Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoL'avvocato, come emerge dalla «nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense» (l. 31 dicembre 2012, n. 247) è il libero professionista, iscritto in apposito albo, che, in libertà, autonomia ed indipendenza, assiste, rappresenta e difende le parti processuali nei giudizi innanzi agli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali. Ad egli compete l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, in via esclusiva quando connesse all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato. Sotto il profilo esterno, all'attività dell'avvocato è sotteso un atto di designazione, procura alle liti in ambito civilistico o nomina difensiva in quello penalistico, in forza del quale egli esercita in giudizio la sua funzione. Nei rapporti interni un vincolo di natura negoziale lega il professionista al suo assistito, contratto di patrocinio o di clientela, assoggettato alle norme generali del mandato. In considerazione della più complessa attività svolta dal professionista legale, però, finalizzata al conseguimento del risultato utile per il cliente, in ipotesi antecedente o successiva alla difesa in giudizio o svincolata da essa (stragiudiziale), il rapporto è ricondotto nello schema del contratto di prestazione d'opera intellettuale, disciplinato dagli artt. 2229 e ss., con assunzione della corrispondente responsabilità in caso di inadempimento (Martinuzzi, 90; Scalia-Centofanti, 238, Fortinguerra, 706). La giurisprudenza coglie ed evidenzia la duplice struttura, interna ed esterna, del rapporto tra avvocato e cliente, oltre che l'impossibilità di ridurlo al mero schema del mandato in luogo del contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), in termini di contratto di patrocino o di clientela. Ciò soprattutto in ragione delle molteplici attività anche stragiudiziali, sia collegate che non collegate ad attività giudiziali, che generalmente caratterizzano la prestazione del professionista legale (Cass. II, n. 18450/2014). Merita rilevare, sempre in termini di inquadramento generale dei rapporti tra avvocato e cliente, che la responsabilità del professionista legale è ipotizzabile anche sotto il profilo del «contatto sociale qualificato». La Suprema Corte, ritiene difatti coerente con le esigenze di tutela del prestigio dell'ordine professionale l'osservanza delle norme deontologiche nei rapporti in genere, anche da «contatto sociale», con riferimento ai quali l'avvocato ottenga fiducia ed ingeneri l'affidamento nel terzo in ragione della spendita della sua qualità (Cass. S.U., n. 6216/2005). Dalla descritta natura del rapporto tra avvocato e cliente discendono rilevanti conseguenze in tema di contenuto dell'obbligazione del professionista legale. Ne consegue difatti che l'obbligo di diligenza professionale persiste anche in caso di nomina di un nuovo difensore in sostituzione di quello precedente, presso il quale la parte aveva eletto domicilio (Cass. II, n. 21589/2009), così come la mora del cliente nella corresponsione del compenso non è tale da incidere sull'obbligo di diligenza al quale è tenuto contrattualmente il professionista, potendo l'inadempimento giustificare il recesso dell'avvocato (Cass. S.U., n. 2661/1997). Discende altresì la natura altrettanto contrattuale della relativa responsabilità, con riferimento all'inadempimento delle nascenti obbligazioni che, solo normalmente, sono di mezzi e non di risultato. Il professionista, difatti, assumendo l'incarico, si impegna ad espletare la sua attività ponendo in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito ma non il conseguimento effettivo di tale risultato. Con particolare riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale, e, quindi, anche a quella gravante in capo all'avvocato in forza del contratto di patrocinio o di clientela, occorre però tenere conto, come precisa la citata Cass.S.U., n. 15781/2005, della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista che possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre. Questa considerazione, in aggiunta ad argomentazioni dottrinali contrarie alla detta distinzione, conduce la giurisprudenza ad una rivisitazione della struttura del rapporto obbligatorio anche con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale ed alla conseguente responsabilità professionale. L'erosione della rilevanza della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato implica che, per valutare l'adempimento da parte dell'avvocato, necessita muovere dal criterio della diligenza esigibile ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. che, in quanto rapportata alla natura dell'attività esercitata, è quella del professionista di preparazione tecnica e di attenzione medie idonea alla realizzazione dell'interesse del cliente. L'art. 2236 c.c. prevede poi una specifica qualificazione della prestazione d'opera professionale, quale deroga alle norme generali che disciplinano l'inadempimento, giustificata dalla natura e dal contenuto della prestazione in esame, sempre che essa comporti la soluzione di questioni tecniche di particolare difficoltà. In tali casi, difatti, la responsabilità del professionista sussiste solo nel caso di dolo e colpa grave. La detta norma è in relazione di complementarietà e non di specialità con quella di cui all'art. 1176 c.c., laddove, però, la limitazione di responsabilità prevista dall'art. 2236 c.c. opera solo con riferimento al parametro della perizia. Sicché, la valutazione in ordine all'adempimento della prestazione da parte del professionista legale non attiene al mero accertamento del mancato raggiungimento del risultato utile da parte del cliente ma implica un'indagine volta a verificare l'eventuale violazione dei doveri connessi allo svolgimento dell'attività professionale. L'obbligo di diligenza da osservare, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., impone difatti all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, anche ai doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione del cliente. Egli è tenuto quindi a rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi. Il professionista è altresì tenuto a solleticare il cliente ad esplicitargli gli elementi utili in suo possesso oltre a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. All'esito della disamina di cui innanzi si può sostenere che il descritto processo giurisprudenziale di erosione della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, perlomeno il suo inizio e lo sviluppo dopo rilevanti interventi delle Sezioni Unite (nel 2001, nel 2005 e nel 2006), si avverte anche con riferimento alla materia della responsabilità dell'avvocato, ancorché in corso di evoluzione. In tale materia sovente difatti si tende ad ampliare il catalogo delle condotte strumentali al risultato finale per il cliente considerate prive di margini di discrezionalità, valorizzando sempre più gli obblighi (c.d. intermedi) di informazione, sollecitazione e dissuasione nonché, in generale, di adeguata condotta processuale, oltre che l'obbligo di fedeltà. Per la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, la responsabilità del prestatore d'opera intellettuale nei confronti del proprio cliente, per negligente o imperito svolgimento dell'attività professionale, presuppone la prova del danno e del nesso eziologico tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente. In tema di nesso causale oltre che di riparto dell'onere probatorio, con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, la giurisprudenza è in attuale continua evoluzione verso l'applicazione delle comuni regole caratterizzanti la responsabilità contrattuale e non extracontrattuale anche se, come di seguitò esplicitato, il percorso è ancora in itinere. Con riferimento al nesso causale, difatti, si assiste al passaggio dal criterio della «certezza degli effetti della condotta» (c.d. criterio della «certezza morale») al criterio della «ragionevole certezza» per poi ricorrere a criteri che fanno perno sulla probabilità degli effetti e dell'idoneità della condotta a produrli (Cass. III, n. 3355/2014). Allo stato, però, non risulta ancora una formale applicazione, con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, del criterio cardine che governa l'accertamento del nesso eziologico in materia civile, cioè quello della «causalità naturale», anche detto «del più probabile che no», che, invece, informa la giurisprudenza di legittimità anche con riferimento ad altri settori della responsabilità professionale ed in particolare a quella medica. In merito al riparto dell'onere probatorio sembra invece che la giurisprudenza di legittimità tenda, anche nello specifico settore della responsabilità professionale dell'avvocato, a fare applicazione del principio cardine della «vicinanza della prova», ancorché, allo stato, non ancora allo stesso livello evolutivo già raggiunto con riferimento ad altri settori della responsabilità professionale, tra i quali, ancora una volta, quello della responsabilità medica. Grava in capo al cliente attore l'onere di provare il titolo (contrattuale o da «contatto sociale») nonché di allegare l'inadempimento qualificato e provare il danno ed il nesso eziologico con la condotta (attiva od omissiva) del professionista, in termini tanto di causalità materiale che di causalità giuridica. È forse, conclusivamente, proprio all'onere di allegazione di un inadempimento qualificato, cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno, che potrebbe ritenere si rifacciano le pronunce della Suprema Corte che, con specifico riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, richiedono, da parte dell'attore, la prova della «difettosa» prestazione professionale (Cass. II, n. 11901/2002) ovvero dell'esistenza di una condotta professionale erronea o comunque inadeguata (Cass. II, n. 9238/2007). Con la precisazione, infatti, che l‘onere della prova della detta condotta professionale, erronea o inadeguata, grava (come per il nesso eziologico) in capo all'attore nel giudizio di responsabilità laddove risulti eseguita la prestazione professionale, gravando in capo al professionista l'onere di provare l'adeguatezza della prestazione ovvero che l'imperfetta esecuzione di essa sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore. La responsabilità professionale in generale è terreno elettivo per l'elaborazione del danno da perdita di chance, anche con riferimento alla responsabilità dell'avvocato, con la conseguente distinzione, peraltro, del danno da perdita della possibilità di impugnare dal danno da mancata impugnazione. La casistica, infine, è varia e si annoverano, solo esemplificativamente, i danni (e le relative responsabilità professionali): da parere; da tardiva impugnazione; da mancata impugnazione; da prescrizione del diritto del cliente; da «responsabilità aggravata»; da ritardo nella conclusine del processo; da negligente gestione della casella di posta elettronica certificata, oltre che la responsabilità c.d. per «cause presumibilmente perse ab initio». In tema di risarcimento danni, poi, la responsabilità conseguente ad affermazioni offensive per il giudice contenute negli scritti difensivi di un giudizio civile non ha natura penale, ma deriva da un fatto illecito ex art. 2043 c.c. di cui risponde, oltre all'avvocato autore delle espressioni offensive, la stessa parte, quale responsabile civile dell'operato del proprio difensore, posto che nel processo civile non trova applicazione l'art. 589 c.p., ma l'art. 89 c.p.c., quale norma posteriore e speciale rispetto alla prima (Cass. III, n. 4733/2019). Il difensore della parte è invece passivamente legittimato, a titolo personale, nell'azione per danni da espressioni offensive contenute negli atti di un processo,proposta davanti ad un giudice diverso da quello che ha definito quest'ultimo, ove sia prospettata una specifica responsabilità del difensore stesso o non sia più possibile agire ai sensi dell'art. 89 c.p.c. per lo stadio processuale in cui la condotta offensiva ha avuto luogo (Cass. VI-III, n. 19907/2013; negli stessi termini, più di recente, anche: Cass. III, n. 3274/2016, e Cass. III, n. 20891/2013). In questa sede è già il caso di evidenziare che l’attuale contesto ermeneutico cui aver riferimento ai fini della responsabilità dell’avvocato è segnato dai seguenti principi (scandagliati nei successivi paragrafi), consolidati nella giurisprudenza di legittimità, come di recente chiarito da Cass. III, n. 4655/2021: a) la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., da commisurare alla natura dell'attività esercitata, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente (ex plurimis: Cass. II, n. 5928/2002; Cass. II, n. 6967/2006; Cass. III, n. 10289/2015; Cass. III, n. 11906/2016); b) l'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli artt. 2236 e 1176 c.c., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge e, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio, mentre nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità, a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave (si veda, ex plurimis, Cass. III, n. 11906/2016); c) l'opinabilità della soluzione giuridica impone, tuttavia, al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo (ex plurimis: Cass. VI-III, n. 4790/2014; Cass. III, n. 18612/2013; Cass. III, n. 8940/2013; Cass. II, n. 10454/2002); d) l'inadempimento del suddetto professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile cui mira il cliente, ma soltanto dalla violazione del dovere di diligenza adeguato alla natura dell'attività esercitata, ragion per cui l'affermazione della sua responsabilità implica l'indagine positivamente svolta sulla scorta degli elementi di prova che il cliente ha l'onere di fornire circa il sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, in definitiva, la certezza morale che gli effetti di una diversa sua attività sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente medesimo (così Cass. II, n. 16846/2005); e) l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole; a tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo, dovendo ritenersi il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello jus postulandi, attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (ex plurimis: Cass. VI-III, n. 56/2021; Cass. III, n. 19520/2019, la quale, nella specie, ha cassato la sentenza impugnata che, senza una plausibile spiegazione alternativa, aveva ritenuto l'avvocato esente da responsabilità, sebbene nel seguire i profili penalistici del protesto per tre cambiali subito dal proprio cliente, non gli avesse segnalato la necessità di richiederne la cancellazione, neppure informandolo sull'opportunità di intraprendere iniziative in ambito civile e in ogni caso, di rivolgersi ad un avvocato civilista, ove si fosse reputato non professionalmente capace in tale ambito; Cass. II, n. 7708/2016; Cass. III, n. 24544/2009; Cass. II, 14597/2004); f) la responsabilità dell'avvocato «non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone» (Cass. III, n. 13873/2020; Cass. II, n. 1984/2016; Cass. III, n. 2638/2013). Struttura e disciplina del rapporto tra avvocato e clienteL'avvocato, come emerge dalla «nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense» (l. n. 247/2012) è il libero professionista, iscritto in apposito albo, che, in libertà, autonomia ed indipendenza, assiste, rappresenta e difende le parti processuali nei giudizi innanzi agli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali. Ad egli compete l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, in via esclusiva quando connesse all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato. Sotto il profilo esterno, all'attività dell'avvocato è sotteso un atto di designazione, procura alle liti in ambito civilistico o nomina difensiva in quello penalistico, in forza del quale egli esercita in giudizio la sua funzione. Nei rapporti interni un vincolo di natura negoziale lega il professionista al suo assistito, contratto di patrocinio o di clientela, assoggettato alle norme generali del mandato. In considerazione della più complessa attività svolta dal professionista legale, però, finalizzata al conseguimento del risultato utile per il cliente, in ipotesi antecedente o successiva alla difesa in giudizio o svincolata da essa (stragiudiziale), il rapporto è ricondotto nello schema del contratto di prestazione d'opera intellettuale, disciplinato dagli artt. 2229 e ss., con assunzione della corrispondente responsabilità in caso di inadempimento (Martinuzzi, 90; si vedano: per il contratto di prestazione d'opera professionale, diffusamente, Musolino, 1995; per l'inquadramento generale dell'attività professionale dell'avvocato, con particolare riferimento ai riflessi interni ed esterni di essa, Scalia-Centofanti, 238; Perlingeri, 1301; per ampi riferimenti alla natura dell'attività dell'avvocato ed ai limiti della stessa, previo inquadramento del rapporto con il cliente, oltre che per l'attività dell'avvocato in tema di mediazione a fini conciliativi, in materia civile e commerciale, De Santis, 265, e l'intero contributo di Danovi-Ferraris; Plenteda, 72, per il quale il «contratto di clientela» sottolinea il vincolo di continuità che lega l'avvocato al cliente con riferimento all'attività processuale mentre il «contratto di patrocinio» evoca una limitazione della discrezionalità del professionista in forza di specifiche istruzioni impartite dal cliente; per l'inquadramento dei rapporti tra avvocato e cliente tra prestazione d'opera intellettuale, mandato e contratto di patrocinio, Fortinguerra, 706). La descritta natura del rapporto di cui innanzi, tra mandato e contratto di prestazione d'opera professionale, implica che la responsabilità del professionista con riferimento ad atti compiuti dai suoi collaboratori od ausiliari si fonda su culpa in eligendo ed è regolata dagli artt. 1228, 1717 e 2232 c.c. Essa invece non sussiste ove il cliente si sia rivolto direttamente al sostituto dell'avvocato, instaurando direttamente con lui un autonomo rapporto contrattuale (Pensa, 34). Perimenti responsabile professionalmente, nei confronti del proprio cliente, è l'avvocato che si sia avvalso di sostituto, mediante incarico conferito dal legale di volta in volta ovvero continuativamente, trattandosi di soggetto del quale il professionista si avvale nell'adempimento dell'obbligazione nascente dal contratto con il cliente (Cattaneo, 107). La giurisprudenza coglie ed evidenzia la duplice struttura, interna ed esterna, del rapporto tra avvocato e cliente, oltre che l'impossibilità di ridurlo al mero schema del mandato in luogo del contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), in termini di contratto di patrocino o di clientela, soprattutto in ragione delle molteplici attività anche stragiudiziali, sia collegate che non collegate ad attività giudiziali, che generalmente caratterizzano la prestazione del professionista legale. L'orientamento più risalente, in particolare, argomentando dalla natura di mandato del rapporto sottostante, ritiene che il semplice, ancorché prolungato, silenzio del mandante non comporti l'estinzione del mandato né la revoca tacita dello stesso, a norma dell'art. 1724 c.c. Tale situazione implicherebbe invece, a causa dell'incertezza circa la prosecuzione o non del mandato, il dovere del mandatario, ex art. 1710 c.c., di interpellare formalmente il proprio mandante al fine di conoscere se intenda continuare a servirsi della sua opera e, nel contempo, fino a quando l'incarico non gli sia revocato, il dovere compiere tutti gli adempimenti occorrenti per evitare che siano compromessi i diritti del mandante (Cass. III, n. 4044/1994, in Resp. civ. e prev., 1994, 4, 635, con nota di Ruta). Sempre in termini di mandato si esprime Cass. II, n. 5617/1996 che, in forza del rapporto interno tra avvocato e cliente, equipara il difensore munito di procura alle liti al mandatario, ritenendo compatibile la disciplina del mandato con la rappresentanza tecnico-processuale demandata al difensore. In applicazione della disciplina del mandato, in particolare, la Suprema Corte ritiene che la responsabilità del professionista possa discendere anche dalla mancata informazione resa al cliente in merito all'impossibilità di espletare l'attività di cui al mandato, oltre che nel caso di mancato espletamento dell'attività o dello svolgimento parziale di essa. Sempre con riferimento al rapporto interno tra avvocato e cliente, la recente Cass. VI-III, n. 10071/2017 conferma l'assunto per il quale la procura alle liti (art. 83 c.p.c.), che abilità il difensore ad esercitare i poteri normativamente spettantigli nel processo, presuppone un rapporto di mandato con rappresentanza speciale processuale, il cui contenuto è determinato dalla natura del rapporto controverso e dal risultato perseguito dal mandante nell'intentare la lite o nel resistere ad essa. Sicché, nel caso di mancanza del mandante, in ipotesi per inesistenza, come nella specie, perché rilasciata da società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, l'attività del difensore resta attività processuale della quale il legale assume esclusivamente la responsabilità, con la conseguente ammissibilità di una sua condanna a pagare le spese del giudizio (si vedano anche Cass. S.U., n. 10706/2006, in merito al presupposto rapporto di mandato ed alle conseguenze in materia di condanna alle spese, e Cass. III, n. 6264/2002, sempre circa il presupposto rapporto di mandato). La giurisprudenza, nell'ottica di valorizzare entrambi i profili del rapporto tra avvocato e cliente (quello interno e quello esterno), con quanto ne consegue in termini di disciplina dello stesso, precisa che occorre muovere dalla qualificazione giuridica del contratto, intercorrente tra avvocato e cliente. Essa è difatti una operazione ermeneutica volta ad identificare il modello legale astratto all'interno del quale sussumere il contratto in concreto stipulato, al fine di assoggettare quest'ultimo alla disciplina dettata dal primo. Tale operazione strutturalmente si articola in tre fasi, la prima delle quali consiste nella ricerca della comune volontà dei contraenti, la seconda nella individuazione della fattispecie legale e l'ultima si sostanzia nel giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli elementi di fatto in concreto accertati. Le ultime due fasi si traducono nell'applicazione di norme di diritto, quindi sindacabili in sede di legittimità, mentre la prima fase si traduce in un accertamento in fatto, come tale riservato al giudice di merito e sindacabile in Cassazione solo sotto il profilo del difetto di motivazione o della violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale. In applicazione del principio di cui innanzi Cass. III, n. 12289/2004, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso sia che il rapporto intercorso tra i ricorrenti e un avvocato fosse configurabile come contratto di clientela e non come mandato professionale, sia che quest'ultimo avesse ad oggetto la presentazione di ricorsi tributari per ognuna delle contestazioni scaturite da un processo verbale della guardia di finanza. Sicché, per la giurisprudenza più recente, in tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura ad litem è un negozio unilaterale col quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto di patrocinio è un negozio bilaterale col quale il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera in applicazione dello schema del mandato (ex plurimis, Cass. III, n. 7410/2017, Cass. VI-III, n. 13927/2015 e Cass. II, n. 18450/2014). Della detta ricostruzione in tema di forma e prova ne consegue che non si può escludere che il rilascio di una procura alle liti assolva all'onere di forma eventualmente richiesto per il contratto ed al contempo ne fornisce la prova. Di norma, però, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, necessaria solo per lo svolgimento dell'attività processuale, e non è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà delle forme. Ai fini della conclusione del contratto di patrocinio non rileva altresì il versamento, anticipato o durante lo svolgimento del rapporto professionale, di un fondo spese o di un anticipo sul compenso, sia perchè il mandato può essere anche gratuito sia in quanto in caso di mandato oneroso il compenso e l'eventuale rimborso delle spese sostenute possono essere richiesti dal professionista durante lo svolgimento dello stesso (ex plurimis, Cass. III, n. 7410/2017; Cass. II, n. 10454/2002). Sicché, tenuto conto degli artt. 1218 c.c. e 1176 