non patrimoniale è dunque l'offesa all'altrui reputazione che presuppone apprezzamenti sull'offensività e sulla lesività della condotta, ossia valutazioni in fatto riservati al giudice di merito e che impongono un concreto bilanciamento d'interessi tra altri valori costituzionali di pari rango come il diritto di critica, di cronaca e di difesa (Cass. III, n. 16786/2015).

In questo tipo di bilanciamento tali valori non sono posti in pericolo da alcune inesattezze marginali ove nella narrazione su di una indagine penale in corso la posizione processuale della parte che si assume danneggiata rimane facilmente percepibile rispetto ad altri indagati (Cass. III, n. 17197/2015).

Il danno morale deve essere, invece, escluso (Cass. III, n. 24221/2015), nella lamentata lesione dell'onore e del decoro di una giornalista conseguente all'inserimento di un suo servizio televisivo – nel quale dava notizia di un prodotto in grado di rilevare per gli automobilisti la presenza di un autovelox – all'interno di uno spot pubblicitario riguardante detto dispositivo.

La S.C. ha negato rilievo, a fini risarcitori, alla lamentata associazione tra il detto messaggio di reclamizzazione e il volto della giornalista (che si doleva di essere stata indecorosamente presentata – suo malgrado – come sponsor del detto dispositivo), escludendo che potesse invocarsi la mancanza di consenso alla divulgazione dell'immagine ex art. 10 c.c., valorizzando, per contro, la circostanza che detta immagine fosse stata associata ad esigenze divulgative e d'informazione, escludenti l'illegittimità della condotta.

Cass. III, n. 4005/2020 nella domanda il risarcimento il danno all'immagine ed alla reputazione nella sua accezione di "danno conseguenza", non è "in re ipsa", ma va allegato e provato. Ne consegue che la liquidazione forma oggetto di un fatto non sindacabile in sede di legittimità, riguardante un concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, purché fondate, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé, ed utilizzando quali parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima.

Tutela dell'immagine

Anche la divulgazione di un'immagine diffusa senza consenso dell'interessato è da considerare illecita (Cass. III, n. 1748/2016).

Come noto, ai sensi dell'art. 10 c.c., nonché degli artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941 sul diritto d'autore, la divulgazione dell'immagine senza il consenso dell'interessato è lecita soltanto se ed in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione, non anche quando sia rivolta a fini pubblicitari.

Tutelabile attraverso l'azionabilità del danno morale è anche l'immagine- reputazione (Cass. I, n. 23401/2015) di un'associazione non riconosciuta ove si lamenti il pregiudizio della lesione dei diritti immateriali della personalità tra cui l'immagine dell'ente.

Il danno da vacanza rovinata

Non costituisce, invece, interesse di rango costituzionale il disagio conseguente ad una vacanza rovinata (Cass. III n. 14662/2015). Infatti il danno di natura non patrimoniale comporta sempre una valutazione del livello d'interesse e della sua meritevolezza alla luce dei valori costituzionali.

Pertanto l'onere probatorio grava su chi chiede il risarcimento quanto ad entità e serietà del pregiudizio lamentato (Cass. III, n. 12143/2016). È vero che l'art. 47 del Codice del Turismo (d.lgs. 79/2011) definisce il «danno da vacanza rovinata» come «un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all'irripetibilità dell'occasione perduta», sempreché l'inadempimento sia «di non scarsa importanza» (art. 47). In questo caso il legislatore ha fatto riferimento al danno non patrimoniale sub specie della perdita del diritto al riposo ed allo svago (comprensivo di quello biologico, morale ed esistenziale) che è ovviamente diverso dal danno patrimoniale magari rapportabile alla perdita del bagaglio.

Ne deriva che anche qui la risarcibilità del danno non patrimoniale appare circoscritto ai « casi previsti dalla legge«. Stando così le cose il pregiudizio va, in concreto, bilanciato con la solidarietà che impone quel pati riscontrabile nei doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 della Costituzione, laddove si prospetti un danno c.d. bagatellare.

Naturalmente la risarcibilità del danno non patrimoniale scaturente da inadempimento contrattuale impone l'allegazione degli elementi di fatto indispensabili per fondare l'esistenza e l'intensità del pregiudizio lamentato (Cass. III n. 12143/2016).

Il danno ambientale

Danno non patrimoniale è anche la condotta antigiuridica che ha creato un vulnus al valore costituzionale del diritto ad un ambiente salubre.

Già la Corte Costituzionale, nella a sentenza del 30 dicembre 1987, n. 641, ha chiarito che l'ambiente è un «bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutele; ma tutte nell'insieme, sono riconducibili ad unità»; ossia, un valore di rango costituzionale (art. 9 e 32 della Cost.) e ben prima dell'introduzione della Legge costituzionale n. 3 del 2001.