comma 2 c.c., oltre che degli artt. 2230 c.c. e 2236 c.c. (circa le obbligazioni nascenti del contratto di prestazione d'opera professionale in oggetto), in ragione della richiamata distinzione tra contratto di patrocinio e procura alle liti, spetta al cliente provare di avere affidato all'avvocato l'incarico di assistenza professionale relativa ad un determinato affare ed il mandato di agire in giudizio, per conseguire il risultato avuto di mira. Raggiunta questa prova, spetta all'avvocato provare l'avvenuto adempimento del mandato, con la diligenza e la perizia richieste dalla natura dell'attività, ovvero di non avervi adempiuto per fatto a sé non imputabile o per cessazione del rapporto contrattuale. Argomentando nei detti termini, Cass. III, n. 7410/2017, conclude nel senso che la sola circostanza per la quale non sia stata conferita la prevista procura speciale non esclude la responsabilità del professionista per mancata proposizione tempestiva del relativo ricorso. Grava difatti in capo all'avvocato l'onere della prova di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione di impugnare la sentenza sfavorevole di secondo grado, di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell'omessa impugnazione, nonché di non aver agito per fatto a sé non imputabile o per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale. Sempre dalla ricostruzione di cui innanzi, Cass. II, n. 18450/2014 ne fa conseguire che, come presupposto di riconoscimento del compenso per le prestazioni svolte dal difensore nel giudizio, occorre accertare, anche d'ufficio, il valido conferimento della procura, non potendo l'invalidità di questa essere superata dal contratto di patrocinio, che può riferirsi solo ad un'attività extragiudiziaria svolta dal professionista in favore del cliente sulla base di un rapporto interno di natura extraprocessuale. Così argomentando, la Corte di Cassazione chiarisce che, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio della detta procura, essendo essa necessaria solo per lo svolgimento dell'attività processuale, e che non è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma (cfr., Cass. II, n. 13963/2006, per la quale, come conseguenza della ricostruzione di cui innanzi, nell'ipotesi in cui parte conferente sia l'organo rappresentativo di un ente pubblico – nella specie il comune –, il formale conferimento della procura alla lite e il concreto esercizio della rappresentanza processuale della parte configurano il perfezionamento in forma scritta del sottostante contratto di patrocinio). Dalla descritta struttura del rapporto consegue altresì che il difensore che abbia rinunciato al mandato conserva fino alla sua sostituzione la legittimazione a ricevere gli atti indirizzati dalla controparte al suo assistito ma non è legittimato a compiere atti nell'interesse del mandante, spiegando la rinuncia effetti tra cliente e difensore con conseguente venir meno del rapporto di prestazione d'opera intellettuale instauratosi con il cosiddetto contratto di patrocinio. Cass. II, n. 13858/2013, ne fa conseguire che, per la circoscritta attività di ricevimento degli atti, spettano al difensore non sostituito i diritti di procuratore in base alle tariffe vigenti al momento dei singoli atti, mentre gli onorari di avvocato gli competono secondo la tariffa in vigore al momento della rinuncia, a nulla rilevando che dopo la cessazione dell'incarico sia intervenuta altra tariffa professionale. Il difensore che, per una diligente prestazione della propria opera intellettuale, ha l'obbligo di svolgere tempestivamente l'attività nell'ambito del processo, ove cessi dal proprio incarico, per rinuncia o revoca della procura, anteriormente alla scadenza del termine ultimo per il compimento di quell'attività, ha il dovere di evitare pregiudizio al cliente ed è quindi tenuto a compiere l'atto o a rappresentare alla parte che gli revochi la procura la necessità del compimento dell'atto non ancora posto in essere. In mancanza il professionista assume la responsabilità per i danni conseguenti anche quando, essendo stato sostituito da altro difensore, il danno avrebbe potuto essere evitato con il compimento da parte del nuovo difensore, ancora consentito dallo stato del processo, dell'attività processuale omessa dal primo. Nella fattispecie, difatti, la negligenza del successivo difensore non è causa sufficiente ed unica del danno, non essendo perciò idonea ad interrompere il nesso che lega alla causa antecedente tale danno, ove questo sia ricollegabile alla negligenza del primo difensore (in tal senso Cass. III, n. 5325/1993, che qualifica il rapporto in termini di contratto di prestazione d'opera professionale ovvero di contratto di clientela e ritiene applicabile alla responsabilità professionale dell'avvocato, quindi di natura contrattuale, il principio dell'equivalenza delle cause di cui agli artt. 40 e 41 c.p.). La natura del rapporto implica che il corrispondente obbligo di diligenza gravante in capo all'avvocato persista anche in caso di nomina di un nuovo difensore in sostituzione di quello precedente presso il quale la parte aveva eletto domicilio. Nell'ipotesi di cui innanzi, difatti, l'avvocato, la cui nomina è revocata, è tenuto a comunicare al nuovo difensore gli atti in relazione ai quali il domicilio era stato eletto, rientrando l'obbligo di informazione nel più generale dovere di diligenza professionale cui l'avvocato è tenuto nei confronti del proprio cliente, anche in caso di rinuncia e revoca del mandato. La particolare relazione che si stabilisce tra il soggetto destinatario degli atti ed il difensore domiciliatario non fa venir meno a carico di quest'ultimo gli obblighi connessi alla ricezione degli atti, per i quali sia avvenuta la domiciliazione, che permangono in capo al domiciliatario anche nel caso di nomina di nuovo difensore in sostituzione del primo. Tra i detti obblighi, in particolare, si annovera l'obbligo di informare il nuovo difensore dell'avvenuta notificazione di eventuali sentenze e, più in generale, di atti che riguardino la parte. Della relativa responsabilità, per la Suprema Corte, il domiciliatario non può essere esonerato se non in virtù della prova, posta a suo carico, di avere dato notizia della notifica al nuovo difensore, permettendo, solo essa, al nuovo difensore di fruire compiutamente dello spatium deliberandi previsto per legge ai fini della proposizione dell'eventuale impugnazione (cfr., Cass. II, n. 21589/2009, in Giust. civ., 2010, 3, 613, con nota di Morozzo Della rocca, 615 e s., ed in Resp. civ. e prev., 2010, 6, 1324, con commento di Musolino, 1327). Per la responsabilità di cui innanzi, ed in generale per quella del professionista legale, però, non è sufficiente far parte dello studio legale associato al quale appartenga il professionista in rapporto professionale con il cliente. L'associazione tra legali, più in generale tra professionisti, difatti, non si configura come centro autonomo di interessi dotato di propria autonomia strutturale e funzionale, né come ente collettivo, sicché, l'associato non assume la titolarità del rapporto con i clienti, in sostituzione ovvero in aggiunta al professionista associato (Cass. II, n. 15633/2006, in Danno e resp. 2007, 5, 538, con commento di Covucci). La ricostruita natura del rapporto intercorrente tra avvocato e cliente, nei più generali termini di contratto di prestazione d'opera intellettuale di tipo professionale, implica altresì che la mora del cliente nella corresponsione del compenso non sia tale da incidere sull'obbligo di diligenza al quale è tenuto contrattualmente il professionista, ex art. 2236 c.c., potendo l'inadempimento giustificare il recesso del professionista, che deve comunque avvenire senza pregiudizio per il cliente, ex art. 2237 c.c. (cfr., Cass. S.U., n. 2661/1997). In forza dei descritti rapporti, contrattuali, tra avvocato e cliente, secondo recente approdo della giurisprudenza di legittimità, il secondo riveste la qualità di «consumatore», ex art. 3 comma 1, lett. a) d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, anche se il rapporto è caratterizzato dall'intuitu personae e non si esplica in termini di contrapposizione bensì di collaborazione, non rientrando tali circostanze nel paradigma normativo di cui al citato art. 3. Così argomentando, Cass. VI-III, n. 1464/2014, ritiene che alla controversia tra cliente ed avvocato in tema di responsabilità professionale si applichino le regole sul foro del consumatore, di cui all'art. 33 comma 2, lett. u), del citato d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206. Sullo specifico punto, ad ulteriore conferma dell'approdo ermeneutico di cui innanzi, nel 2017 la Suprema Corte interviene in sede di regolamento di competenza. Essa difatti chiarisce che ove sia stata proposta domanda di risarcimento danni nei confronti di un avvocato, al quale una lavoratrice si era rivolta ai fini dell'instaurazione del passivo del fallimento di una ditta, della quale era stata dipendente, per crediti di lavoro, va affermata la qualità di “consumatore” in capo all'attrice e l'applicabilità del foro esclusivo, di cui all'art. 33 comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 206 del 2005. L'attività di lavoro dipendente, sia pubblico che privato, non è difatti qualificabile come “attività professionale”, prevista dall'art. 3 comma 1, lett. a), del citato d.lgs., che invece presuppone la prestazione autonoma di opera professionale intellettuale (Cass. VI-III, n. 6634/2017). Per converso, non rientra nella competenza del tribunale fallimentare l'azione per il risarcimento del danno da responsabilità professionale proposta dal fallimento nei confronti di un avvocato al quale il fallimento stesso abbia reiterato un incarico di recupero credito, già affidatogli dall'imprenditore ancora prima della dichiarazione di fallimento. Le azioni che dipendono da rapporti che già si trovavano nel patrimonio dell'imprenditore al tempo della dichiarazione di fallimento, che a questa dunque preesistevano e che si pongono con il fallimento in relazione di mera occasionalità, non sono difatti attratte nella particolare sfera di competenza del tribunale fallimentare. Tali sono le azioni che tendono a tutelare i diritti di credito vantati dal fallito nei confronti dei terzi e quelle con cui detti diritti debbano essere accertati o divenire oggetto di pronunce di condanna (Cass. I, n. 831/1999). Merita rilevare, sempre in termini di inquadramento generale dei rapporti tra avvocato e cliente, che la responsabilità del professionista legale è ipotizzabile anche sotto il profilo del «contatto sociale qualificato». La Suprema Corte ritiene difatti coerente con le esigenze di tutela del prestigio dell'ordine professionale l'osservanza delle norme deontologiche nei rapporti in genere, anche da «contatto sociale», con riferimento ai quali l'avvocato ottenga fiducia ed ingeneri l'affidamento nel terzo in ragione della spendita della sua qualità (Cass. S.U., n. 6216/2005). Tale approdo delle Sezioni Unite, ancorché in merito ad un giudizio di responsabilità disciplinare per fatti commessi in assenza di un rapporto professionale, potrebbe avere ripercussioni rilevanti in tema di responsabilità professionale (contrattuale da «contatto sociale») dell'avvocato, più in generale del professionista legale, proprio in applicazione della suddetta teoria, come avviene con riferimento alla responsabilità professionale del medico, ove rileva anche il «contatto sociale» meramente fortuito ed informale intercorso tra medico e paziente. La rilevanza di detto «contatto» è ribadita di recente in materia di responsabilità professionale da Cass. III, n. 19670/2016 che, in continuità con consolidato orientamento, conferma il principio per il quale ogni intervento del medico non può avere un contenuto diverso da quello avente come fonte un comune contratto d'opera professionale. Ne consegue dunque cha anche il «contatto sociale» meramente fortuito ed informale intercorso tra medico e paziente è idoneo a fondare, sussistendone tutti i presupposti, la responsabilità professionale (di natura contrattuale). In applicazione di tale principio, in particolare, la Suprema Corte qualifica in termini di «contratto» il rapporto instauratosi a seguito del comportamento di un medico di base che, nel corso di un incontro occasionale con un suo assistito in procinto di partire per il Kenia, aveva suggerito una profilassi antimalarica, poi rivelatasi inefficace. Nella specie il Giudice di legittimità conferma la statuizione di merito di esclusione della responsabilità del medico per la morte dell'assistito, causata dalla malaria, ma solo in considerazione della aderenza della profilassi consigliata ai principi della buona pratica medica. Ricondurre ipotesi come quella di cui innanzi, caratterizzate da contatto sociale meramente fortuito ed informale intercorrete, per quanto rileva ai presenti fini, tra avvocato e cliente, nell'ambito della responsabilità contrattuale (da contatto sociale) ovviamente incide in merito al regime applicabile ad essa in ragione delle differenze tra la disciplina della responsabilità contrattuale e quella della responsabilità extracontrattuale. La responsabilità extracontrattuale difatti, presuppone, sul piano soggettivo, la capacità di intendere e di volere del danneggiante, mentre tale capacità non è richiesta per configurare la responsabilità da inadempimento (art. 2046 c.c.); il debitore colposamente inadempiente gode della limitazione del risarcimento al danno prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione (art. 1225 c.c.), mentre il danneggiante aquiliano è tenuto a risarcire tutti i danni arrecati nell'ipotesi di illecito doloso ma anche colposo (argomentabile dall'art. 2056 c.c.). L'autore dell'illecito aquiliano gode altresì di un regime di riparto dell'onere probatorio più favorevole rispetto al debitore, dovendo il danneggiato aquiliano provare il fatto illecito e non dovendo il creditore provare l'inadempimento ma solo allegarlo (oltre che provare il titolo). Il creditore non ha l'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, dovendo quest'ultimo provare il diligente (perito e prudente) adempimento ovvero la causa esterna, mentre sul danneggiato aquiliano grave l'onere di provare la colpa dell'autore del fatto illecito (salve ipotesi di responsabilità per colpa presunta od oggettiva). Differente è, infine, il regime della prescrizione, cinque anni nel caso di diritto al risarcimento danni da fatto illecito, ex art. 2947 c.c., e dieci anni per il diritto al risarcimento del danno da inadempimento, ex art. 2946 c.c. (sulla distinzione dei due regimi, con particolare riferimento alla responsabilità professionale del medico, si veda, di recente, diffusamente, Spaziani, 2). Natura e contenuto: dall'obbligazione di mezzi a quella di risultatoDalla natura contrattuale del rapporto tra avvocato e cliente ne discende la natura altrettanto contrattuale della relativa responsabilità, con riferimento all'inadempimento delle nascenti obbligazioni che, normalmente, sono di mezzi e non di risultato. Il professionista, assumendo l'incarico, si impegna ad espletare la sua attività ponendo in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito ma non il conseguimento effettivo di tale risultato. Nelle obbligazioni di mezzi, difatti, la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, il quale, quindi, adempie esattamente ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto (nel caso di prestazioni professionali, non solo prudente e diligente ma anche perita). In tali ipotesi è lo stesso comportamento del debitore ad essere in obbligazione, sicché la diligenza (nella specie, anche la perizia) è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo. Ne consegue altresì che il risultato è caratterizzato dalla aleatorietà in quanto dipendente dal comportamento del debitore ma anche da altri fattori esterni, oggettivi o soggettivi (in termini, con particolare riferimento alla prestazione professionale avente ad oggetto in progetto di ingegneria, Cass. S.U., n. 15781/2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 828, con nota di Viglione, in Contratti, 2006, 349, con nota di Tedeschi-Taddei, e in Riv. trim. app., 2007, 275, con commento di Tecce; nello stesso senso, sempre con riferimento alla prestazione d'opera intellettuale di tipo professionale avente ad oggetto un progetto di ingegneria, più di recente, Cass. II, n. 28575/2013 oltre che, in materia di responsabilità professionale medico-chirurgica, Cass. III, n. 8826/2007, in Resp. civ. e prev., 2007, 1824, con commento di Gorgoni, 2007, 1824, ed in Riv. it. mec. leg., 2008, 3, 848, con commento di Fiori-Marchetti). Per converso, nelle obbligazioni di risultato ciò che rileva è il conseguimento di esso, laddove la diligenza opera quale parametro di valutazione e controllo del comportamento del debitore, sicché è il risultato al quale mira il creditore ad essere dedotto in obbligazione e non il comportamento del debitore (Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.). Con particolare riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale, e, quindi, anche a quella gravante in capo all'avvocato in forza del contratto di patrocinio o di clientela, occorre però tenere conto, come precisa la citata Cass. S.U., n. 15781/2005, della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista (in ipotesi anche in capo a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale), le quali possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre. Questa considerazione, in aggiunta ad argomentazioni dottrinali contrarie alla detta distinzione, conduce la giurisprudenza ad una rivisitazione della struttura del rapporto obbligatorio anche con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale ed alla conseguente responsabilità professionale (Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.). La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è difatti superata, in precedenza, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già in forza di un arresto delle Sezioni Unite del 2001, che conferma la centralità del principio della vicinanza della prova, senza distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato (Cass. S.U., n. 13533/2001, in Nuova giur. civ. comm., 2002, 3, 349, con commento di Meoli, ed in Corr. giur., 2001, 12, 1565, con commento di Mariconda). Con particolare riferimento proprio alla responsabilità professionale, nella specie della struttura ospedaliera per danno da emotrasfusione, la rilevanza pratica della distinzione tra le due tipologie di obbligazioni è invece erosa in virtù di un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite del 2008 (Cass. S.U., n. 577/2008, in Giur. it., 2008, 10, 2197, con nota di Cursi, ibi 2008, 7, 1653, con nota di Ciatti, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 612, con commento di De Matteis, in Resp. civ. e prev., 2008, con commento di Gorgoni, 2008, 1002, in Danno e resp., 2008, 10, 1002, con commento di Gazzara, ibi 2008, 7, 788, con commento di Vinciguerra, ibi 2008, 8-9, 871, con commento di Nicolussi). Per le Sezioni Unite da ultimo citate, in particolare, l'impostazione tradizionale fondante sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. In realtà, precisa Cass. S.U., n. 577/2008, cit., in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità. Operandosi, invero, non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso, definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio (per un esempio di tale attività giurisprudenziale si veda, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico, Cass. III, n. 9471/2004, in Riv.it. med. leg., 2005, 6, 1141, con commento di Pecora, ed in Danno e resp., 2005, 1, 30, con commento di De Matteis). Sotto il profilo dell'onere della prova, prima del doppio intervento nomofilattico delle Sezioni Unite (nel 2001 e nel 2008), la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) era utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l'onere della prova che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza, e che nelle obbligazioni di risultato, per converso, incombesse debitore l'onere della prova che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile. L'impostazione di cui innanzi, anche sotto tale ultimo profilo, è rivista dalla giurisprudenza (anche accogliendo prospettazioni di attenta dottrina). La Suprema Corte, difatti, afferma che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c., in materia di responsabilità contrattuale, in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito, è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che si domandi il risarcimento per inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., senza che rilevi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, quindi anche nascente da contratto di prestazione d'opera intellettuale, in virtù del principio da ultimo citato, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento. Identico criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. Nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, parimenti al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento. Dopo aver affermato il principio di diritto che precede le Sezioni Unite precisano che esso trova un limite nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento (Cass. S.U., n. 13533/2001, cit.). Sicché, proprio in applicazione del suddetto principio della vicinanza della prova, che, come detto, prescinde dalla dogmatica distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quello causa (o concausa) efficiente del danno. Quanto appena detto comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare dunque che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, cit.). Quanto detto in merito all'obbligazione nascente in capo al professionista in forza del rapporto (contrattuale) con il cliente ed in ordine all'erosione della rilevanza della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, implica che, per valutare l'adempimento da parte dell'avvocato, necessita muovere dal criterio della diligenza esigibile ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. che, in quanto rapportata alla natura dell'attività esercitata, è quella del professionista di preparazione tecnica e di attenzione medie. L'art. 2236 c.c. prevede poi una specifica qualificazione della prestazione d'opera professionale, quale deroga alle norme generali che disciplinano l'inadempimento, giustificata dalla natura e dal contenuto della prestazione in esame, sempre che essa comporti la soluzione di questioni tecniche di particolare difficoltà. In tali casi, difatti, la responsabilità del professionista sussiste solo nei caso di dolo e colpa grave. La peculiare descritta natura dell'obbligazione gravante in capo al professionista, in ragione del decritto rapporto con il cliente, impone all'avvocato di prospettare al cliente tutti gli elementi contrari per i quali, nonostante il corretto svolgimento dell'attività professionale, gli effetti a questa conseguenti possano essere inferiori a quelli previsti, ovvero nulli o sfavorevoli. Il professionista deve difatti porre il cliente nella condizione di decidere consapevolmente, sulla base di un'adeguata valutazione di tutti gli elementi ragionevolmente prevedibili, favorevoli e contrari, se affrontare i rischi connessi all'attività richiesta. Sicché, la valutazione in ordine all'adempimento della prestazione da parte del professionista legale non attiene al mero accertamento del mancato raggiungimento del risultato utile da parte del cliente ma implica un'indagine volta a verificare l'eventuale violazione dei doveri connessi allo svolgimento dell'attività professionale. L'obbligo di diligenza da osservare, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., impone difatti all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, anche ai doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione del cliente. Egli è tenuto quindi a rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi. Il professionista è altresì tenuto a solleticare il cliente ad esplicitargli gli elementi utili in suo possesso oltre che a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole (ex plurimis, limitando i riferimenti alle più recenti, Cass. III, n. 7410/2017). A tal fine, per la Suprema Corte, in ragione della natura contrattuale della responsabilità in esame, incombe sul professionista l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta. L'onere di cui innanzi non è altresì assolto dalla dimostrazione del rilascio delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, essendo esse inidonee a fornire la prova circa la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (cfr., ex plurimis, Cass. II, n. 14597/2004, in Giur. it., 2005, 7, 1401, con commento di Perugini, 1402, nonché, in Temi rom., 2005, 1-2, 101, con nota di Carbone; Cass. III, n. 7410/2017). Nel senso per il quale l'inadempimento del professionista alla propria obbligazione (anche se di mezzi), non possa essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato avuto di mira dal cliente ma valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale, in base al parametro non del criterio del buon padre di famiglia bensì della commisurazione della diligenza alla natura dell'attività esercitata e, quindi, al professionista di media attenzione e preparazione, si veda anche Cass. III, n. 2836/2002 (in Resp. civ. e prev., 2002, 6, 1373, con commento di Facci, 1376, si veda altresì, Cass. III, n. 7410/2017). La dottrina tradizionale riconduce quella dell'avvocato nell'abito della categoria delle obbligazioni di mezzi e non di risultato, facendone discendere la natura di responsabilità di tipo soggettivo fondata sulla colpa (D'Amico, 105). Ne consegue la riconducibilità della mancata realizzazione del risultato a causa non imputabile al debitore, sul quale graverebbe il solo onere probatorio di dimostrare la condotta diligente e perita (in quanto adottata in base a cognizioni tecniche inerenti la qualificazione professionale posseduta), in base alla natura dell'attività intellettuale richiesta ed alle relative regole dell'arte. Con particolare riferimento all'attività giudiziale, si precisa, il professionista non è tenuto a vincere la causa, in ragione del libero convincimento del giudice che caratterizza l'esito del processo (Favale, 2002, 73, il quale ritiene ce la promessa da parte dell'avvocato della realizzazione del risultato per la quale vi è conferimento dell'incarico, in ipotesi anche la vittoria processuale, potrebbe anche comportare la diversa qualificazione della prestazione professionale in termini di promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c., con conseguente obbligo di indennizzare il contrante nel caso di mancato compimento del fatto promesso, Calderone-Cresta, 520; in termini generali, per l'utilità della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, si veda, diffusamente, Trimarchi). Altra dottrina, che sembra progressivamente informare la giurisprudenza anche in tema di responsabilità professionali, assume invece posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato (al di là della rilevanza dogmatica e classificatoria). Essa, ancorché operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), origina contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista. La distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato non si fonderebbe quindi sulla diversità di oggetto delle obbligazioni, assistendosi ad una scissione tra interesse primario del creditore e risultato dovuto dal debitore, concretizzandosi nel comportamento idoneo al raggiungimento del risultato voluto dal creditore, con l'unica effettiva differenza da individuarsi nella sola diversa identificazione dei temi di prova dell'inadempimento (Mengoni, 185-280; Piraino, 2008, 115; Piraino, 2011, 576). In generale, quindi, anche con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale ma non solo, autorevole dottrina, ritenendo che non sussistano obbligazioni con riferimento alle quali il debitore debba assicurare il risultato a prescindere dalla diligenza dallo stesso esigibile, essendo la diligenza regola generale del diritto delle obbligazioni, sostiene che la distinzione tra le due obbligazioni rilevi sull'oggetto del giudizio d'impossibilità della prestazione ex art. 1218 c.c. Nelle obbligazioni di mezzi, in particolare, il debitore sarebbe liberato nel caso di impossibilità della specifica attività dedotta in obbligazione (sempre strumentale al soddisfacimento dell'interesse/risultato creditorio). Per converso, nelle obbligazioni di risultato la liberazione del debitore consegue alla prova dell'impossibilità della realizzazione della finalità dedotta in obbligazione mediante qualunque condotta strumentale ad essa esigibile dal creditore (Bianca, Diritto civile, Milano, 1993, Vol. IV, 74). Argomentando nei detti termini, l'orientamento da ultimo considerato, conclude nel senso che anche nelle obbligazioni nascenti da contratto di prestazione d'opera intellettuale, il fine del creditore, dedotto in obbligazione, non si identifica nella mera conformità della condotta del debitore alle regole di diligenza e di perizia del tecnico di media attenzione e preparazione bensì nelle conseguenze positive per il cliente che dovrebbero derivare dall'opera secondo un nesso di derivazione naturale, nel rispetto delle regole dell'arte ed in assenza di fattori imprevedibili ed inevitabili tali da rendere impossibile il conseguimento del risultato (Castronovo, 117-121, per il quale è necessaria valorizzazione del criterio della diligenza, quale regola tecnica del professionista medio, Di Majo, 40). Distingue, invece, l'incarico specifico dall'incarico aspecifico altra parte della dottrina per la quale, nel primo caso (nel quale si fa rientrare l'impugnazione di una sentenza ovvero la dichiarazione in seno ad un'asta giudiziale) l'avvocato assumerebbe, normalmente, un'obbligazione di risultato, essendosi impegnato al compimento del determinato atto, mentre nel secondo caso assumerebbe un'obbligazione di mezzi (Fabrizio, 1999, 443, il quale, con riferimento alle obbligazioni di mezzi da incarico aspecifico, si esprime in termini di «obbligazione di risultato in senso professionale»; in generale, sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, si veda, anche con riferimento all'origine francese della distinzione, Viney, 628; sempre circa la generale distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, si vedano, tra i tanti: De Lorenzi, 397; Mengoni, 185-280, e Sicchiero, 2322, il quale, dopo attenta disamina delle contrapposte tesi dottrinali, anche francesi, circa la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, con particolare riferimento alle attività professionali – anche del sanitario – propone una ricostruzione alternativa che si fonda sulla diversa distinzione tra obbligazioni governabili ed obbligazioni non governabili; per il dialogo dottrinal-giurisprudenziale circa la natura dell'obbligazione del professionista, tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato, con particolare riferimento alle conseguenza in tema di riparto dell'onere probatorio, si veda Scalia-Centofanti, 242). Diligenza e perizia, c.d. obblighi intermedi e limitazione di responsabilità In tema di responsabilità professionale la relazione tra gli artt. 1176 e 2236 c.c. è di integrazione per complementarietà e non già per specialità, cosicché vale come regola generale quella della diligenza del buon professionista (art. 1176, comma 2, c.c.), con riguardo alla natura dell'attività prestata. Nel caso in cui la prestazione implichi invece la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera la successiva norma dell'art. 2236 c.c., delimitando la responsabilità professionale al dolo o alla colpa grave e non anche alla colpa lieve (Cass. III, n. 499/2001, in Giur. it., 2003, 3, 460, con commento di Spinelli Francalanci). Sicché, solo attraverso l'integrazione delle due citate norme potrà operarsi una valutazione complessiva della condotta dell'avvocato. Con particolare riferimento, poi, ai parametri di cui al citato art. 2236 c.c., la limitazione di responsabilità opera solo ove il caso concreto richieda un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio, con conseguente presupposizione di preparazione e dispendio di attività anche esse superiori alla media. Altrimenti l'avvocato risponderebbe anche per colpa lieve, perdendo, di conseguenza, anche il diritto al compenso, ex art. 1460 c.c. Sicché, come precisa la S.C., l'onere di dimostrare la sussistenza di quel quid pluris che potrebbe comportare un'attenuazione della responsabilità incombe in ogni caso sul professionista. Il riferimento è, in particolare a Cass. II, n. 5928/2002, che, nella specie, esclude la spettanza del compenso al professionista ritenendo sussistente la sua responsabilità professionale nella gestione di una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, per aver omesso di indicare la data dell'udienza di comparizione nella copia notificata dell'atto di opposizione e per aver omesso di citare un teste in una prova delegata. In tale sentenza si fa riferimento, in merito alla diligenza dell'avvocato ex art. 1176 c.c., al parametro del buon padre di famiglia anche se, nella sostanza, si applica quello del professionista di media attenzione e preparazione, laddove si evoca, in ordine alla responsabilità per colpa grave ex art. 2236 c.c., la necessità di provare da parte del professionista che la risoluzione del problema implichi un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio (Cass. II, n. 5928/2002, in Giur. it., 2003, 3, 461, con commento di Spinelli Francalanci, cit., in Danno e resp., 2003, 7, 753, con commento di Benedetti, ed in Danno e resp., 2003, 1, 853 con nota di Bonetta). La giurisprudenza di legittimità chiarisce però che la limitazione della responsabilità alla sola colpa grave (oltre che al dolo), di cui all'art. 2236 c.c., opera con riferimento al solo parametro della perizia. Ciò è esplicitamente affermato, proprio in tema di responsabilità dell'avvocato, da Cass. III, n. 6937/1996, la quale precisa che la detta limitazione, per la ratio stessa che la ispira, non trova applicazione ai danni ricollegabili a negligenza ed imprudenza, essendo essa circoscritta, nei limiti considerati, ai casi di imperizia ricollegabili alla particolare difficoltà di problemi tecnici che l'attività professionale, in concreto, renda necessario affrontare. Argomentando nei detti termini la Suprema Corte, nella specie, esclude l'applicabilità della menzionata norma in ordine ad un comportamento di un avvocato che, pur avendo ricevuto dal proprio assistito un foglio in bianco contenente una procura, aveva omesso di impugnare il licenziamento intimato dall'assistito, così cagionandogli danni ritenuti risarcibili per comportamento negligente, peraltro considerato anche grave dal giudice di merito. Negli stessi termini la Suprema corte si pronuncia con riferimento alla responsabilità professionale del medico e del notaio (con particolare riferimento alla responsabilità professionale del medico si vedano Cass. III, n. 4797/2007, Cass. III, n. 9085/2006, in Corr. giur., 2006, 7, 914, con commento di V. Carbone, e Cass. III, n. 6464/1994, in Giur. it., 1995, 5, 790, con commento di Venturello, in Nuova giur. civ. comm., 1995, 6, 1197, con commento di Orru, in Corr. giur., 1995, 1, 91, con commento di Batà, ed in Rass. Dir. civ., 1996, 2, 342, con commento di Carusi; con particolare riferimento alla responsabilità professionale del notaio si veda, Cass. III, n. 22398/2011, in Vita not., 2012, 1, 71, con commento di Amendolagine). L'operatività della limitazione della responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. alla sola ipotesi dell'imperizia, è avallata anche dalla Consulta (Corte cost. n. 166/1973). Essa, nel non ritenere fondata, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare, precisa che il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d'opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha difatti in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti. La limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., alle sole ipotesi di dolo o colpa grave in caso di prestazione implicante risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, riguarda soltanto la competenza tecnica, applicandosi, di conseguenza, alle sole ipotesi di imperizia e non anche di imprudenza e negligenza (Zana, 1991, 4; Zana, 1987, 162, il quale evidenzia che l'art. 2236 c.c. integra la codificazione di una regola giurisprudenziale consolidatasi nella vigenza del precedente codice, facendo riferimento anche a Cass. S.U., 8 marzo 1937, in Resp. civ. e prev., 1937, 314; Perulli, 592, che evidenzia la necessità, nell'applicazione delle norme di cui all'art. 2236 c.c., di considerare l'esistenza di specializzazioni in determinate materie; negli stessi termini, in precedenza, Pensa, 39). Tale limitazione non opera, peraltro, nel caso di professionista generico che consapevolmente, nella risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, non consulti il professionista specialista, salvo che la stessa difficoltà non sia riconoscibile del professionista medio o nona sia possibile ricorrere allo specialista ovvero che la difficoltà comunque sussista anche per i professionisti di livello superiore a quello medio (Cattaneo, 76). La stessa definizione di speciale difficoltà, riferita ai problemi tecnici di cui al citato art. 2236 c.c., non è definibile in termini generali ed astratti ma solo con riferimento al caso concreto ed in merito alla qualificazione soggettiva del professionista (Giacobbe, 1084). Sicché, il rapporto tra le due norme, gli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., deve intendersi in termini non di specialità bensì di complementarietà, cioè nel senso che le due norme si integrerebbero. Qualora le due norme fossero in rapporto di specialità, della seconda rispetto al parametro generale della diligenza professionale media rapportata alla specifica attività da espletare, per parte della dottrina si correrebbe il rischio di creare una sorta di privilegio per il professionista legale, rispetto agli altri professionisti, finendo addirittura con il comportare il rischio di considerare problemi tecnici di particolare difficoltà anche l'attività di semplice scelta della strategia difensiva nonché di interpretazione (Favale, 2014, 841, Conte, Contrasti 1089, Benatti, 186, Spinelli Francalanci, 460, Foffa, 1115; per l'evoluzione dottrinal-giurisprudenziale in merito alla natura dell'obbligazione del professionista legale ed ai rapporti tra gli artt. 1176 e 2236 c.c. si veda Fortinguerra, 717). All'esito della disamina di cui innanzi si può sostenere che il descritto processo giurisprudenziale di erosione della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, perlomeno il suo inizio e lo sviluppo dopo i citati interventi delle Sezioni Unite (nel 2001, nel 2005 e nel 2006), si avverte anche con riferimento alla materia della responsabilità dell'avvocato, ancorché, in stadio ancora in corso di evoluzione. In tale materia si tende difatti sovente ad ampliare il catalogo delle condotte strumentali al risultato finale per il cliente considerate prive di margini di discrezionalità, valorizzando sempre più gli obblighi (c.d. intermedi) di informazione, sollecitazione e dissuasione nonché, in generale, di adeguata condotta processuale. Con particolare riferimento ai c.d. obblighi intermedi e di adeguata condotta processuale, la giurisprudenza, pur evidenziando che l'obbligazione dell'avvocato è, di regola, di mezzi, precisa che la responsabilità del professionista presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art. 1176 comma 2, c.c. che, nel caso di adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né ridotta quando tali modalità siano state sollecitate dal cliente stesso. Costituisce difatti compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale. A quanto detto si aggiunge la circostanza per la quale l'avvocato è tenuto ad assolvere, sia all'atto del conferimento dell'incarico che nel corso dello svolgimento del rapporto, non solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai doveri di sollecitazione e di dissuasione dello stesso oltre che a sconsigliare il cliente dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Nei termini di cui innanzi si esprime, tra le più recenti, Cass. III, n. 10289/2015, che, in applicazione del principio, conferma la sentenza di merito che aveva ritenuto ininfluente, ai fini della responsabilità professionale, la condivisione del cliente della scelta di chiamare in garanzia un terzo, sebbene il diritto da tutelare fosse prescritto, come poi puntualmente eccepito dal terzo chiamato (cfr., Cass. III, n. 10289/2015 in Giur. it., 2015, 11, 2321, con nota di Sicchiero). Nello stesso senso Cass. II, n. 20869/2004, ancorché con riferimento alla diversa fattispecie inerente la responsabilità dell'avvocato per aver esposto il cliente alla soccombenza nelle spese. In applicazione del detto principio, in particolare, la Suprema Corte conferma la sentenza impugnata avendo essa accertato la responsabilità professionale dell'avvocato per aver questi proposto una domanda di risarcimento danni per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell'art. 96 c.p.c., dinanzi ad un giudice diverso da quello che aveva deciso la causa di merito. L'impostazione di cui innanzi opera anche per l'ipotesi di orientamenti ermeneutici contrastanti, essendo l'avvocato tenuto ad operare, nell'adempimento delle proprie obbligazioni ancorché di mezzi, con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, al fine di assicurare che la scelta professionale ricada sulla soluzione tale da tutelare maggiormente il cliente e non tale da danneggiarlo. Sicché, argomenta Cass. III, n. 4790/2014, ove una soluzione giuridica, pure opinabile ed eventualmente non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dall'avvocato, sia stata tuttavia riaffermata dalle Sezioni Unite della Corte regolatrice, il professionista non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, della prevedibile applicazione dell'orientamento ermeneutico da cui pur dissente. Nella specie, si trattava di intervento della Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 10143/2012) con riguardo alla validità della notifica della sentenza presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario, in mancanza di elezione di domicilio della controparte nel circondario in cui aveva sede l'autorità adita, ai fini della decorrenza del termine breve per l'impugnazione del provvedimento. Il difensore non si era adeguato tempestivamente alla riaffermazione del detto principio, dopo un'oscillazione giurisprudenziale nel periodo 2009-2011, modificando idoneamente l'elezione di domicilio o, perlomeno, doverosamente verificando che nella cancelleria della Corte di Appello non vi fosse stata alcuna notifica della sentenza. La Suprema Corte ritiene, nella specie, esigibile da parte dell'avvocato uno dei due descritti comportamenti, in forza della chiarezza ed univocità del dictum delle Sezioni Unite, peraltro di diversi mesi anteriore alla pubblicazione della sentenza a rischio di notificazione. La condotta (alternativa) ritenuta esigibile sarebbe in ipotesi anche corrispondente ad una diligenza minimale per qualunque avvocato incaricato della rappresentanza in giudizio di una parte soccombente. Neanche la precedente oscillazione giurisprudenziale, peraltro rimasta solo a livello di sezioni semplici nonché, come detto, risolta dalle Sezioni Unite, avrebbe invero potuto esimere l'avvocato dall'adozione della descritta condotta diligente di maggior cautela o tutela per il suo cliente. Quanto detto si argomenta proprio dall'applicazione del principio per il quale, in presenza di un contrasto giurisprudenziale, è dovere del difensore agire cautelativamente, in base all'interpretazione della norma, ancorché in ipotesi da lui non condivisa, che comporterebbe maggiori rischi per il cliente (Cass. S.U., n. 10143/2012, cit.). Sempre sull'assunto in forza del quale le obbligazioni inerenti l'esercizio dell'attività professionale di avvocato sono, di regola, di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo, la giurisprudenza specifica il parametro della diligenza oltre che i rapporti tra gli artt. 1176 e 2236 c.c. Ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato, dall'art. 1176, comma 2, nella diligenza del professionista di media attenzione e preparazione, da commisurare alla natura dell'attività esercitata, e non il criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia. La Suprema Corte, in applicazione del menzionato principio, precisa in particolare che rientra nella ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine. Non ricorre tale incertezza, aggiunge Cass. III, n. 18612/2013, con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176 comma 2 c.c. e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell'art. 2236 c.c., nel caso in cui l'incertezza riguardi non gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine ma il termine stesso, a causa dell'incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. L'opinabilità stessa della soluzione giuridica impone al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione di maggiore tutela per i clienti e, quindi, è tenuto ad un comportamento (introduzione del giudizio o compimento di atti interruttivi idonei) che sia riferito alla decorrenza del termine più breve. La Suprema Corte precisa altresì che la dedotta esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all'applicabilità del termine di prescrizione, in caso di mancata proposizione della querela, peraltro diacronico e permanente solo sino all'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite del 2008, non esime il professionista dall'obbligo di diligenza richiesto dall'art. 1176 c.c. La compresenza di approdi giurisprudenziali non collimanti, difatti, non può assurgere ad esimente della colpa grave dell'avvocato, salva la differente ipotesi di overruling. Da intendersi, quest'ultimo, quale mutamento giurisprudenziale nell'interpretazione di una norma o di un sistema di norme inatteso o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, tra i quali un pur larvato dibattito dottrinale o un qualche significativo intervento giurisprudenziale sull'argomento, e sino a quando esso possa ancora reputarsi tale, in forza dell'onere di costante informazione sullo stato della giurisprudenza gravante in capo all'avvocato (cfr., Cass. III, n. 18612/2013, in Giur. it., 2014, 4, 841, con nota di Favale, 2014, 841, in Giur. it., 2014, 4, 843, nonché in Danno e resp., 2013, 11, 1089, con nota di Conte, Contrasti, 1091). Il principio è riaffermato da una recentissima sentenza di legittimità per la quale, in ipotesi di incertezza giurisprudenziale in ordine al computo del termine di prescrizione del diritto del cliente (nella specie al risarcimento del danno), il mancato compimento da parte dell'avvocato di atti interruttivi con riferimento al termine più breve, ancorché in concreto non operante in forza di un successivo intervento delle Sezioni Unite della Corte regolatrice, implica violazione dell'obbligo di diligenza richiesto dall'art. 1176, comma 2, c.c. Nella specie Cass. III, n. 3765/2007, ritiene esente da critiche la sentenza impugnata che aveva ravvisato negligenza dell'avvocato nel non aver compiuto atti interruttivi, con scansione temporale infrabiennale, del diritto al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli, ancorché integrante illecito penale ma con giudizio penale non promosso per difetto di querela, in quanto al tempo di espletamento del mandato la questione di interpretazione dell'art. 2947 c.c. era ancora assai controversa, essendosi poi susseguite ben tre pronunce delle Sezioni Unite. Sempre con riferimento alla responsabilità per omessa interruzione della prescrizione del diritto del cliente si vedano, in precedenza ma in termini significativi, Cass. II, n. 10454/2012 e Cass. II, n. 24764/2007. Per la sentenza da ultimo citata gli atti interruttivi, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine (nella specie escludendo la validità quale atto interruttivo della notificazione di una querela sporta da difensore alla controparte). Il medesimo orientamento è altresì ribadito dalla Suprema Corte che ravvisa responsabilità professionale per comportamento negligente in capo all'avvocato che ometta di attivare tempestivamente la pretesa risarcitoria del proprio assistito, con conseguente decorso del termine di prescrizione del credito verso taluni dei condebitori solidali. Tale comportamento, difatti, per Cass. III, n. 11907/2006, è fonte di danno risarcibile ex art. 1223 c.c., consistente nella perdita della possibilità di soddisfarsi agendo contro più coobbligati, e, quindi, di agire direttamente nei confronti di quelli presumibilmente più solvibili (nella specie, la compagnia assicuratrice rispetto alla persona fisica in caso di credito derivante da sinistro stradale). Il