La giurisprudenza di legittimità, ha chiarito (Cass. III, n. 3259/2016) che in materia di danno ambientale, in relazione a fattispecie sussumibili ratione temporis nell'art. 2043 c.c. ogni condotta dolosa o colposa di danneggiamento dell'ambiente comporta un pregiudizio con la conseguenza che la prescrizione del diritto al risarcimento decorre solo dalla cessazione di tale contegno, Cass. III, n. 3259/2016) senza che sia necessaria anche la «violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge, secondo le previsioni dell'art. 18 della l. 8 luglio 1986 n. 349.

Tale condotta pregiudizievole è destinata a persistere sino a quando risulti perpetrata la lesione ambientale con la conseguenza che la prescrizione del diritto al risarcimento decorre solo dalla cessazione del comportamento dannoso ovvero dalla perdita di disponibilità del bene danneggiato (cfr. anche Cass. III, n. 9012/2015; Cass. III, n. 6901/2015).

Questo tipo di pregiudizio può anche prescindere dalla commissione di un reato, infatti (Cass. III, n. 8662/2017 la genesi del danno ambientale, (art. 18 l. n. 349/1986 ovvero ex art. 311 del d.lgs. n. 152/2006) derivare dalla violazione di una prescrizione imputabile a quale che sia condotta umana causativa della compromissione ambientale  e pertanto la condotta generativa del danno ambientale, come configurata sia dall'art. 18 della l. n. 349 del 1986 che dall'art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, non si identifica necessariamente nella commissione di uno specifico reato a protezione dell'ambiente, potendo la stessa consistere nella violazione di una qualunque prescrizione riferita ad attività umana da cui possa derivare un'alterazione di quest'ultimo, desumibile dall'insieme delle regole dell'ordinamento, tra le quali rientrano sicuramente quelle relative all'illecito aquiliano ed alla responsabilità derivante dall'esercizio di attività pericolose.

Il concorso di colpa del danneggiato

Con riferimento invece al dovere del danneggiato di attivarsi secondo correttezza al fine di evitare il danno, ai sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c., un recente arresto giurisprudenziale (Cass. III, n. 02087/2015), la quale, in materia di diffamazione a mezzo stampa, ha escluso che sia ravvisabile una violazione di tale dovere in capo al danneggiato che, in caso di mancata ottemperanza da parte del danneggiante all'ordine del giudice di pubblicare la sentenza di condanna su uno o più giornali, non provveda autonomamente a siffatta pubblicazione a sua cura e spese. Una tale iniziativa, ha precisato la Corte, corrisponde infatti ad un apprezzabile sacrificio che va oltre i limiti della ordinaria diligenza, onde il diritto del danneggiato al risarcimento del danno derivante dalla mancata pubblicazione non può essere ridotto od escluso per non aver egli provveduto autonomamente a richiedere la pubblicazione, richiesta che peraltro costituisce una facoltà riservata al danneggiato, e non un obbligo su di esso gravante.

Sulla stessa scia ( Cass. sez. lav, n. 4865 /2016) a proposito del ritardo del lavoratore nell'esercizio della tutela giurisdizionale il giudice di legittimità ha escluso la violazione dell'obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione volto ad evitare l'aggravarsi del danno, ex art. 1227, comma 2, c.c. rispetto al tempo da costui speso per la tutela giurisdizionale derivante da licenziamento illegittimo in un caso di ritardo di circa due anni dall'intimazione, considerato che il deficit di diligenza che aggrava il danno deve considerarsi rapportato ad attività non gravose.

Costituisce per converso, un caso di cooperazione colposa il mancato approfondimento dei motivi d'incompletezza della nota di trascrizione, nel caso di mancata trascrizione della domanda contro un terzo, ove tale condotta da parte del danneggiato abbia avuto efficienza causale primaria rispetto al danno aquiliano lamentato (Cass.III, n. 22923/2016) tale da escludere la risarcibilità del pregiudizio aquiliano.

Costituisce senz'altro danno aquiliano risarcibile in via equitativa la perdita di titoli di credito per l'illecita condotta altrui. Nel riparto dell'onere probatorio grava sul danneggiato l'onere di dimostrare la perdita del titolo di credito salva la prova in capo al danneggiante che costui ex art. 1227, comma 2, c.c., con condotta ordinariamente diligente nell'intraprendere e completare le procedure di ammortamento avrebbe potuto evitare (Cass. III, n. 16484 /2017).

Bibliografia

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Munaro, I danni da illegittima segnalazione in centrale rischi, 2 Febbraio 2017, in ridare.it; Trapuzzano, Condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a titolo di responsabilità processuale aggravata: la proposta dell'Osservatorio di Milano, in ridare.it., 27 Gennaio 2017.

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