riferimento al suddetto parametro del «professionista medio», da commisurarsi alla natura dell'attività esercitata, e non dell'« uomo medio », porta la giurisprudenza a configurare la responsabilità professionale, per mancata possibilità del cliente di esperire il mezzo di impugnazione a cagione della mancata indicazione nell'atto di appello della data di udienza, in capo a due codifensori, con pari poteri e doveri. Il primo, per aver redatto l'atto di appello privo del detto elemento fondamentale, ed il secondo, per non averlo neppure sommariamente esaminato prima di procedere alla sua notificazione (Cass. II, n. 6967/2006). La Suprema Corte precisa altresì che, nell'ipotesi di cui innanzi, invero, la responsabilità dei professionisti trova fondamento anche nella semplice colpa lieve, posto che la prestazione non correttamente eseguita non implica nel caso concreto la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ex art. 2236 c.c., e che, ai fini del nesso causale, nella specie non necessita la prova della certezza dell'accoglimento del gravame, qualora fosse stato ritualmente proposto. È invece sufficiente la mera dimostrazione, alla stregua di parametri probabilistici, che, senza il comportamento negligente del professionista, il risultato auspicato dal cliente sarebbe stato conseguito, alla stregua di una indagine di merito incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, con conseguente possibile liquidazione del danno in via equitativa. Provata l'esistenza del danno è difatti possibile far ricorso alla sua liquidazione equitativa non solo nel caso di impossibilità di una precisa stima del danno ma anche quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa (Cass. II, n. 6967/2006, cit.). Versa in colpa grave, per violazione della minima diligenza professionale, in termini di obbligo di informazione, l'avvocato che ometta di comunicare al cliente l'avvenuta notificazione della sentenza di condanna, fino a far decorrere il termine per impugnare. In applicazione del principio di cui innanzi, Cass. III, n. 8312/2011 cassa, per vizio di motivazione, la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza della responsabilità professionale del difensore in forza dell'apodittica affermazione che non sussistevano ragioni sufficienti «a rendere accoglibile un'impugnazione, sia in fatto sia in diritto» (nella specie, di una sentenza di condanna al pagamento delle spese processuali per rigetto della domanda di risarcimento danni a seguito di sinistro stradale). La citata pronuncia evidenzia altresì che la mancata indicazione al giudice delle prove indispensabili per l'accoglimento della domanda costituisce, di per sé, manifestazione di negligenza del difensore, salvo che egli dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile (art. 1218 c.c.) o di avere svolto tutte le attività che, nella particolare contingenza, gli potevano essere ragionevolmente richieste. Nel far ciò occorre però considerare che, in ogni caso, rientra nei doveri di diligenza professionale non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza ma anche che il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione del giudice. Sicché, è necessario che l'assistito sia indirizzato e guidato dal difensore, il quale deve fornirgli tutte le informazioni necessarie, pure al fine di valutare i rischi insiti nell'iniziativa giudiziale anche al fine di sollecitare il cliente a comunicargli eventuali soggetti da escutere quali testimoni (Cass. III, n. 8312/2011, cit., in Il giudice di pace, 2012, 1, 21, con commento di Amoroso, 23). In applicazione del principio di cui innanzi, la Suprema Corte cassa la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità professionale del difensore, il quale, in un giudizio risarcitorio a seguito di sinistro stradale, aveva chiesto fissarsi l'udienza di precisazione delle conclusioni senza aver dato corso alle prove sulle modalità del fatto, sulla responsabilità e sull'entità dei danni, reputando, erroneamente, che gravasse sul cliente l'onere di provare di aver fornito al difensore la lista testimoniale, là dove, invece, era onere di quest'ultimo dimostrare di aver sollecitato adeguatamente il cliente a siffatta comunicazione (Cass. III, n. 8312/2011, cit.; per lo specifico obbligo c.d. intermedio di informazione si vedano anche, ex plurimis: Cass. III, n. 7410/2017; Cass. II, n. 5617/1996, per la quale la responsabilità del professionista può discendere anche dalla mancata informazione resa al cliente in merito all'impossibilità di espletare l'attività di cui al mandato, oltre che nel caso di mancato espletamento dell'attività o dello svolgimento parziale di essa). La negligenza però, anche nel caso in cui si sostanzi nell'omessa citazione di un testimone, per fondare responsabilità professionale deve essere idonea ad incidere sugli interessi del cliente in termini di pregiudizio di chance di vittoria in giudizio. Per Cass. II, n. 11304/2012, in particolare, l'eccezione d'inadempimento, ai sensi dell'art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale (nella specie, omettendo di citare un testimone), purché si provi l'idoneità della condotta nei termini di cui innanzi, ritenendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove non sia pregiudicata la chance di vittoria in giudizio (nel caso concreto, essendo comunque avvenuta l'audizione del testimone non citato). Oltre ad informare il cliente in merito alle conseguenze del compimento o del mancato compimento di atti, anche processuali, l'avvocato deve, se lo richieda il caso concreto, sollecitare il loro compimento ovvero dissuaderlo dalla loro esecuzione, gravando su di lui obblighi di sollecitazione e di dissuasione (ex plurimis, limitando i riferimenti alle più recenti, Cass. III, n. 7410/2017). Sicché, la mancata informazione del cliente al proprio avvocato in merito alla sua intenzione di proporre o non proporre impugnazione avverso una sentenza sfavorevole non esclude la responsabilità del professionista per mancata tempestiva proposizione dell'appello, salvo che egli non abbia provveduto ad informare il cliente sulle conseguenze dell'omessa impugnazione (Cass. III, n. 24544/2009). Informazione, sollecitazione e dissuasione, come detto, sono obblighi che caratterizzano la diligenza alla quale è tenuto il professionista legale, essendo però egli tenuto anche ad un obbligo di fedeltà. Non può difatti essere assunto, posteriormente, altro incarico contrastante con l'interesse di chi, per primo, ripone nell'avvocato la propria fiducia ed ha, quindi, il diritto di affidarsi al rispetto di essa, potendo tale condotta essere foriera di responsabilità (non solo eventualmente penale ex art. 381 c.c. ma anche) civile per violazione del dovere di fedeltà. In tali termini si esprime Cass. I, n. 1846/1974, per la quale la responsabilità per violazione dell'obbligo di fedeltà prescinde altresì dalla circostanza che le pretese dei due clienti del medesimo avvocato siano autonome e distinte. Quanto detto accade (come nella specie) nel caso in cui il conducente di una vettura coinvolta in un incidente stradale ed il terzo trasportato, per ottenere il ristoro dei danni sofferti, conferiscano incarico allo stesso avvocato, il quale da un canto interviene presso la società assicuratrice nell'interesse del conducente, dall'atro agisce in giudizio contro quest'ultimo, nell'interesse del trasportato. Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone difatti all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole (ex plurimis: Cass. III, n. 19520/2019). A al fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello "jus postulandi", stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass. II, n. 14597/2004). In applicazione del principio di cui innanzi la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata che, senza una plausibile spiegazione alternativa, aveva ritenuto l'avvocato esente da responsabilità, sebbene nel seguire i profili penalistici del protesto per tre cambiali subito dal proprio cliente, non gli avesse segnalato la necessità di richiederne la cancellazione, neppure informandolo sull'opportunità di intraprendere iniziative in ambito civile e in ogni caso, di rivolgersi ad un avvocato civilista, ove si fosse reputato non professionalmente capace in tale ambito (Cass. III, n. 19520/2019). Sempre in merito al contenuto dell'obbligo di diligenza la giurisprudenza di legittimità, soprattutto nel corso degli ultimi anni, è intervenuta a più riprese non solo ribadendo orientamenti in merito già assunti ma specificandoli oltre che portando ad ulteriori conseguenze le relative argomentazioni, da ultimo anche collegandolo alla causa concreta del contratta tra cliente e professionista. Con particolare riferimento all'obbligo del professionista di operare con la tecnica dovuta in base al tipo di attività effettuata, in particolare, è configurabile l'imperizia dell'avvocato allorché ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero commetta errori nella risoluzione di questioni giuridiche prive di margine di opinabilità. Con particolare riferimento alla perizia nella scelta della strategia processuale da seguire la Suprema Corte precisa che tale scelta è suscettibile di fondare responsabilità professionale alla stregua non di una valutazione che prescinda dal concreto esito del giudizio, dovendo il giudice di merito valutare l'inadeguatezza della scelta difensiva al raggiungimento dello scopo perseguito dal cliente ex ante e non ex post, cioè sulla base dell'esito del giudizio. Resta comunque esclusa la responsabilità in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità, con riferimento al caso di specie o in astratto, tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale, ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente (cfr., Cass. III, 11906/2016). La diligenza professionale deve esplicarsi, all'insegna dei descritti obblighi c.d. intermedi, anche qualora si tratti di attività stragiudiziale ed anche nell'ipotesi di mancata procura alle liti. Ciò può verificarsi, in ipotesi, nel caso di mandato conferito al professionista legale per recupero crediti, senza conferimento di formale procura ad litem. In tale circostanza, difatti, il professionista è comunque obbligato, nell'ambito del fedele e regolare espletamento dell'incarico, ad informare tempestivamente il cliente del proprio intendimento di non promuovere l'azione giudiziaria, in modo da porlo in condizioni di evitare decadenze e prescrizioni (Cass. II, n. 2694/1978). Il Professionista è altresì tenuto, dopo aver provveduto ad insinuare il credito del cliente al passivo di un fallimento, a proporre opposizione allo stato passivo, dal quale il cliente è escluso, ovvero ad informare l'assistito di tale suo modus operandi, in modo da metterlo in condizione di evitare di incorrere in decadenza, ove intenda dissentire dal parere (Cass. I, n. 3958/1969). Circa il detto collegamento con la causa concreta del contratto stipulato tra professionista e cliente rileva quanto di recente statuito da Cass. III, 8494/2020. L'Avvocato, in particolare, è tenuto all'esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., e della buona fede oggettiva o correttezza la quale, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio. L'impegno imposto dall'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza, dovendo essere correlato alle condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto e alla qualità dei soggetti coinvolti, è da valutarsi alla stregua della causa concreta dell'incarico conferito al professionista che, pertanto, è tenuto a fornire le necessarie informazioni al cliente, anche per consentirgli di valutare i rischi insiti nell'iniziativa giudiziale. Ne consegue che l'omessa comunicazione al cliente dell'interruzione del processo e della possibilità di riassunzione, fino a far decorrere il relativo termine massimo con conseguente estinzione del giudizio, costituisce fonte di responsabilità professionale del difensore. In applicazione del principio, la citata statuizione della Suprema Corte ha considerato esente da critiche la sentenza che, ritenuta l'omessa comunicazione fonte di responsabilità, aveva rigettato la domanda risarcitoria per l'assenza di prova del danno conseguenza dell'omissione. Tra gli obblighi professionali dell' avvocato vi è però quello di sollecitare il cliente a consegnargli la documentazione necessaria all'espletamento dell'incarico, il cui adempimento è onere dell'avvocato medesimo provar e . Sicché, Cass. III, n. 15271/2023, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva negato la responsabilità di u n avvocato per aver ritardato la proposizione di un ricorso ex art. 700 c.p.c. – con conseguente rigetto di quest'ultimo per carenza del presupposto del "periculum in mora" -, sul presupposto che il cliente non avesse dimostrato la tempestiva consegna al legale della documentazione necessaria per l'instaurazione del procedimento. Con riferimento agli obblighi c.d. intermedi, il rispetto del dovere di correttezza implica che l'avvocato sia tenuto ad analizzare le possibilità di vittoria al fine di consigliare al cliente di intraprendere una azione giudiziale, e, quindi, sussisterebbe già, per parte della dottrina, nella fase precontrattuale ed ai sensi dell'art. 1175 c.c. (Santoro Passarelli, 25, Cattaneo, 90; si veda anche Martini, 894, con particolare riferimento alla rilevanza della violazione da parte dell'avvocato di regole deontologiche, tra le quali la correttezza, ai fini del giudizio di responsabilità professionale). Concluso il contratto di patrocinio, invece, il detto dovere si sostanzia anche nell'informare il cliente circa l'andamento del processo e, più in generale, in merito a ciò che necessiti per il buon fine del giudizio o, comunque, per la migliore tutela degli interessi dell'assistito, implicando ciò l'obbligo di astensione dal curare interessi contrastanti (Gabrielli, 271, Barca, 489). Con particolare riferimento allo specifico obbligo di informazione, gravante in capo al professionista legale nei confronti del proprio cliente, esso sussisterebbe prima, durante e dopo lo svolgimento dell'incarico professionale, sia giudiziale che stragiudiziale (Martinuzzi, 95). La sua fonte sarebbe ravvisabile tanto nel dovere di diligenza professionale, ex art. 1176 comma 2, c.c., quanto in quello di buona fede nella fase precontrattuale, art. 1337 c.c., ed in quella contrattuale, art. 1375 c.c. Con la precisazione che avrebbe comunque natura contrattuale la responsabilità del professionista per non aver informato il cliente dell'infondatezza delle sue ragioni, in quanto accertamento prodromico rispetto alla valutazione circa il probabile accoglimento dell'azione giudiziale da promuovere e, quindi, anche esso nascente da obbligazione da contratto di prestazione d'opera professionale (in tali ultimi termini, si vedano: Fortino, 103, per la riconducibilità del detto obbligo agli artt. 1176, 1337 e 1375; Trazzi, 47, più in generale, sullo lo specifico obbligo di informazione gravante in capo al professionista legale; Fabrizio, 2003, 256, e, per specifiche ipotesi applicative, Fortinguerra, 713). Sempre in merito al contenuto dell'obbligazione del professionista, in considerazione dalle norme deontologiche della professione di avvocato oltre che dalle fattispecie penalistiche di cui agli artt. 348,380 e 382 c.p., si argomenta nel senso del rispetto da parte dell'avvocato, nell'espletamento dell'incarico ricevuto, non solo delle norme regolanti il rapporto di prestazione d'opera professionale con il suo cliente ma anche delle norme di diritto pubblico sottese al funzionamento della giustizia. Potendo quindi concorrere ipotesi di responsabilità civile con ipotesi di responsabilità penale del professionista legale (Masucci, 482, Ricciardi, 479). La recente Cass. VI-III, n. 56/2021 , conferma quanto già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità in merito agli aspetti della diligenza professionale ed al riparto dell'onere probatorio. Essa difatti conferma che dall'incarico professionale sorge in capo all'avvocato l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., che gli impone di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) i doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe sul professionista l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente, al riguardo, dovendo ritenersi il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello jus postulandi, attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (si punto si vedano, ex plurimis: Cass. III, n. 19520/2019, la quale, nella specie, ha cassato la sentenza impugnata che, senza una plausibile spiegazione alternativa, aveva ritenuto l'avvocato esente da responsabilità, sebbene nel seguire i profili penalistici del protesto per tre cambiali subito dal proprio cliente, non gli avesse segnalato la necessità di richiederne la cancellazione, neppure informandolo sull'opportunità di intraprendere iniziative in ambito civile e in ogni caso, di rivolgersi ad un avvocato civilista, ove si fosse reputato non professionalmente capace in tale ambito; Cass. III, n. 24544/2009; Cass. II, 14597/2004). Nella specie, ove si addebitava all'avvocato di non aver prodotto nel giudizio arbitrale le fatture attestanti il pagamento di una ulteriore tranche del prezzo d'appalto, la citata ordinanza n. 56 del 2021, premesso quanto innanzi, ha ritenuto che l'eventuale esistenza di pagamenti (e dell'eventuale relativa documentazione) in favore della società controparte del giudizio arbitrale costituisse circostanza per nulla marginale da verificare nell'adempimento, da parte dell'avvocato, della prestazione professionale richiesta, in quanto si trattava proprio di resistere alla domanda di quella società, che assumeva essere creditrice della parte assistita dal detto avvocato. Sicché, nella specie, è stata ritenuta rientrante le prime e più banali informazioni che, nella preliminare impostazione della strategia difensiva e nel corso della sua successiva attuazione, il difensore avrebbe dovuto raccogliere dal cliente, quella volta ad appurare se egli avesse effettuato dei pagamenti in acconto, per quale ammontare e se ne conservasse la relativa documentazione. Correlativamente, in base al suesposto principio, e secondo il generale criterio di riparto dell'onere della prova in tema di responsabilità da inadempimento (Cass. Sez. U, n. 13533/2001), era onere dell'avvocato, evocato in giudizio per responsabilità professionale, dar prova di avere diligentemente operato in tal senso ed allegare e dimostrare, dunque, che la tardiva produzione nel giudizio arbitrale di quella documentazione fosse dipesa da fatto a lui non imputabile, eventualmente rappresentato dalla condotta dello stesso cliente che, in ipotesi, richiesto di dare notizie in merito all'esistenza di pagamenti parziali, avesse omesso di darne alcuna indicazione, o avesse dato risposta negativa, o che ancora, richiesto di consegnare prova documentale di tali pagamenti, avesse omesso o tardato a darla. Nella specie, evidenzia la Suprema Corte, dell'esistenza o prova di tali allegazioni difensive da parte dell'avvocato non vi era traccia nella sentenza impugnata. Il Giudice di merito, per converso, si era limitato a rilevare la circostanza che il cliente attore in risarcimento non avesse dato prova di avere consegnato la detta documentazione al proprio legale. Alla stregua del richiamato principio, però, l'onere in capo al cliente di dar prova di ciò sarebbe scattato (alla stregua di una controprova) solo se e in quanto il difensore avesse dedotto e dimostrato di avere informato dell'importanza di una tale eventuale documentazione e, avuta contezza della sua esistenza, gliene avesse invano fatto richiesta. In mancanza, dunque, di alcun accertamento in tal senso, la decisione di merito è stata ritenuta, sul punto, ispirata ad una erronea regola di giudizio e va pertanto cassata. C.d. responsabilità da parere Esempio emblematico di come la prestazione d'opera intellettuale alla quale è tenuto l'avvocato, in forza del rapporto con il cliente, risenta della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista, le quali possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre, è costituito dalla c.d. responsabilità professionale da parere. Come innanzi chiarito, difatti, quella dell'avvocato è un'obbligazione solo normalmente di mezzi, potendo, in determinati casi, assumere il contenuto proprio di un'obbligazione di risultato, come nel caso in cui il professionista accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere, preordinato o meno ad una successiva attività giudiziale, stante la latitudine dell'attività consultiva (cfr., ex plurimis, Cass. II, n. 16023/2002, in Danno e resp., 2003, 3, 256, con nota di Salvatore). In tal caso la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi bensì di risultato, in quanto il professionista si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. L'opus richiesto rappresenta di per se stesso la realizzazione dell'interesse perseguito dal cliente con il conferimento dell'incarico, che si identifica nell'ottenere dal tecnico gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni per adottare consapevoli decisioni, quali esiti ponderarti di rischi e di vantaggi. Sicché, precisa Cass. II, n. 16023/2002 cit., in applicazione del parametro della diligenza professionale, di cui all'art. 1176 comma 2, c.c., sussiste la «responsabilità da parere» dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, così omettendo di adempiere all'obbligo di informazione, esponendo peraltro il cliente ad una soccombenza nelle spese in caso di esperimento dell'azione. Il fondamento di tale responsabilità può rinvenirsi anche nella colpa (grave o lieve) per mancata prospettazione di tali questioni, frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali ovvero per incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione. Ciò è suscettibile di verificarsi nel caso di omessa indicazione in un parere stragiudiziale della circostanza per la quale il diritto che il cliente intendeva far valere in giudizio era prescritto, con conseguente mancato approfondimento in merito all'eventuale sussistenza di elementi e circostanze in grado di contrastare l'eventuale eccezione di prescrizione. In tale situazione, in realtà, la responsabilità dell'avvocato potrebbe prospettarsi non solo sotto il profilo dell'omessa informazione ma anche in relazione ai doveri di dissuasione e di sollecitazione (Cass. II, n. 16023/2002, cit.). Il professionista, difatti, nel far presente al cliente la possibilità di un'eccezione di prescrizione, deve prospettare l'inopportunità dell'esperimento di un'azione destinata al probabile esito sfavorevole o, quanto meno, richiedere al cliente l'eventuale comunicazione di circostanze idonee a contrastare l'eventuale eccezione di prescrizione e la disponibilità di prove a riguardo, procedendo, quindi ad un'ulteriore disamina per eventualmente conformare, agli esiti di essa, il parere. Tali profili di inadempimento, inerenti la descritta obbligazione di risultato afferente all'attività stragiudiziale, devono intendersi verificati prima dell'introduzione del giudizio, non dovendo confondersi l'adempimento dell'«obbligazione da parere» con l'adempimento dei doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione in corso di causa. Sicché gli sviluppi del giudizio sono irrilevanti essendosi, di fatto, verificata la condizione di rischio colpevolmente non prospettata dall'avvocato al cliente, con già avvenuta lesione dei diritti del cliente all'informazione ed alla consequenziale consapevole decisione di promuovere o meno l'azione. Essi non devono confondersi con l'adempimento dei doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione in corso di causa. Per tali motivi, precisa altresì La Suprema Corte, non rilevano le, successive, modalità di svolgimento della difesa in corso di causa, in forza degli evidenziati iniziali inadempimenti in fase stragiudiziale (Cass. II, n. 16023/2002, cit.). Danno: nesso di causalità e riparto dell'onere probatorioPer la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, la responsabilità (per inadempimento) del prestatore d'opera intellettuale, nella specie professionale dell'avvocato, per negligente o imperito ovvero imprudente svolgimento dell'attività professionale, presuppone la prova del danno e del nesso eziologico tra la condotta del professionista (da intendersi «inadempimento», in caso di responsabilità contrattuale) ed il pregiudizio del cliente (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. III, n. 1121372017, in materia di prestazione d'opera professionale avente ad oggetto la cura della contabilità fiscale). In tema di nesso causale oltre che di riparto dell'onere probatorio, con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, la giurisprudenza è in attuale continua evoluzione verso l'applicazione delle comuni regole caratterizzanti la responsabilità contrattuale e non extracontrattuale anche se, come di seguito esplicitato, il percorso è ancora in itinere. Con riferimento al nesso causale, difatti, si assiste al passaggio dal criterio della «certezza degli effetti della condotta» (c.d. criterio della «certezza morale») al criterio della «ragionevole certezza» per poi ricorrere a criteri probabilistici. Allo stato, però, non risulta ancora formale applicazione, con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, del criterio cardine che governa l'accertamento del nesso eziologico in materia civile, cioè quello della «causalità naturale», anche detto «del più probabile che no», che, invece, informa la giurisprudenza di legittimità anche con riferimento ad altri settori della responsabilità professionale ed in particolare a quella del sanitario. In merito al riparto dell'onere probatorio sembra invece che la giurisprudenza di legittimità tenda, anche nello specifico settore della responsabilità professionale dell'avvocato, a fare applicazione del fondamentale principio della «vicinanza della prova», ancorché, allo stato, non ancora allo stesso livello evolutivo già raggiunto con riferimento ad altri settori della responsabilità professionale, tra i quali, ancora una volta, quello della responsabilità medica. Nel dettaglio, per il (superato) criterio della certezza degli effetti della condotta, l'affermazione della responsabilità professionale dell'avvocato, implica un'indagine sul sicuro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e, più in generale, la certezza che la diligente e perita condotta del professionista (attiva o omissiva, giudiziale o stragiudiziale) avrebbe comportato effetti vantaggiosi per il cliente o non ne avrebbe comportati di svantaggiosi. In tal senso, si veda, per tutte, Cass. III, n. 3848/1968, per la quale, essendo l'obbligazione non di risultato ma di mezzi avente ad oggetto la prestazione dell'attività professionale, il cliente, che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni subiti a seguito dell'inizio di un'azione giudiziaria dopo la scadenza del termine di prescrizione e commisurati al valore del diritto che sarebbe stato riconosciuto nel caso di accoglimento della domanda, deve provare che quest'ultima sarebbe stata con certezza accolta se tempestivamente proposta. Deve quindi provare che il rigetto della domanda sia dipeso, con rapporto di causa ad effetto, dall'irregolarità della prestazione dell'attività professionale. Da tanto consegue che il giudice di merito, una volta accertato che la tardiva proposizione della domanda sia dipesa dalla colpa del difensore, è tenuto ad esaminare, ai fini della condanna del medesimo al risarcimento dei danni, se la domanda avrebbe dovuto essere accolta, ove proposta nel termine. Al criterio della «certezza morale», quale mera variante terminologica del criterio della certezza degli effetti della condotta, si rifà la successiva giurisprudenza di legittimità, affermando che l'accertamento della responsabilità dell'avvocato implica l'indagine positiva sul sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, quindi, la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente (cfr., Cass. I, n. 3958/1969, Cass. II, n. 2230/1973, Cass. II, n. 1831/1977) Il passaggio della «certezza» a criteri probabilistici percorre, ancorché timidamente, la strada della «ragionevole certezza». In applicazione di questo criterio, il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni, nella specie che egli assume subiti a seguito della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, non può limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole ma deve dimostrare l'erroneità della pronuncia in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la «ragionevole certezza» che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto (cfr., Cass. III, n. 722/1999, la giurisprudenza contribuisce alla progressiva erosione del criterio della certezza della condotta facendo riferimento, prima di accedere all'attuale criterio probabilistico, alla «ragionevole certezza»). Progressivamente il detto criterio è sostituito dalla giurisprudenza di legittimità con quello, attuale, che fa perno sulla probabilità degli effetti e dell'idoneità della condotta a produrli. Esso si fonda sull'assunto (che invero caratterizza il ragionamento probatorio critico-inferenziale) per il quale non occorre, in particolare, che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva. è difatti sufficiente che l'operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, le cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo le regole di esperienza colte dal giudice per giungere all'espresso convincimento circa la probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto con quello accertato (cfr., ex plurimis, Cass. V, n. 2895/2013, Cass. II, n. 22656/2011, che argomentano negli stessi termini delle precedenti sentenze fondanti nonché consolidanti il principio, tra le quali: Cass.S.U., n. 9961/1996, Cass. I, n. 9717/1991 e Cass. II, n. 2790/1985). L'ultimo approdo ermeneutico in tema di causalità nella responsabilità per colpa professionale dell'avvocato richiede infatti una valutazione prognostica probabilistica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita. Tale giudizio da parte del giudice di merito implica una valutazione in diritto, in quanto fondata su una previsione probabilistica di contenuto tecnico-giuridico. Così argomentando, Cass. III, n. 3355/2014 chiarisce che il giudizio di cui innanzi è riservato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato ed immune da vizi logici, in quanto nel giudizio di cassazione la detta valutazione, ancorché in diritto, assume i connotati di un giudizio di merito, con la conseguenza che la Suprema Corte non può essere chiamata a controllarne l'esattezza in termini giuridici. In applicazione del principio probabilistico, ove anche risulti provato l'inadempimento del professionista alla propria obbligazione per negligente o imperito svolgimento della prestazione (dovendo egli provare l'esatto adempimento o l'impossibilità di esso per cause a lui non imputabili ex art. 1218 c.c.), la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare il nesso di causalità, sia materiale che giuridico. Necessita in particolare la prova che l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta dell'avvocato, che un danno vi sia stato effettivamente e che, ove il professionista avesse tenuto il comportamento dovuto, l'assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivante. Per le argomentazioni di cui innanzi si veda, ex plurimis, Cass. III, n. 2638/2013. Essa, con riferimento ad un'omessa proposizione di impugnazione, ha escluso la responsabilità dell'avvocato per essere stata accertata la riconducibilità dell'omessa proposizione del gravame ad incuria dello stesso cliente, in quanto messo in condizioni comunque di esperire l'impugnazione mediante altro avvocato, peraltro già contattato ed al quale avrebbe potuto consegnare la necessaria documentazione in quanto in suo possesso. Sicché, come chiarito da Cass. III, n. 2109/2024, ai fini dell'accertamento di un danno risarcibile derivante dall'inadempimento dell'obbligo di informazione dell'esito sfavorevole del giudizio di primo grado, che ha determinato l'impossibilità di proseguire il giudizio in sede di impugnazione, deve essere effettuata una valutazione prognostica sull'esito che avrebbe potuto avere l'impugnazione preclusa dall'omessa informazione, da svolgersi sulla base della prevedibile strategia difensiva (anche alla luce delle eccezioni proposte e delle difese svolte nel primo grado di giudizio) e della possibilità di ottenere un risultato favorevole (anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia. Per il riferimento al criterio probabilistico nell'accertamento del nesso causale si veda, in precedenza, anche Cass. III, n. 2836/2002, per la quale l'inadempimento del professionista alla propria obbligazione, di risultato, non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato avuto di mira dal cliente ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale, in base al parametro del professionista di media attenzione e preparazione. Il danno derivante da eventuali omissioni, però, intanto è ravvisabile in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (sempre secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici). Negli stressi termini Cass. III, n. 9238/2007 (in Giust. civ., 2008, 9, 2017, con commento di Sabatini). Essa ribadisce l'innanzi evidenziato criterio di riparto dell'onere probatorio e conferma la sentenza impugnata che aveva ritenuto la non certezza ma anche l'impossibilità di accertare che la domanda potesse essere accolta, posto che non era dato conoscere quali fossero esattamente le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto deporre. Quanto detto, anche in termini di riparto dell'onere probatorio, vale tanto per il caso di adempimento mancato quanto per quello di inesatto adempimento. L'attore, difatti, provato il titolo e dedotto l'inadempimento per condotta negligente o imperita, è sempre tenuto a provare di aver sofferto un danno causato dalla «difettosa» prestazione professionale, non potendosi esso presumere dalla mera negligenza o imperizia del professionista (Cass. II, n. 11901/2002). In tal senso si veda anche Cass. II, n. 6537/2006 che, in applicazione del principio di cui innanzi in materia di riparto dell'onere probatorio e di accertamento del nesso causale, conferma la condanna di un avvocato al risarcimento del danno cagionato al proprio cliente relativamente alla detenzione di un mese e diciassette giorni, da questi subita a seguito della mancata attivazione della procedura inerente alla rimessione in termini per proporre gravame (si veda, più di recente, Cass. III, n. 12280/2016, sempre in tema di risarcimento del danno da responsabilità professionale dell'avvocato per la maggiore detenzione subita a causa della tardiva impugnazione). Dalla natura contrattuale della responsabilità in esame discende però, provato il titolo (contrattuale) da parte del cliente e dedotto l'inadempimento per condotta (attiva od omissiva) imperita o negligente, che grava in capo al professionista fornire la prova del proprio adempimento o dell'impossibilità di esso, anche attraverso la prova di aver assolto gli obblighi (c.d. intermedi) di informazione, sollecitazione e dissuasione. L'onere di cui innanzi non è però soddisfatto dalla dimostrazione del rilascio delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, essendo esse inidonee a fornire la prova circa la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass. II, n. 14597/2004, in Temi rom., 2005, 1-2, 101, con nota di F. Carbone, cit., ed in Giur. it., 2005, 7, 1401, con commento di Perugini, cit.). Con particolare riferimento alla responsabilità omissiva, occupante una rilevante percentuale di ipotesi di responsabilità professionale dell'avvocato, i principi probabilistici di cui innanzi sono coordinati con i concetti di causalità ipotetica ed enunciato controfattuale (di derivazioni penalistiche). Nella causalità cd. omissiva (anche detta normativa o ipotetica), in particolare, il giudice, in forza della clausola generale di equivalenza prevista dall'art. 40 c.p., è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli dal contratto di prestazione d'opera professionale di avvocato, secondo le regole di avvedutezza e diligenza che devono guidare l'homo eiusdem condicionis ac professionis. Da quanto innanzi la Suprema Corte, anche nel settore della responsabilità civile, ne trae che il ragionamento del giudice sul rapporto causale, adeguato e logicamente coerente, deve, basarsi su regole di natura probabilistica tali da consentire una generalizzazione sul nesso di condizionamento omissione/evento nel senso che, se l'azione doverosa fosse intervenuta, l'evento dannoso si sarebbe evitato, sicché, essendosi per converso verificato, esso può essere oggettivamente imputato (causalità normativa) alla condotta omissiva che, così, viene a costituire l'antecedente necessario dell'evento. Ne consegue, ancora, che il giudice, partendo dalla condotta del (presunto) responsabile, connotata da colposa inadempienza, dovrà svolgere una inferenza probabilistica, motivata ed analitica, di sussistenza del legame causale tra condotta esaminata ed evento prodottosi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica deve poi necessariamente passare attraverso l'enunciato «controfattuale», che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe assicurato apprezzabili probabilità di evitare (o, comunque, di ridurre significativamente) il danno lamentato dal contraente adempiente. Nei termini di cui innanzi si vedano, ex plurimis, Cass. II, n. 21894/2004, con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato per assenza dello stesso sin dall'udienza di acquisizione delle prove, con conseguente assenza di attività argomentativa, nonché una decisione del 1998 che, sempre con particolare riferimento alla causalità omissiva, richiama il principio probabilistico, in uno con il principio penalistico dell'equivalenza delle cause exartt. 40 e 41 c.p., nel caso di avvocato che, costituitosi nel processo penale parte civile per l'offeso, non aveva informato il proprio cliente dell'udienza dibattimentale, con conseguente dichiarazione di decadenza della costituzione, e non aveva citato i testimoni ammessi sulla dinamica dell'incidente occorso al suo assistito, con assoluzione dell'imputato (Cass. III, n. 1286/1998, in Nuova giur. civ. comm, 1999, 3, 358, con commento di Lepre; si vedano altresì, per il riferimento alla causalità omissiva in altre materie della responsabilità civile: Cass. III, n. 2085/2012 che, nella specie, relativa al danno riportato dal dipendente di un'impresa scivolato sui gradini di una scala priva di corrimano, la cui istallazione è obbligatoria ex art. 16 del d.P.R. n. 547 del 1955, cassa la sentenza di secondo grado, ritenendo assolto dal danneggiato l'onere della prova con la dimostrazione degli elementi costitutivi del fatto; Cass. III, n. 15709/2011, la quale, alla stregua del principio di cui innanzi, cassa la sentenza del giudice di merito che, in relazione ai danni subiti da un'allieva infortunatasi a scuola nel corso della lezione di educazione fisica durante un esercizio ginnico, non aveva compiutamente valutato la possibilità dell'insegnante di avvedersi dell'anomalia nell'esecuzione dell'esercizio e di intervenire per evitare od attenuare le conseguenze dell'errore dell'allieva). Con particolare riguardo al quantum di probabilità, Cass. III, n. 11548/2013 fa riferimento all'elevata probabilità e non mera potenzialità di un pregiudizio economicamente valutabile, derivante dalla condotta, nella specie omissiva, del professionista legale. Nel caso di specie, infatti, in difetto di prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile, è stata rigettata la domanda volta a conseguire il risarcimento del «danno da perdita di chance» avanzata in relazione al comportamento omissivo di un professionista rispetto alla reiterazione di una domanda in sede di appello. La ricostruzione di cui innanzi evidenzia, come anticipato in premessa, che la giurisprudenza di legittimità, allo stato, rifacendosi a criteri probabilistici, ha in atto un percorso verso l'approdo, anche con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, al criterio della «causalità naturale», anche detto «del più probabile che no», che, invece, già informa la giurisprudenza di legittimità in tema di causalità nell'ambito civilistico ed in particolare con riferimento alla responsabilità professionale per attività medico-chirurgica. Si veda, ex plurimis, per l'applicazione del criterio del «più probabile che no» in materia di responsabilità professionale del sanitario, tra le più recenti, Cass. III, n. 11789/2016. Per essa l'affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova – che deve essere fornita dal danneggiato – della sussistenza di un valido nesso causale tra l'omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall'altro, «appaia più probabile che non» che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato, una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta (nello stesso senso, tra le tante: Cass. III, n. 12686/2011, in fattispecie analoga; Cass. III, n. 3847/2011, in Giust. civ., 2011, 7-8, 1719, con commento di Valore). In tema di causalità, difatti, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola di imputazione che, nel primo, si fonda sul canone del riscontro «oltre il ragionevole dubbio» (cfr., ex plurimis, Cass. pen. S.U., n. 30328/2002, in Cass. pen., 2003, 4, 1175, con commento di Blaiotta, 2003, ibi, 2002, 12, 3643, con nota di Massa, in Danno e resp., 2003, 2, 195, con commento di Cacace). Nel secondo opera invece la differente regola della «preponderanza dell'evidenza» o « del più probabile che no», stante la diversità del regime probatorio applicabile in ragione della differenza dei valori in gioco nel processo penale, tra accusa e difesa, e della sostanziale equivalenza di quelli in gioco nel processo civile, tra le parti processuali (cfr., ex plurimis, Cass.S.U., n. 576/2008, in Corr. mer., 2008, 6, 694, con commento di Travaglino, ed in Cass. pen., 2009, 1, 69, con commento di Blaiotta, 2009). La medesima evoluzione, ancora in fieri, si osserva nella giurisprudenza di legittimità in merito al riparto dell'onere probatorio ed in particolare verso la completa applicazione del principio della vicinanza della prova (prescindendo dalla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato), come evidenziato in premessa e nei paragrafi precedenti (per il detto principio, si veda, in termini generali ex plurimis, Cass.S.U., n. 13533/2001, cit.). Sicché, proprio in applicazione del suddetto principio della vicinanza della prova, l'attore che agisce contro l'avvocato per il risarcimento dei danni derivanti dall'esercizio della prestazione d'opera professionale, deve provare il titolo, cioè il contratto o il «contatto sociale», allegare l'inadempimento qualificato del professionista, cioè quello causa o concausa efficiente del danno, quindi idoneo a cagionarlo, oltre il nesso eziologico tra condotta (attivo od omissiva) danno evento e conseguenze dannose. Quanto detto comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare dunque che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, cit.). È forse, conclusivamente, proprio all'onere di allegazione di un inadempimento qualificato, nei detti termini, che potrebbe ritenere si rifacciano le pronunce della Suprema Corte che, con specifico riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, richiedono, da parte dell'attore, la prova della «difettosa» prestazione professionale (cfr., ex plurimis, Cass. II, n. 11901/2002 cit.) ovvero dell'esistenza di una condotta professionale erronea o comunque inadeguata (cfr., ex plurimis, Cass. II, n. 9238/2007 cit.). Con la precisazione, infatti, che l‘onere della prova della detta condotta professionale, erronea o inadeguata, grava (come per il nesso eziologico) in capo all'attore nel giudizio di responsabilità laddove risulti eseguita la prestazione professionale, gravando in capo al professionista l'onere di provare l'adeguatezza della prestazione ovvero che l'imperfetta esecuzione di essa sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore (Cass. II, 17871/2003, con riferimento a prestazione d'opera professionale ancorché non di natura legale, ma con riferimento ad un «contratto di monta» concluso tra imprenditore agricolo e veterinario). Il detto criterio di riparto non muta neanche in ragione dell'eventuale operare della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., gravando sul professionista debitore la prova della sussistenza dei presupposti per l'operabilità della norma di cui innanzi (ex plurimis: Cass. III, n. 24791/2008; Cass. III, n. 583/2005). La diligenza esigibile dal professionista o dall'imprenditore, nell'adempimento delle obbligazioni assunte nell'esercizio delle loro attività, è una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione a loro richiesta. Nella controversia concernente l'inadempimento contrattuale del professionista, pertanto, questi, per andare esente da un giudizio di condanna, ha l'onere di provare che l'insuccesso è dipeso da causa a lui non imputabile anche quando la prestazione richiestagli richiedeva la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, posto che problemi speciali esigono dal professionista una competenza speciale. Né a tale conclusione osta l'art. 2236 c.c., il quale non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse, limitandosi a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (ex plurimis: Cass. III, n. 16254/2012, con riferimento, in generale, alle prestazioni d'opera professionale e, in particolare, nella materia dell'appalto; più di recente, con particolare riferimento alla responsabilità professionale del notaio, Cass. III, n. 16990/2015). Nonostante rimanga immutato il riparto dell'onere probatorio comunque, acclarata la colpa del professionista, il rilievo che la prestazione eseguita comporta la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può essere compiuto d'ufficio dal giudice sulla base di risultanze istruttorie ritualmente acquisite, non formando oggetto di un'eccezione in senso stretto (Cass. III, n. 25746/2015). La domanda di risarcimento del danno, basata sulla colpa grave, peraltro, contiene quella per colpa lieve, senza che, pertanto, la pronuncia di condanna fondata su colpa lieve del professionista possa dar luogo a vizio di ultrapetizione (Cass. II, n. 8546/2005). Cass. III, n. 25778/2019 è intervenuta nella detta materia chiarendo ulteriormente il modo di caratterizzarsi del causale nella materia in esame oltre che del sottostante giudizio. In particolare la Suprema Corte muove dalla premessa per la quale secondo una costante regola giurisprudenziale, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici (si vedano, ex plurimis: Cass. II, n. 7309/2017; Cass. II, n. 25347/2010; Cass. IV, n. 6967/2006). La regola di cui innanzi però, precisa la detta decisione, se male intesa, rischia di trasformare, contro le sue stesse premesse, la responsabilità del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato. Se la negligenza dell'avvocato è causalmente rilevante quando ha fatto perdere la causa, o non ha fatto conseguire al cliente il risultato sperato (che sostanzialmente è la stessa cosa), si rischia quella trasformazione, posto che provare che la causa sarebbe andata vinta equivale a provare che il difensore ha mancato un risultato per sua colpa. Normalmente l'avvocato non deve difendersi dall'accusa di aver fatto perdere la causa; corre questo rischio se oggetto del giudizio diventa la perdita della probabilità che il cliente aveva di vincere. Come spesso accade alla giurisprudenza sulla chance, si sostituisce il danno effettivo (la perdita della causa) con un sostituto astratto (la probabilità di vincerla). La situazione di cui innanzi non è innocua, incidendo sull'accertamento del nesso di causa e sull'esito del giudizio. In realtà, prosegue Cass. III, n. 25778/2019, il sistema del “processo nel processo” obbliga il giudice a giudizi ipotetici di tipo controfattuale (quale sarebbe stato l'esito della causa se non ci fosse stata negligenza difensiva) ed a rifare fittiziamente il processo mancato, o quello in cui si è manifestata la negligenza del difensore. Fare un “processo al processo” ovviamente non è la stessa cosa che fare il processo direttamente (ad esempio, è solo fittiziamente che si può dire che le prove sarebbero state ammesse se fossero state richieste, o che se fossero state ammesse avrebbero determinato un risultato diverso). Tanto fittizio è il controfattuale che occorrerebbe dare per scontato anche l'esito concreto della prova testimoniale, come favorevole alla parte richiedente. Questo rischio è dovuto, tra l'altro, all'adozione, in questo ambito, del modello conoscitivo della chance, che consente di sostituire un evento di cui si pretende la certezza con altro di cui è sufficiente la probabilità. Sicché, la valutazione del giudice di merito deve evitare di attribuire al nesso causale la probabilità che è propria della chance: avere il 20% di vincere una causa è cosa diversa dal fatto che il difensore ha contribuito al 20% a far perdere la causa. Altra è la probabilità dell'evento, altra quella del nesso causale tra questo e la condotta del difensore. Dal ragionamento di cui innanzi la Suprema Corte deduce che l'indagine prognostica va effettuata sul tipo di domanda proposta dalla parte nel giudizio iniziale. Per stabilire se l'omissione dell'avvocato ha avuto una certa incidenza sul risultato, quindi, occorre necessariamente riferirsi, per l'appunto, al risultato sperato nel giudizio in cui è ipotizzata la colpa del difensore, che altro non è se non la domanda fatta in giudizio, ossia il bene della vita preteso dalla parte. Ciò implica ulteriormente che, ai fini della sufficienza del ricorso la parte deve indicare che domanda ha proposto nel giudizio in cui si sarebbe verificata la negligenza del difensore, indicazione del tutto omessa nella fattispecie, ma necessaria per poter verificare se la valutazione prognostica circa l'incidenza della omissione del difensore sull'esito, è corretta o meno. Va da sé che la verifica della incidenza della negligenza del difensore nell'altro giudizio va verificata in relazione alla domanda in quel giudizio proposta, e dunque al risultato sostanziale che la parte si era prefisso, per verificare se la condotta del legale ha probabilmente precluso il conseguimento di quel risultato. Non è invece ammissibile che il giudizio di probabile incidenza sull'esito della lite venga effettuato in base ad una domanda diversa da quella effettivamente fatta valere nel giudizio iniziale. La decisione in argomento, tuttavia, pone a suo fondamento anche altre ragioni specificatamente inerenti il controfattuale. Tale giudizio controfattuale (se il convenuto avesse agito nella maniera dovuta, il danno non si sarebbe verificato) è un giudizio sul nesso di causalità di tipo condizionalistico, poiché mira a stabilire se, eliminata mentalmente l'azione compiuta (o l'omissione) e sostituita con quella doverosa, l'evento si sarebbe verificato o se ne sarebbe verificato un altro. Per tale verifica può seguirsi la logica probabilistica, nel senso di ritenere sufficientemente provata l'efficienza causale se è probabile che, sostituita l'azione compiuta con quella doverosa, l'evento non si sarebbe verificato. Ciò, però, non cambia la natura del giudizio. Il giudizio controfattuale, infatti, conduce a comparare il caso reale (l'avvocato ha dimenticato di far assumere la prova) con quello ipotetico (cosa sarebbe successo se invece l'avesse fatta assumere), nel quale le circostanze, senza il fattore considerato, conducono al risultato il più probabile vicino al corso normale delle cose. Se questo risultato è analogo all'effetto reale, il fatto considerato (la negligenza del difensore) non ha alcuna incidenza causale. Se invece diverge (assumendo le prove si sarebbe avuto un esito diverso) si potrà ritenere l'efficacia causale del fatto considerato (l'omissione da parte del difensore) nella misura della differenza tra il risultato controfattuale e il risultato reale. Questa differenza, chiarisce la Suprema Corte in esame, è impropriamente definita da alcuni come chance, e a volte dalla stessa giurisprudenza, ma in realtà è la misura del nesso causale. Il controfattuale, è intuitivo, non mira a stabilire la percentuale di probabilità di vincere la causa da parte del cliente (chance), ma mira a stabilire il corso ipotetico degli eventi in presenza della condotta doverosa, e dunque il nesso di causa tra la condotta alternativa lecita e l'evento (sul punto si veda Cass. III, n. 5641/2018). Il ragionamento controfattuale, infatti, permette, nello stesso tempo in cui stabilisce una linea causale, di determinare gli effetti corrispondenti alla condizione considerata (l'assunzione delle prove). Nella specie, la Suprema Corte ha considerato rispettato lo schema di cui innanzi da parte della Corte territoriale, avendo quest'ultima ritenuto ininfluente la testimonianza nel giudizio iniziale, sul presupposto che il giudice di quel giudizio avesse basato la sua decisione esclusivamente sui documenti depositati in atti, cioè che quei documenti fossero sufficienti a fondare la decisione di rigetto (e dunque non ha considerato ai fini del decidere neanche le prove orali effettivamente assunte). La Corte di appello ha dunque nella specie escluso che la condotta alternativa lecita (ossia far assumere le prove – il controfattuale –), avrebbe consentito un esito favorevole. La dottrina condivide e sostiene l'orientamento giurisprudenziale per il quale la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale. Occorre difatti verificare, con onere probatorio gravante in capo al danneggiato, il nesso di causalità, ed in particolare che l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, che un danno vi sia stato effettivamente e che, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivante. Per taluni la detta impostazione opererebbe anche quale giusto contrappeso al favore del cliente sotto il profilo della valutazione della colpa, ritenuto particolarmente stringente (Conte, Profili, 189, Sburlati, 54, Michetti, 342; per un inquadramento generale sull'evoluzione dottrinal-giurisprudenziale circa il nesso di causalità nell'ambito della responsabilità professionale dell'avvocato, dalla «certezza morale» ai criteri probabilistici, si vedano Fortinguerra, 715, nonché, Scalia-Centofanti, 261-269, che evidenziano anche i passaggi logico-giuridici dell'approdo del danno da perdita di chance nell'ambito della responsabilità professionale, tanto dell'avvocato quanto del commercialista). Con particolare riferimento al riparto dell'onere della prova in dottrina si evidenzia come la giurisprudenza attuale, nonostante un'intervenuta evoluzione in materia dai tempi nei quali si pretendeva la prova dell'insufficiente o inadeguata attività del professionista, cioè dalla sua difettosa esecuzione della prestazione, finisca per non applicare pedissequamente alla responsabilità professionale dell'avvocato i criteri propri del riparto dell'onere probatorio inerenti la responsabilità contrattuale da inadempimento, in forza dei quali ex art. 1218 c.c. il creditore deve provare il titolo e dedurre l'inadempimento (qualificato) mentre il debitore deve provare l'adempimento o l'impossibilità di esso per cause a lui non imputabili (si veda Scalia-Centofanti, 255). Queste considerazioni sono spinte tanto da far ritenere, sempre in merito al riparto dell'onere probatorio, esistente di una sorta di equiparazione, nella specifica materia, della responsabilità contrattuale da inadempimento di obbligazioni di mezzi e responsabilità extracontrattuale (D'Amico, 130). Si prospetta, pertanto, l'applicazione, anche con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, del principio della «vicinanza della prova», in forza del quale la dimostrazione di determinati fatti deve essere fornita da chi è più vicino ad essi e, quindi, alla loro prova, che permea di sé la responsabilità contrattuale nonché già fatto proprio dalla giurisprudenza anche di legittimità con riferimento alla responsabilità professionale medica. Sicché, graverebbe in capo al cliente, in quanto creditore della prestazione professionale, l'onere di provare non solo il titolo ma anche il non raggiungimento del risultato ovvero la mancata tenuta della condotta (oltre che il danno ed il nesso eziologico) mentre graverebbe sull'avvocato, in quanto debitore della prestazione professionale, dimostrare l'esatto adempimento mediante la dimostrazione della diligenza e della perizia impiegare e della causa non imputabile (Fortino, 65). La dottrina pone in evidenza la necessità, sempre più sentita soprattutto dai giudici di merito ma anche dalla Suprema Corte, di adattare alle singole concrete fattispecie oggetto del contendere i principi della «presunzione di persistenza del diritto insoddisfatto e della «riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova», elaborati, in generale, in tema di inadempimento delle obbligazioni, ed in particolare con riferimento alla responsabilità per autolesione dell'alunno, in merito alla tutela reale per il lavoratore ingiustamente licenziato oltre che nella materia della responsabilità professionale. Muovendo dall'articolo 1312 del c.c. previgente ed analizzando l'attuale art. 2967 c.c. (quale disposizione in bianco), in relazione all'art. 24 Cost., si concorda con la circostanza per la quale il riparto dell'onere probatorio tra creditore-attore e debitore-convenuto debba ritenersi non «cristallizzato» sulla rigida posizione che gli stessi occupano nel rapporto giuridico obbligatorio ma, al contrario, debba ancorarsi alla concreta vicenda oggetto del contendere. Solo così argomentando il principio della riferibilità della prova può essere ricondotto, come insegna la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, all'articolo 24 Cost. che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio (Antezza, 2006, 6, 29). Rimane però il problema, evidenziato dalla detta dottrina, dell'«ancoraggio» della decisione del giudice in merito all'individuazione del soggetto «più vicino alla prova», a parametri non fissi ma comunque tali da non mettere in crisi un altro importante principio giuridico, quello della certezza del diritto. Esso, difatti, si pone a base del giudizio circa la ipotetica accoglibilità della domanda giudiziale che ogni soggetto deve (rectius: dovrebbe) effettuare prima di agire o resistere in giudizio. Per tale tesi, quindi, ci si deve chiedere se in ogni caso di obbligazioni di mezzi, coincidendo l'inadempimento con il difetto di diligenza e/o di perizia, la prova sia sempre «vicina» a chi debba eseguire la prestazione. Ci si deve quindi domandare se, perlomeno in alcuni casi, vi sia spazio per opinare diversamente sempre muovendo dalle circostanze concrete, ricordando che l'articolo 24 Cost., oltre a sancire il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, invocato a giustificazione dell'applicazione dei citati principi in tema di riparto dell'onere probatorio, dispone che la difesa, anche del debitore professionista-convenuto, è diritto inviolabile. Tale diritto rischierebbe quindi di divenire di «impossibile o troppo difficile esercizio» qualora si «cristallizzasse» l'onere della prova dell'adempimento in capo al professionista a prescindere da una attenta considerazione del caso concreto (Antezza, 2006, 6, 29; per il riparto dell'onere probatorio nelle prestazione d'opera professionale, in particolare in merito alla responsabilità medica per «danno da nascita oltre la volontà del genitore», si veda anche Antezza, 2006, 7-8, 15). Il «danno da perdita di chance»La responsabilità professionale in generale è terreno elettivo per l'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance, anche con riferimento alla responsabilità dell'avvocato. La teorizzazione in esame risente anche dell'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione e prova del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione del professionista dedotta in contratto e danno, più in generale tra condotta ed evento, che evidenzia l'approdo del criterio della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale». Quanto detto contribuisce ad evidenziare l'esigenza di superamento della concezione tradizionale del «criterio della certezza degli effetti della condotta» (compresa la sua variante della «ragionevole certezza») e segna l'approdo del criterio della probabilità degli effetti di essa e dell'idoneità della stessa a produrli (si veda supra). In tema di illecito civile, difatti, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti. Il primo volto ad identificare – in applicazione del criterio del «più probabile che non» – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno, il secondo essendo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili. Accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica. Come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da chance perduta, quindi, l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale «di funzione», cioè probatoria, del «più probabile che non». In tal senso si veda, ex plurimis, Cass. III, n. 21255/2013, la quale però fa riferimento al danno da «chance» perduta da intendersi nella specie come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile, concludendo, in applicazione del criterio di cui innanzi, nel senso che la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa – e migliore – possibilità si sarebbe verificata «più probabilmente che non». Come da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza di legittimità, la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione. Sicché, la sua perdita, id est la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura una lesione all'integrità del patrimonio, in termini di danno emergente, la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del verificarsi d'un danno concreto ed attuale (ex plurimis, in materia di responsabilità professionale dell'avvocato, Cass. n. 11548/2013, in materia di responsabilità del ragioniere, Cass. II, n. 22026/2004, in materia di responsabilità professionale del commercialista, Cass. II, n. 15759/2001; Cass. III, n. 6488/2017, in materia di perdita di chance lavorative future asseritamente subita dall'infortunato in un sinistro stradale che la Suprema Corte però qualifica come danno patrimoniale futuro; in materia di danno da perdita di chance di promozione ad una qualifica superiore nell'ambito di rapporto di lavoro si vedano: Cass. IV, n. 734/2002; Cass. IV, n. 14074/2000; Cass. IV, n. 11340/1998; Cass. IV, n. 2167/1996, in Giur. it., 1997, 6, 792, con commento di Riganò; Cass. IV, n. 6506/1985, in Riv. dir. comm., 1986, 2, 207, con commento di Zeno Zencovich, in Foro it., 1986, 2, 383, con commento di Princigalli, ed in Giur. it., 1986, 8, 1182, con commento di De Cupis). In tema di chance che si determina con la partecipazione ad una controversia in sede giudiziaria basti considerare, ai fini della sussistenza della perdita di essa, come l'agire od il contraddire, anche del tutto indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità d'esito favorevole della lite, offrano in ogni caso frequentemente occasione, tra l'altro, di transigere la vertenza o di procrastinarne la soluzione o di giovarsi di situazioni di fatto o di diritto sopravvenute, risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per se stessi, apprezzabili vantaggi sotto il profilo economico. Sicché, il danno da perdita della possibilità di impugnare (ovvero di proporre opposizione o di agire o resistere in giudizio) è differente dal danno da mancata impugnazione, del quale non costituisce mero elemento costitutivo, ed è accertabile, in termini di danno emergente da perdita di chance, con criteri probabilistici (si veda, in materia di responsabilità professionale del commercialista, Cass. II, n. 15759/2001, cit., per la quale il danno da perdita della possibilità di opposizione è differente dal danno da mancata opposizione, del quale non costituisce mero elemento costitutivo, accertabile con criteri probabilistici). La perdita di chance, essendo quest'ultima mera eventualità astratta, non è dunque risarcibile di per sé, salvo che sia verificabile nel caso concreto, in termini di ragionevole probabilità, e sempre che tale perdita sia eziologicamente riconducibile al comportamento del professionista. Quanto detto si argomenta dal principio generale per il quale la lesione di un diritto deve tradursi in un concreto pregiudizio, senza il quale mancherebbe l'oggetto della pretesa risarcitoria. Sicché, l'accoglimento della domanda di risarcimento da perdita di chance (danno emergente), al pari della prova del danno da lucro cessante, esige la prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile. In applicazione del principio la Suprema Corte conferma la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità dell'avocato per aver provocato l'estinzione del giudizio di merito, in base all'assunto che non vi era alcuna certezza del fatto che, se non vi fosse stata l'estinzione, la pretesa del cliente sarebbe stata accolta, e ciò anche in termini di perdita di chance di raggiungimento, nel corso del processo, di soluzioni transattive (Cass. III, n. 22376/2012, in Contratti, 2014, 3, 251, con commento di Attinà, 253; si veda, più di recente ma in materia di appalto di opere pubbliche, Cass. civ. I, n. 19604/2016, che esplicitamente lo inquadra nel danno emergente facendo riferimento ad un pregiudizio certo – anche se non nel suo ammontare – consistente nella perdita di una possibilità attuale che esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza). In ambito contrattuale, dunque, l'inadempimento dell'una delle parti cui consegua la perdita, per l'altra, della chance d'intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria, dal lato attivo come da quello passivo, determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun problema d'accertamento sotto il profilo dell'an, non revocabile in dubbio nell'ipotesi d'accertato inadempimento contrattuale, ma solo, eventualmente, sotto quello del quantum (si vedano: Cass. II, n. 22026/2004, cit., in materia di responsabilità del ragioniere; Cass. II, n. 15759/2001, cit., in materia di responsabilità professionale del commercialista, oltre che l'ampia motivazione di Cass. I, n. 11629/1999, in Resp. civ. e prev., 2000, 4, 1021, con commento di Monnosi, in Arc. civ., 2000, 11, 1239, con commento di D'Alessandro, in Corr. giur., 2000, 7, 902, con commento di Lascialfari, ed in Foro it., 2000, 6, 1917, con nota di Scoditti). Il danno in esame deve difatti essere liquidato in applicazione di un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito in base ad un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta e, laddove tale criterio risulti di difficile applicazione, mediante il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. (ex plurimis: Cass. II, n. 15759/2001, cit.; Cass. V, n. 11522/1997, in Riv. dir. lav., 1998, 4, 706, con commento di Milianti; Cass. V, n. 2167/1996, cit.; Cass. V, n. 5026/1993, in Giur. it., 1994, 2, 234, con nota di Musy; Cass. V, n. 2368/1991, in Foro it., 1991, 6, 1793, con commento di De Marzo). Ne consegue altresì che, in caso di inadempimento dell'incarico avente ad oggetto la partecipazione a un incanto per l'aggiudicazione di un immobile, da cui derivi la perdita della possibilità di partecipare alla gara, è configurabile un danno da perdita di chances, ai fini del cui accertamento il danneggiato ha l'onere di provare non la perdita del risultato, cioè che avrebbe ottenuto certamente l'aggiudicazione del bene, bensì soltanto la perdita della possibilità di conseguirlo (Cass. III, n. 3824/2024). Il riferimento alla chance di vittoria in giudizio è poi alla base della possibilità da parte del cliente di opporre l'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., in ossequio al principio di buona fede nell'esercizio di autotutela. Tale eccezione, difatti, può essere opposta dal cliente all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale, purché la negligenza sia idonea a incidere sugli interessi del primo, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole del giudizio ed essendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove la negligenza nell'attività difensiva, secondo un giudizio probabilistico, non abbia pregiudicato la chance di vittoria. In applicazione del principio la Suprema Corte nel 2016 ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inadempiente la condotta dell'avvocato consistita nella mancata presenza all'udienza di ammissione dei mezzi di prova e nell'omessa produzione di un documento attestante le spese mediche sostenute. La mera assenza all'udienza di ammissione dei mezzi di prova non implica difatti alcuna rinuncia implicita alle deduzioni istruttorie, formulate negli atti introduttivi o nelle appendici scritte dell'udienza di trattazione (Cass. II, n. 25894/2016, nello stesso senso, con riferimento ad un'omessa citazione di testimone, la cui audizione nel caso concreto era comunque avvenuta, Cass. II, n. 11304/2012; in tema di c.d. cause presumibilmente perse ab initio, Cass. III, n. 15717/2010, in Giur. it., 2010, 12, 2525, con commento di E. Carbone). Con altra recente sentenza, nel 2016 la Suprema Corte ritiene sollevabile l'eccezione di inadempimento dal cliente nei confronti dell'avvocato (impegnatosi ad impugnare il provvedimento) ed in forza del suo inadempimento colpevole per non aver svolto i dovuti controlli in ordine al soggetto destinatario della notificazione dell'atto di appello (così rinunciando a tale impugnazione) e proponendo solo tardivamente l'atto di appello nei confronti del soggetto correttamente individuato. La responsabilità contrattuale del professionista, precisa difatti la Suprema Corte, non richiede quale elemento costitutivo la verifica dell'esito finale del giudizio nel quale la condotta colposa è stata realizzata. La responsabilità «ex contractu» va infatti accertata in relazione alle obbligazioni assunte con il contratto di patrocinio (tra le quali, nella specie, l'attività necessaria ad interporre gravame avverso la decisione di primo grado, da compiersi con la diligenza di cui all'art. 1176 comma 2 c.c.) e prescinde dall'esito utile o inutile del giudizio per la parte patrocinata (Cass. III, n. 20888/2016). Con particolare riferimento al danno da perdita di chance, sempre in tema di responsabilità professionale dell'avvocato, la tesi dominante e che comunque fa breccia nell'attuale giurisprudenza prevalente, lo considera quale danno da perdita della probabilità di conseguire un giudicato favorevole. Sitratta quindi di danno emergente incidente sul bene giuridico costituito dalla possibilità di risultato, così da poter applicare la detta categoria non solo alle ipotesi di controversie di agevole soluzione ma anche alle cause che, ab initio, presentano incertezze o, comunque, non di facile soluzione. Sicché, il risarcimento avrebbe ad oggetto un'utilità suscettibile di valutazione economica già esistente nel patrimonio del danneggiato (per tale tesi, oltre che per riferimenti anche giurisprudenziali ad essa, si veda, Fortinguerra, 718, il quale evidenzia che la tecnica della perdita di chance è in grado di evitare che il professionista, in molteplici fattispecie, possa scaricare sul cliente tutte le difficoltà probatorie circa la sorte del giudizio, ipotetico, con riferimento comportamento ipotetico dello stesso professionista). L'opposto orientamento dottrinale è invece teso a ricondurre il danno da perdita di chance al mancato conseguimento delle utilità economiche scaturenti da un giudicato favorevole, quindi quale lucro cessante (De Fazio, 1170, Torresi, 83, nonché, più di recente, Attinà, 251; si vedano sul punto anche Scalia-Centofanti, 261-269, i quali evidenziano i passaggi logico-giuridici dell'approdo del danno da perdita di chance nell'ambito della responsabilità professionale, tanto dell'avvocato quanto del commercialista). Danni da «responsabilità aggravata»L'art. 96 c.p.c. che, oggi, disciplina tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, si pone con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 c.c.. Sicché, la responsabilità processuale aggravata, ad integrare la quale è sufficiente, nelle ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 96 citato, la colpa lieve, come per la comune responsabilità aquiliana, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina dell'art. 96 c.p.c., non essendo altresì configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità. In tal senso si veda Cass. III, n. 16308/2007, la quale precisa, altresì, che la decisione in ordine alla responsabilità aggravata in oggetto è devoluta, in via esclusiva, al giudice al quale spetta di conoscere il merito della causa (in senso conforme circa la portata dell'art. 96 c.p.c. ed in merito all'impossibilità di un concorso tra i due tipi di responsabilità, si vedano: Cass. I, n. 28226/2008, in Fall. e proc. conc., 2009, 11, 1287, con commento di Canazza; Cass. II, n. 3573/2002). Pur non essendo questa la sede per la disamina della c.d. responsabilità aggravata, anche in merito alla sua eventuale natura di «pena privata», deve evidenziarsi che la normativa di cui innanzi può essere utilizzata anche dal cliente nei confronti del proprio avvocato, nel senso che potrebbe sorgere in capo al professionista responsabilità per danni subiti dal cliente per essere stato esposto alla detta responsabilità aggravata. Della responsabilità ex art. 96 c.p.c., difatti, risponde la parte processuale e, per lei, il suo legale, del cui operato la parte risponde nei confronti della controparte, ex art. 2049 c.c. (in tal senso, anche Cass. V, n. 14035/2019, per la quale la proposizione di un ricorso per cassazione in palese violazione dell'art. 366 c.p.c., tale da concretare un errore grossolano del difensore nella redazione dell'atto, giustifica la condanna della parte - che risponde delle condotte del proprio avvocato ex art. 2049 c.c. - al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.; in termini sostanzialmente analoghi, circa la responsabilità della parte per le condotte processuali del proprio avvocato, Cass. III, n. 5725/2019, oltre che, in tema di lite temeraria, Cass. VI-III, n. 17814/2019). Quanto detto è attualmente maggiormente rilevante, sempre in termini di responsabilità professionale dell'avvocato, considerando ormai abbandonato orientamento per il quale la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non potrebbe di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 citato. La giurisprudenza di legittimità, soprattutto nell'ultimo anno, in più occasioni statuisce in merito alla responsabilità aggravata per violazione delle regole di correttezza e buona fede relative all'agire ed al resistere in giudizio, in particolare di Cassazione ma valevoli con riferimento alla più generale fattispecie di responsabilità, per abuso del processo della parte processuale, nei confronti della controparte, che si riflette sull'avvocato, del cui operato la parte stessa risponde. In particolare integra abuso del processo l'impugnazione, pretestuosa e strumentale, volta a procrastinare la pendenza del giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo e quindi la correlata sospensione del processo di espropriazione di crediti intentato dal creditore, con indebito aggravamento delle ragioni di quest'ultimo, nonostante la lampante evidenza, se non altro parziale e per importo anche ingente, della sussistenza ab origine del credito pignorato (cfr., Cass. III, n. 15017/2016). A medesime considerazioni si perviene nel caso di ricorso per cassazione con il quale, sostanzialmente, si finisca per richiedere una valutazione delle prove diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito. In tale caso, difatti, si prospetta, senza addurre argomenti volti a confutare il diritto vivente, un motivo inammissibile per consolidato orientamento pluridecennale, e comunque non più consentito dal novellato art. 360, n. 5, c.p.c. Cass. III, n. 3376/2016 , in proposito, osserva che, ricorrendo le condizioni di cui innanzi, il ricorrente e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale,ex art. 2049 c.c., ben conosce l'insostenibilità della propria impugnazione. In particolare, egli o agisce sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l'ordinamento non può consentire) ovvero non è al corrente della detta insostenibilità, ed allora ha tenuto, e per lui il suo difensore, una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la ex acta diligentia esigibile – in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176 comma 2 c.c. – da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata, quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare. Il medesimo principio è poi ribadito nonché esteso a tutte le ipotesi nelle quali il ricorso per cassazione è proposto malgrado la conoscenza o l'ignoranza gravemente colposa della sua insostenibilità (fonte di responsabilità dell'impugnante ex art. 385 comma 4 c.p.c., se applicabile ratione temporis, ovvero ex art. 96 comma 3 c.p.c.), per avere questi agito sapendo di perorare una tesi infondata, oppure per non essersi adoperato con l'evidenziata diligenza (Cass. III, n. 20732/2016 che, nella specie, ritiene il ricorso manifestamente infondato, quanto all'asserita nullità della notifica di un precetto avvenuta nel domicilio contrattualmente pattuito ed all'invocata vessatorietà di una clausola di un rogito notarile, e, per il resto, manifestamente inammissibile per inosservanza dei criteri sanciti dagli artt. 366 e 369 c.p.c. come costantemente interpretati dalla Suprema Corte). Tale orientamento implica, dichiaratamente, il superamento del precedente arresto delle Sezioni unite del 2007, per il quale la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. (Cass. S.U., n. 25831/2007). Nel dettaglio la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 3376/2016, cit.) precisa che l'evidenziato precedente delle Sezioni Unite è, per un verso non applicabile, in tutti i casi, come quello di cui innanzi, nel quale non si ravvisa una mera infondatezza ma una totale «insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso», oltre che superato, perché «non più coerente né con la natura e la funzione del giudizio di legittimità né col quadro ordinamentale». Sotto il primo profilo, la suprema Corte, evidenzia che il detto orientamento non tiene conto del progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Corte stessa, perseguito dal legislatore con l'introduzione dell'art. 360-bis c.p.c., con la novella dell'art. 363 comma 1 c.p.c. e con l'introduzione dell'art. 374 comma 3 c.p.c. Per quanto concerne l'incoerenza con il quadro ordinamentale, in particolare, si evidenzia che il precedente arresto, ancorché delle Sezioni Unite, non considera del principio della ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 Cost., degli orientamenti in tema di abuso del processo e del principio per il quale le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali (si vedano, in precedenza, Cass. III, n. 3930/2015; Cass. III, n. 817/2015; per il riferimento all'interpretazione delle norme in modo da evitare spreco di energie giurisdizionali, si veda, Cass. S.U., n. 12310/2015, in Corr. giur., 2015, 7, 961, con commento di Consolo). Tale ultimo orientamento, di segno opposto rispetto alle evidenziate Sezioni Unite, è sostenuto nonché confermato ed ulteriormente esplicitato dalla più recente Cass. III, n. 27174/2016. Quest'ultima, nel fare proprie le argomentazioni di cui innanzi, evidenzia l'incoerenza del contrapposto precedente orientamento con la ratio deflattiva dell'art. 385, comma 4, c.p.c. (nella specie applicabile ratione temporis) oltre che con l'attuale art. 96 c.p.c. Essa, per contro, va tanto più valorizzata quanto più appare cresciuto a dismisura il numero dei ricorsi per cassazione ove si sostengono tesi palesemente incongrue. Sotto il profilo ordinamentale, la Suprema Corte, rileva, infine, che il principio di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 Cost., impone interpretazioni delle norme processuali idonee a rendere più celere il giudizio, rendendo abusive condotte strumentalizzanti il processo (per i riferimenti all'abuso del processo di veda, di recente, Cass. II, n. 10177/2015). L'impugnazione, in particolare il ricorso per cassazione, costituisce abuso del diritto, fonte di responsabilità della parteex art. 96 comma 3 c.p.c. e, quindi, potrebbe aggiungersi, fonte di responsabilità del di lei difensore verso la parte stessa, allorquando costituisca abuso del diritto all'impugnazione in quanto basato su motivi infondati perché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello o perché assolutamente irrilevanti o generici ovvero perché, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata. Statuisce nei detti termini Cass. III, n. 19285/2016 argomentando dalla funzione sanzionatoria della norma di cui innanzi, con riferimento a condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. Per quanto concerne tale ultimo profilo Corte cost. n. 152/2016, in particolare, nel decidere, in termini di infondatezza, la questione sottoposta al suo esame, inerente l'art. 96, comma 3, c.p.c., osserva che la dottrina e la giurisprudenza di merito risultano divise sul fatto che l'istituto processuale previsto da tale norma sia riconducibile allo schema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 del c.c. e che, quindi, abbia valenza, anch'essa, risarcitoria del danno cagionato, alla controparte, dalla proposizione di una lite temeraria, ovvero risponda ad una funzione (esclusivamente o prevalentemente) sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. La Consulta, in particolare, previo richiamo dei lavori preparatori della novella che ha introdotto la norma in esame nonché valorizzati significativi elementi lessicali presenti nel testo della norma, evidenzia la natura «sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione scrutinata» (come, peraltro, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità) ma rileva che l'istituto «de quo» svolge «una concorrente finalità indennitaria» nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch'essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c. Risulta, in questo modo, confermata – se non la polifunzionalità del risarcimento del danno aquiliano, visto che la Corte ha inteso escludere dal novero delle misure risarcitorie l'istituto processuale suddetto – quantomeno la coesistenza, di fronte a comportamenti che presentano lo stigma dell'illiceità, di «prestazioni sanzionatorie» destinate a cumularsi con «prestazioni risarcitorie», denotando come queste ultime non esauriscano il novero dei «rimedi» esperibili a fronte dell'illecito civile (Granelli, 1760). Responsabilità per tardiva od omessa impugnazione e liquidazione in via equitativain tema di liquidazione del danno, Cass. III, n. 12280/2016 precisa che il pregiudizio di carattere non patrimoniale patito dal condannato a causa della tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna da parte dell'avvocato, cui consegua l'impossibilità per il cliente di ottenere una riduzione della pena detentiva in sede di gravame (nella specie, per non potere accedere al cd. patteggiamento in appello), non può essere risarcito applicando automaticamente i criteri elaborati dalla giurisprudenza penale per il ristoro del danno da ingiusta detenzione – trattandosi di condanna legalmente data e, quindi, di detenzione legittima – ma va liquidato in via equitativa. Quello di cui innanzi è principio consolidato in applicazione del quale la Suprema Corte conferma la sentenza di merito che aveva condannato un avvocato al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa in nove milioni di lire, nei confronti di un cliente, relativamente alla detenzione di un mese e diciassette giorni subita a seguito della mancata attivazione della procedura inerente alla rimessione in termini per proporre gravame (Cass. II, n. 6537/2006; si veda, più di recente, sempre con riferimento a risarcimento del danno da responsabilità professionale dell'avvocato richiesto per la maggiore detenzione subita, Cass. III, n. 12280/2016). Medesimo principio opera con riferimento alla responsabilità da tardivo od omesso ricorso per cassazione. L'avvocato, il quale ometta di depositare il ricorso per cassazione nel termine di cui all'art. 369 c.p.c., è difatti responsabile nei confronti del cliente del danno da questi patito in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza a lui sfavorevole, a nulla rilevando che la tardività del deposito sia ascrivibile a sua colpa esclusiva o se sussista, eventualmente, anche la responsabilità di coloro (collaboratori o terzi) di cui il professionista si sia avvalso per l'espletamento dell''incarico ricevuto (Cass. III, n. 15895/2009). Quando il cliente abbia provato la conclusione del contratto di patrocinio, con il conferimento dell'incarico al legale per agire nei gradi di merito, non è necessario il rilascio di un ulteriore mandato per agire in sede di legittimità, la cui prova sia a carico del primo. Argomentando nei detti termini, Cass. III, n. 7410/2017, in forza della distinzione tra rapporti interni ed esterni tra avvocato e cliente, conclude nel senso che la sola circostanza per la quale non sia stata conferita la prevista procura speciale non esclude la responsabilità del professionista per mancata proposizione tempestiva del relativo ricorso. Grava difatti in capo all'avvocato l'onere della prova di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione di impugnare la sentenza sfavorevole di secondo grado, di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell'omessa impugnazione, nonché di non aver agito per fatto a sé non imputabile o per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale. Non è invece ravvisabile errore professionale, fonte di responsabilità per danno, nel comportamento del difensore con procura di una lavoratrice subordinata, il quale, in un giudizio promosso per l'illegittimità del licenziamento della sua cliente, essendo stata appellata in via principale dal datore di lavoro la sentenza di primo grado, di accoglimento della domanda limitatamente alla dichiarazione della illegittimità del licenziamento stesso, ometta di proporre appello incidentale per ottenere l'ordine specifico di reintegrazione della sua cliente nel posto di lavoro (Cass. II, n. 1408/1976, Riv. dir. lav., 1977, 2, 149, con nota di Fabris). Responsabilità per omessa riassunzione di un giudizio interrottoIncorre in responsabilità professionale l'avvocato che abbia omesso di provvedere alla riassunzione di un giudizio interrotto, pur quando abbia rappresentato la necessità della sua sostituzione per sopraggiunto conflitto d'interessi con l'altra parte del giudizio, allorché abbia, nella sostanza, continuato a svolgere attività defensionale sulla base del contratto di patrocinio stipulato con il cliente, per la cui conclusione non occorre il rilascio della procura ad litem, necessaria solo per lo svolgimento dell'attività processuale (Cass. III, n. 13927/2015). Responsabilità per tardivo deposito di ricorso avverso licenziamento (onere probatorio)Nel giudizio che ha per oggetto la responsabilità civile del professionista, per avere depositato tardivamente il ricorso avverso il licenziamento del proprio patrocinato, devono essere dedotte e provate, come fatti costitutivi della domanda, dalla parte che chiede il risarcimento del danno, insieme con l'esistenza del nesso di causalità, tutte le circostanze relative alla illegittimità del licenziamento e non soltanto l'avvenuta dichiarazione d'improcedibilità del ricorso in accoglimento dell'eccezione del datore di lavoro (Cass. II, n. 4453/1984). Notifiche a mezzo posta e responsabilità dell'avvocatoNon è configurabile alcuna responsabilità professionale, quanto alle conseguenze di un ritardo di ricezione dell'atto, nella condotta di un avvocato che abbia richiesto la notifica di un'opposizione a decreto ingiuntivo tramite il servizio postale solo cinque giorni prima della scadenza del termine di cui all'art. 641 comma 1, c.p.c. Gli effetti della notificazione a mezzo posta, giusta la declaratoria di incostituzionalità degli artt. 149 c.p.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportata dalla l. n. 263/2005) e 4, comma 3, della l. n. 890/1982, vanno difatti ricollegati, per il notificante, alla mera consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, pur restando fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione alla data di sua ricezione, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo (Cass. III, n. 8395/2015). Responsabilità da negligente gestione della casella di posta elettronica certificata (Pec)La responsabilità dell'avvocato può risiedere anche nella non corretta gestione e nel cattivo utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, causa di dichiarazione di improcedibilità dell'appello in ragione della mancata notificazione alla controparte della data di fissazione dell'udienza di discussione, nonostante comunicazione a mezzo Pec del decreto di fissazione della detta udienza. Una volta ottenuta dall'ufficio giudiziario l'abilitazione all'utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l'avvocato, che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di Pec al Ministero della Giustizia per il tramite del Consiglio dell'Ordine di appartenenza, diventa responsabile della gestione della propria utenza., Egli ha dunque l'onere di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli dalla cancelleria a tale indirizzo, indicato negli atti processuali, non potendo far valere la circostanza della mancata apertura della posta per ottenere la concessione di nuovi termini per compiere attività processuali (si veda Cass. IV, n. 15070/2014, per il principio della diligente gestione della casella di posta elettronica certificata). Responsabilità per mancata impugnazione di sentenza dichiarativa dell'estinzione del processoL'errore professionale addebitabile all'avvocato, consistente nella mancata impugnazione di una sentenza dichiarativa dell'estinzione del processo per irritualità della riassunzione dello stesso, nonché nell'omessa informazione del cliente circa le conseguenze di essa, con definitiva perdita del diritto, rende del tutto inutile l'attività difensiva precedentemente svolta dal professionista, dovendosi ritenere la sua prestazione totalmente inadempiuta ed improduttiva di effetti in favore del proprio assistito, con la conseguenza che in tal caso non è dovuto alcun compenso al professionista (Cass. III, n. 4781/2013, anche in Foro it., 2013, 6, 1939, con nota di Scarselli). La dottrina concorda in merito all'assunto in forza del quale se un legale commette un errore nella gestione della controversia non ha diritto al compenso per tutte le attività di quella controversia ed in particolare non solo per quelle successive all'errore ma anche con riferimento a quelle precedenti, essendo tutti gli atti connessi tra loro e miranti al risultato finale della sentenza di merito. L'errore professionale su un atto rende dunque responsabile l'avvocato anche per tutti gli atti anteriori o successivi che per quell'errore non siano più idonei al raggiungimento dell'obiettivo previsto dal sistema, per il quale la procura alle liti era stata rilasciata (Scarselli, 1939, il quale, nel concordare in merito all'assunto per il quale l'avvocato non abbia diritto al compenso per tutte le attività in connessione e dipendenza con quella che ha fatto sorgere la responsabilità, evidenzia che, per converso, non si può affermare che il difensore abbia diritto al compenso solo se il cliente riceve utilità dall'esercizio del mandato difensivo, per precisare poi il concetto di utilità della difesa e diritto al compenso; si veda anche, per l'assenza del diritto dell'avvocato al compenso per tutte le attività connesse e dipendenti con quella che ha fatto sorgere la responsabilità, Marinelli, 333). Responsabilità per difetto di procuraLa dichiarazione di inammissibilità di una domanda giudiziale per difetto di procura non fa sorgere alcuna responsabilità professionale dell'avvocato, per avere coltivato la domanda ignorando tale vizio, essendo onere di chi la procura conferisce informare il professionista circa l'esistenza di clausole statutarie limitative dei poteri rappresentativi degli organi sociali (Cass. II, n. 11743/2012, nella specie si trattava di procura rilasciata dal presidente di una società cooperativa senza le formalità prescritte dallo statuto). Tuttavia, nelle ipotesi di cui innanzi, è prospettabile una responsabilità del difensore per le spese legalioltre che con riferimento al c.d. “raddoppio del contributo”. Sotto tale ultimo profilo, difatti, la Suprema Corte ha chiarito che in caso di ricorso per cassazione dichiarato inammissibile per difetto di una valida procura rilasciata al difensore, deve provvedersi alla dichiarazione di cui all'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come novellato dalla l. n. 228 del 2012, sicché, trattandosi di attività processuale della quale il legale assume esclusivamente la responsabilità, su di lui e non sulla parte grava la pronuncia relativa alle spese del giudizio, compreso il raddoppio dell'importo dovuto a titolo di contributounificato (Cass. VI-I, n. 32008/2019). In tema di disciplina delle spese processuali, difatti, l'attività del difensore senza procura, che non può riverberare alcun effetto sulla parte, resta attività processuale di cui egli solo assume la responsabilità anche in ordine alle spese del giudizio. Conseguentemente, il giudice si trova di fronte ad una questione rilevabile d'ufficio di natura pregiudiziale, la non corrispondenza a vero che l'avvocato sia munito di procura, a soccombere sulla detta questione pregiudiziale, l'unica in base alla quale sarà definito il procedimento con relativa declaratoria di inammissibilità, è soltanto l'avvocato che ha sottoscritto e fatto notificare l'atto introduttivo del giudizio. Non potrebbe altresì trovare applicazione l'esonero dalle spese processuali, previsto dall'art. 152 disp. att. c.p.c., per «il lavoratore soccombente», non rientrandosi, nella specie, in tale categoria (Cass. IV, n. 1759/2007 e Cass. IV, n. 24281/2006). Parimenti nel giudizio di legittimità. L'inammissibilità del ricorso per cassazione per avere il difensore agito senza valida procura comporta difatti che, non riverberando l'attività dello stesso alcun effetto sulla parte, lo stesso difensore sia parte nel processo in ordine alla questione d'inammissibilità del ricorso per difetto della procura speciale a ricorrere per cassazione. Pertanto, nel caso in cui la Suprema Corte non ritenga che sussistano giusti motivi di compensazione, la condanna alle spese va pronunciata a carico del difensore stesso, quale unica controparte del controricorrente nel giudizio di legittimità (Cass. VI, n. 25435/2019; in senso conforme anche la precedente Cass. I, n. 14281/2006) Nello stesso senso Cass. I, n. 13069/2002 (in Nuova giur. civ. comm., 2002, 1, 96, con commento di Zamboni), la quale si sofferma sugli effetti dell'assenza di procura in capo al difensore agente in merito alla sentenza emessa a conclusione del relativo processo. Il Tardivo deposito della procura speciale a ricorrere per cassazione comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, cui consegue però la condanna a pagare le spese di lite a carico non del difensore ma del suo assistito, al quale l'attività processuale compiuta va riferita in ragione dell'effettivo rilascio della detta procura (Cass. VI-III, n. 9862/2021). Il difetto assoluto di procura in capo al difensore (che al difensore dell'attore deve essere conferita prima della sua costituzione) quindi del potere di rappresentanza-difesa tecnica (nei casi in cui essa sia prescritta) produce all'interno del processo una nullità insanabile e non l'inesistenza. Sicché, il contraddittorio, ancorché gravemente viziano non è radicalmente assente e la relativa nullità si riflette sulla sentenza tramutandosi in motivo di gravame ex art. 161 comma 1 c.p.c., restando quindi definitivamente sanata solo dal giudicato (si vedano in tal senso, in precedenza, anche, Cass. III, n. 838/2000 e Cass. IV, n. 11624/1998). Ove, invece, la procura alla lite sia conferita al difensore della parte, in nome della quale egli dichiari di agire, e risulti invalida o non più efficace, come nel caso di mandato rilasciato da soggetto non più in vita alla data di proposizione del ricorso introduttivo o del gravame da parte del difensore, è il soggetto che ha conferito la procura nulla che assume la qualità di parte ed è tale soggetto o, in caso di decesso, l'erede, che dovrà rispondere delle spese, salvo compensazione o applicazione, nelle controversie previdenziali, dell'art. 152 disp.att. c.p.c. Il principio di cui innanzi è applicato da Cass. IV, n. 24281/2006, cit., in un caso nel quale il difensore aveva proposto ricorso introduttivo e appellato la sentenza di primo grado sulla base di un mandato, conferitogli dalla parte dichiaratamente da lui rappresentata, divenuto inefficace per la sopravvenuta morte di questa in epoca anteriore alla data del deposito del ricorso introduttivo. La Suprema Corte ritiene in particolare errata la statuizione della corte territoriale, che aveva condannato al pagamento delle spese di lite il difensore della parte soccombente per aver omesso di verificare l'esistenza in vita della parte rappresentata alla data del deposito del ricorso di primo grado, per tutto il tempo del procedimento ed anche dopo la pronuncia della sentenza di primo grado. Decidendo nel merito però la Corte dichiara non dovute, dall'erede dell'assicurato, le spese relative ai gradi di giudizio ma solo ex art. 152 disp. att. c.p.c. Nella stessa scia, valorizzando il rapporto interno tra avvocato e cliente, la recente Cass. VI-III, n. 10071/2017 conferma l'assunto per il quale la procura alle liti (art. 83 c.p.c.), che abilità il difensore ad esercitare i poteri normativamente spettantigli nel processo, presuppone un rapporto di mandato con rappresentanza speciale processuale, il cui contenuto è determinato dalla natura del rapporto controverso e dal risultato perseguito dal mandante nell'intentare la lite o nel resistere ad essa. Sicché, nel caso di mancanza del mandante, in ipotesi per inesistenza, come nella specie, perché rilasciata da società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, l'attività del difensore resta attività processuale della quale il legale assume esclusivamente la responsabilità, con la conseguente ammissibilità di una sua condanna a pagare le spese del giudizio (si vedano anche Cass.S.U., n. 10706/2006, in merito al presupposto rapporto di mandato ed alle conseguenze in materia di condanna alle spese, e Cass. III, n. 6264/2002, sempre circa il presupposto rapporto di mandato). Cass. VI-III, n. 14474/2019 ribadisce che nel caso di azione o di impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (come nel caso di inesistenza della procura ad litem o falsa o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello per il quale l'atto è speso), l'attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio. Nella specie, la Suprema corte nel dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione, ha condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità il difensore sfornito di procura, poiché rilasciata in modo generico a margine dell'atto di appello e non con scrittura privata autenticata o con atto notarile indicanti gli elementi essenziali del giudizio cui la procura si riferiva. Parimenti, Cass. III, n. 13055/2018ha ritenuto che l'inesistenza in vita del soggetto al momento della proposizione del ricorso connoti l'attività del legale come attività direttamente a lui riferibile, restando privo di rilievo il fatto che la procura potesse essere stata effettivamente rilasciata dalla parte anteriormente al proprio decesso e prima della pronuncia della sentenza impugnata (si vede altresì la precedente conforme Cass. VI-I, n. 27530/2017). La procura alle liti è in presupposto fondamentale della valida costituzione del rapporto processuale, sicché, precisa parte della dottrina, nel caso di giudizio promosso da difensore privo di valida procura il difetto di rappresentanza processuale (o di ius postulandi) non comporta la mera nullità insanabile bensì l'inesistenza giuridica dell'atto introduttivo, inficiando l'instaurazione del rapporto processuale e provocando «a cascata» effetti demolitori dell'intero processo (Comoglio, 1058). L'avvocato potrebbe comunque agire ex art. 2041 c.c. nei confronti dell'assistito, pur non potendosi ritenere l'ingiustificato arricchimento in re ipsa nell'attività processuale svolta per nome e per conto di altro soggetto, gravando sull'attore, che abbia instaurato un processo ad hoc, dimostrare quali siano gli esiti patrimonialmente vantaggiosi per la parte (Zamboni, 96; per l'argomento si vedano anche Montaldo, 1, 146, Mandrioli, 928, per il quale il difetto assoluto di procura non è ipotesi da considerarsi separatamente rispetto a quella inerente la procura invalida; circa i profili inerenti l'invalidità e l'inesistenza della sentenza, si vedano Finocchiaro, 1998, 665, e Balena, 179). Analoga soluzione per l'ipotesi di difetto di rappresentanza processuale del soggetto costituito in giudizio. In particolare, nel caso in cui il soggetto costituito in giudizio sia diverso dall'effettivo titolare del diritto, e non risulti a lui espressamente conferita la rappresentanza processuale ai sensi dell'art. 77 c.p.c., il giudice ha l'obbligo, in base al successivo art. 182, di rilevarne il difetto in ogni stato e grado del giudizio (e, quindi, anche in sede di decisione), restando attribuita al suo prudente apprezzamento la possibilità della eventuale sanatoria dello stesso. Ne consegue, per Cass. II, n. 5709/1997, che, rilevato tale difetto di rappresentanza, né la mancata produzione in giudizio del negozio rappresentativo né, l'eventuale, accertata inidoneità di tale atto a conferire una valida rappresentanza processuale possono dar luogo a responsabilità del difensore, spettando all'organo giudiziario sia la verifica della regolare costituzione delle parti sia la decisione sulla possibilità ed opportunità di sanare le eventuali irregolarità. Così che, in ogni caso, l'esito della lite sarà determinato dal difetto di rappresentanza processuale del soggetto costituito in giudizio e non dall'eventuale negligenza del difensore. Responsabilità per omesso deposito di note di trascrizione ed in materia ipotecariaL'avvocato che abbia omesso di depositare presso la Conservatoria dei registri immobiliari la nota di trascrizione della domanda giudiziale non incorre in responsabilità professionale, se sia stato a ciò autorizzato dal cliente, il quale abbia volontariamente assunto il relativo onere, esonerandone il professionista (Cass. III, n. 1605/2012, nella specie si trattava di domanda giudiziale di risoluzione del contratto avente ad oggetto beni immobili). In materia di responsabilità professionale dell'avvocato, che presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile con riguardo alla natura dell'attività esercitata (ex art. 1176, comma 2, c.c.), la conoscenza della normativa che impone la rinnovazione dell'ipoteca (artt. 2847 e 2878, n. 2 c.c.), essendo questione prettamente giuridica, fa parte dell'obbligo di prestazione professionale, rientrando nella detta diligenza e non in quella del cliente (nella specie, una società), non essendo quest'ultimo tenuto a conoscere il periodo di scadenza della garanzia ipotecaria. In applicazione del principio di cui innanzi Cass. III, n. 12127/2020 ha cassato la sentenza impugnata che aveva invece ravvisato un concorso di colpa del cliente, non essendo stato neanche prospettato che quest'ultimo, sollecitato dal difensore, avesse taciuto una qualche circostanza di fatto rilevante per l'incarico. Tale orientamento sembra inquadrarsi, implicitamente, nell'impostazione di Cass. VI, n. 20379/2013 per la quale la responsabilità del difensore non è attenuata nel caso in cui il cliente abbia tenuto dei comportamenti su consiglio o comunque con l'assistenza del difensore medesimo, ove si tratti di comportamenti la cui illiceità non sia di immediata evidenza per un soggetto non esperto in materie giuridiche: è, infatti, compito del difensore indirizzare le scelte del cliente in senso conforme alla legge, se dal caso astenendosi dalla difesa ove gli siano richiesti comportamenti non ortodossi. Nella specie la statuizione da ultimo citata ha rigettato il ricorso di un avvocato, il quale era stato condannato per i danni subiti da un Comune per essere stato egli nominato arbitro in relazione ad una vertenza per la quale aveva in precedenza svolto attività difensiva in favore del Comune stesso, ritenendo la Corte irrilevante che il Comune fosse a conoscenza di tale circostanza al momento della sua nomina ad arbitro. In argomento è intervenuta la recente Cass. III, n. 2348/2020 chiarendo che In tema di responsabilità professionale, ai fini della verifica dell’esistenza di un danno risarcibile, nel caso in cui l’avvocato abbia omesso di trascrivere la domanda giudiziale ex art. 2901 c.c., con conseguente impossibilità per il creditore di opporre gli effetti della sentenza al terzo che, in corso di causa, abbia acquistato un cespite del compendio oggetto dell’esperita azione revocatoria, l’esistenza di un’iscrizione ipotecaria su quello stesso bene non è, di per sé, ostativa alla possibilità di riconoscere l’esistenza di detto danno, occorrendo, invece, una verifica della residua consistenza del credito garantito da ipoteca. Dichiarazione di successione e responsabilità professionalePer il legale che sia stato incaricato della presentazione di una dichiarazione di successione in prossimità della scadenza del relativo termine e in mancanza della documentazione necessaria per il tempestivo adempimento della prestazione, non è fonte di responsabilità professionale omettere di consigliare al cliente di accettare l'eredità con beneficio di inventario, in modo da farlo beneficiare della proroga (di altri sei mesi) prevista per tale ipotesi dalla legge (art. 31, lett. d, del d.lgs. 31 dicembre 1990, n. 346, ante novella), trattandosi di una deviazione dell'atto dal suo scopo precipuo. Tra i doveri di un professionista, in particolare, come precisa la Suprema Corte, non vi è difatti quello di «aggirare» le prescrizioni di legge, deviandole dallo scopo loro proprio che, con riferimento all'accettazione dell'eredità con beneficio di inventario, si sostanzia nel mantenimento della distinzione tra i patrimoni del defunto e dell'erede e non nell'ottenere una dilazione del termine per la presentazione della dichiarazione di successione. Il conseguimento della dilazione, quindi, non può considerarsi compreso tra i compiti del professionista incaricato della presentazione della suddetta dichiarazione (Cass. II, n. 4422/2011, in Danno e resp., 2011, 7, 742, con commento di Covucci). Responsabilità per ritardo nella conclusione del processoLa responsabilità professionale dell'avvocato può scaturire anche da una scelta processuale che, pur di per sé non erronea o controproducente, ritardi la realizzazione dell'interesse del cliente. In tali ipotesi sorge in capo al professionista una responsabilità per danni patiti dal cliente in conseguenza del ritardo nella conclusione della causa, liquidabili in via equitativa. Non può peraltro costituire causa di esenzione da tale responsabilità il solo fatto che sussistano, in ipotesi, ritardi già accumulati durante il corso del giudizio, giacché il sovrapporsi di nuove dilazioni aggrava le conseguenze dannose dell'illecito. La detta responsabilità trova altresì conferma anche nella disciplina sulla responsabilità dello Stato per l'eccessiva durata dei processi, di cui alla l. 24 marzo 2001, n. 89, oltre che nell'art. 111 Cost. In applicazione del principio di cui innanzi Cass. III, n. 18360/2010, ritiene responsabile dei danni da ritardo, liquidabili in via equitativa, il difensore che, in corso di giudizio, aveva dichiarato erroneamente la sussistenza di una causa interruttiva del processo, nella specie, l'avvenuta fusione per incorporazione della società patrocinata, provocandone effettivamente l'interruzione. Cass. III, n. 17506/2010, invece, ritiene professionalmente negligente l'instaurazione di un giudizio ordinario in luogo di un ricorso monitorio, nonostante l'idonea prova scritta del credito. L'orientamento di cui innanzi è quello attualmente pacifico nella giurisprudenza di legittimità, come detto fondante anche sulla responsabilità dello Stato per irragionevole durate del processo e, quindi, sui principi costituzionali del giusto processo, di cui al riscritto art. 111 Cost. Può dunque ritenersi definitivamente superato il diverso e remoto orientamento dell'irrisarcibilità del danno per il «semplice ritardo nella definizione della lite». In forza di tale remoto orientamento, difatti, chi, dopo essere riuscito vittorioso nel giudizio di merito veda annullato l'intero processo dalla Corte di Cassazione per un difetto di attività processuale, nella specie la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del Pubblico Ministero, a causa del quale le parti siano state rimesse innanzi al giudice di primo grado, non ha ancora risentito alcun danno, perché il giudizio non e concluso e non si può escludere che esso possa avere un esito favorevole, cosi come lo aveva avuto il giudizio annullato. D'altra parte, precisa la Suprema Corte, il semplice ritardo nella definizione della lite non costituisce di per sé ragione di danno tanto più che, trattandosi, nella specie, di integrale rinnovazione del processo, la parte ha la più ampia possibilità di difesa, essendole consentito proporre anche quelle eccezioni che eventualmente non fossero state avanzate nel giudizio precedente (Cass. II, n. 2791/1968, in Giur. it., 1969, 1, 1938, con nota di Lega, 1939). Responsabilità per «cause presumibilmente perse ab initio»L'attività del difensore, anche in caso di controversie di notevole difficoltà e tali da esporre il cliente ad un elevato rischio di soccombenza (c.d. «cause, presumibilmente, perse ab initio»), deve essere svolta con diligenza al fine di limitare od escludere il pregiudizio riconducibile alla posizione del cliente, anche sollevando le eccezioni relative ad eventuali errori di carattere sostanziale o processuale della controparte. In punto di diritto è perduta ab origine la causa che contrasti con il testo normativo sul piano della logica formale, quella che non trovi un orientamento dottrinale, anche se minoritario, ne un indirizzo giurisprudenziale, ancorché soccombente, disposti a validarla. In punto di fatto, invece, è persa ab origine, la causa munita di evidenze probatoria non idonee di raggiungere la soglia della verosimiglianza (E. Carbone, 2526, il quale, dopo aver ripercorso le tematiche inerenti le questioni opinabili oltre che gli obblighi di informazione e di dissuasione gravanti in capo all'avvocato, conclude in termini di necessaria trasparenza delle condizioni di mandato ma anche di libertà del ceto forense di concorrere ai processi di aggiornamento del diritto vivente). Pertanto, il difensore può non accettare una causa per la quale preveda già dall'inizio la soccombenza del suo assistito ma non può accettarla e, poi, disinteressarsene del tutto, con il pretesto che trattasi di una «causa persa», senza nemmeno attivarsi per trovare una soluzione transattiva, essendo tale comportamento comunque doveroso ove si accetti di difendere una causa rischiosa per il proprio cliente. In caso di assoluta inerzia del difensore si configura quindi la sua responsabilità professionale, avendo comunque esposto il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali a cui lo stesso va incontro, per la propria difesa e per quella della parte avversa (Cass. III, n. 15717/2010, in Giur. it., 2010, 12, 2525 – con nota di E. Carbone, cit.– la quale precisa che, nelle ipotesi di causa persa ab initio, la colpa dell'avvocato può concretizzarsi anche nell'aver omesso di tentare una soluzione transattiva). Errori in primo grado e rimediabilità in appelloIn generale, la circostanza per la quale l'errore commesso dall'avvocato nel giudizio di primo grado è rimediabile attraverso la proposizione dell'appello contro la sentenza sfavorevole non è sufficiente, di per sé, ad escludere che la parte abbia risentito e continui a risentire danno dalla lamentata negligenza, soprattutto nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia passata in giudicato. L'appello, difatti, protrae la durata e le spese del processo, presenta le incertezze e l'aleatorietà insite in ogni controversie. Il poter disporre di un solo grado di giudizio per far valere compiutamente le proprie difese costituisce quindi un pregiudizio per la parte, non potendo sapere a posteriori se l'impugnazione avrebbe consentito alla parte di rimediare per intero ai danni derivanti alle inadempienze del legale nel giudizio di primo grado. Argomentando nei termini di cui innanzi Cass. III, n. 15781/2010 ritiene affetta da vizio di motivazione la sentenza che escluda la responsabilità professionale del difensore allorquando la soccombenza sia dipesa da errori di impostazione attinenti alla sfera processuale o alla corretta evocazione in giudizio dei soggetti legittimati passivi (come nella specie), siccome riconducibili a competenze squisitamente tecniche, senza che risultino esaminati i profili relativi all'ascrivibilità del rigetto della domanda risarcitoria a colpa dell'assistito o all'emergenza di fatti idonei a dimostrare la mancanza di colpa del legale nonché i profili relativi all'imputabilità dell'omessa proposizione dell'appello a colpa del cliente o non, piuttosto, alla responsabilità del professionista. Responsabilità dell'avvocato e vendita all'incantoLa fissazione del prezzo di vendita al nuovo incanto di un immobile rimasto invenduto nel primo per mancanza di offerte, in una cifra inferiore a quella risultante dall'applicazione della percentuale di riduzione prevista dall'art. 591 comma 2, c.p.c., costituisce, qualora la vendita segua a detto prezzo, un fatto potenzialmente idoneo a cagionare danno al debitore esecutato. Ciò, tuttavia, può fondare la responsabilità professionale del difensore dell'esecutato quando risultino altresì accertati la sussistenza in concreto del danno, il nesso eziologico tra lo stesso e la condotta del professionista, la colpevolezza di tale condotta (Cass. II, n. 3612/1982). Sempre in tema di partecipazione all'incanto, e con particolare riferimento all'obbligo di informazione gravante sul professionista legale nei confronti del proprio cliente, le notizie errate circa la consistenza del compendio pignorato fornite all'assistito, nel caso di conferimento di incarico i sensi dell'art 583 c.p.c., possono configurare un profilo di responsabilità professionale in termini di carenza di attività di consulenza ed assistenza al momento decisivo di partecipazione alla gara (Cass. III, n. 1764/2012). Responsabilità dell'avvocato e doveri di correttezza del clienteIn relazione a fattispecie di responsabilità professionale di un avvocato nei confronti del cliente, non rientra tra i doveri di correttezza di quest'ultimo, ex art. 1227 c.c., quello di intraprendere un'azione giudiziaria aggiuntiva con accollo dei costi e dei rischi relativi (Cass. II, n. 7618/1997, in Nuova giur. civ. comm., 1998, 6, 890, con nota di Martini). Decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento danni da responsabilità professionaleIl termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità professionale inizia a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista determina l'evento dannoso, bensì da quello in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e conoscibile da chi abbia interessa a farlo valere (cioè dal danneggiato). In applicazione del principio di cui innanzi, in caso di dedotta negligenza dell'avvocato per omessa trascrizione dell'atto di citazione in un'azione ex art. 2932 c.c., la prescrizione inizia a decorrere non dalla cessazione del rapporto professionale ma dal momento in cui il cliente sia stato posto nella condizione di conoscere le lamentate inadempienze del suo difensore. Nei termini di cui innanzi argomenta la Suprema Corte, confermando la sentenza dei giudici di merito che avevano stabilito la decorrenza della prescrizione dal trasferimento coattivo della proprietà del bene al cliente, perché in quel momento il danno era divenuto percepibile, conoscibile ed azionabile al fine di esercitare il diritto al risarcimento del danno nei confronti del legale (Cass. II, n. 16658/2007). Il medesimo principio di diritto è altresì applicato in un'ipotesi di responsabilità professionale per avere il difensore in causa di risarcimento danni erroneamente evocato in giudizio un soggetto diverso da colui che risultava essere il vero responsabile. Cass. III, n. 10493/2006 ritiene difatti che correttamente il giudice del merito aveva considerato la prescrizione dell'azione nei confronti del suddetto legale iniziare a decorrere dalla notificazione della sentenza del definitivo accertamento giudiziale della carenza di legittimazione del soggetto in quell'altro processo convenuto, quale momento in cui il danno si era manifestato all'esterno nella sua oggettività, divenendo percepibile, conoscibile ed azionabile sul piano della domanda risarcitoria (in senso conforme si veda anche Cass. III, n. 16463/2009, in Resp. civ. e prev., 2010, 7-8, 1531, con commento di Musolino). L’orientamento di cui innanzi è confermato ed ulteriormente specificato dalla recente Cass. III, n. 24270/2020 per la quale In tema di responsabilità professionale dell'avvocato per inadempimento al mandato difensivo in ambito giudiziale, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista determina l'evento dannoso, bensì da quello in cui la produzione del danno è oggettivamente percepibile e conoscibile dal danneggiato, cioè dall'esito definitivo del giudizio. Solo dalla formazione del giudicato, difatti, l'effetto dannoso dell'inadempimento professionale può dirsi effettivo e a quello causalmente connesso, non potendo applicarsi, invece, tale decorrenza al diverso caso di inadempimento del mandato professionale in ambito stragiudiziale. In applicazione del detto principio con l’ordinanza da ultimo citata la Suprema Corte, nel confermare la decisione di merito che aveva correttamente identificato il dies a quo della prescrizione del diritto risarcitorio del soggetto difeso dall'esito definitivo del processo, ha precisato che ciò si giustifica in ragione della peculiarità dell'inserimento dell'esecuzione del rapporto professionale nella struttura del processo e non è applicabile in ambiti diversi. Responsabilità dei componenti del CoaQualora il provvedimento disciplinare inflitto dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati (Coa) sia annullato dalla Corte di cassazione o sia revocato dal Consiglio medesimo, non sussiste la responsabilità civile dei componenti del Coa per i danni asseritamente arrecati al destinatario della sanzione in ragione dell'esito del procedimento. La Suprema Corte conclude nei termini di cui innanzi atteso che la violazione del codice deontologico può rilevare in sede giurisdizionale solo se affetta da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, consentendo in tali casi il ricorso alla Sezioni Unite della Corte di cassazione. Il rispetto dell'autonomia degli Ordini, preposti a far rispettare il codice deontologico forense, esclude altresì che integri, di per sé, una condotta illecita l'espletamento delle funzioni disciplinari, trattandosi di mezzo di controllo dei comportamenti dell'incolpato, contrari alla dignità e al decoro professionale (Cass. III, n. 19246/2015). Con particolare riferimento al riparto di giurisdizione, la controversia promossa da un avvocato nei confronti del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati (ente pubblico non economico), tendente a conseguire il risarcimento del danno asseritamente derivante dal mancato esercizio dell'azione disciplinare nei confronti di suoi colleghi, nonché dall'avvenuto rilascio del parere di congruità sulle parcelle professionali in favore degli stessi, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo. Trattasi, difatti, nel primo caso, di contestazione del mancato esercizio di una funzione pubblica e, nel secondo caso, dell'impugnazione di un atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, che non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale ed implicante la valutazione di congruità del quantum (Cass. S.U., n. 14812/2009). Responsabilità dell'avvocato verso l'erarioSe il procuratore legale, dopo aver trascritto nella citazione il contenuto (totale o parziale) di un atto soggetto a registrazione e non registrato, rinunzia al mandato ad lites prima della rimessione della causa dal giudice istruttore al collegio e senza che frattanto sia stato emesso un provvedimento giudiziale sulla base dell'atto non registrato, egli non e tenuto a rispondere verso l'erario delle conseguenze fiscali della mancata registrazione dell'atto medesimo. Ciò salvo che, nonostante la rinuncia al mandato, il difensore non abbia, in concreto, continuato a svolgerlo con effetti rilevanti ai fini della utilizzazione processuale dell'atto non registrato (Cass. I. n. 569/1973, in Foro it., 1973, 1, 1021, con commento di Andrioli). BibliografiaAmendolagine, Gli obblighi esigibili dal notaio in base alla normale diligenza comprendono anche la consultazione dei registri immobiliari, in Vita not. 2012, 1; Amoroso, Esito negativo e difensore negligente, Il giudice di pace, Milano, 2012, 1; Andrioli, Su di un'ipotesi di difensore «fideiussore del fisco», in Foro it. 1973, 1; Antezza, Il riparto dell'onere probatorio non può rigidamente fondarsi sulla posizione delle parti, in Il merit. 2006, 6, 29; Antezza, La responsabilità civile per mancata diagnosi di malattia del feto, in Il merit. 2006, 7-8; Attinà, La responsabilità professionale dell'avvocato e la misura della diligenza esigibile, in Contratti, 2014, 3; Balena, In tema di inesistenza, nullità assoluta ed inefficacia delle sentenze, in Foro it. 1993, 1; Barca, La responsabilità contrattuale dell'avvocato nell'espletamento del'incarico ricevuto, in Nuova giur. civ. comm., 2001, 489; Batà, Responsabilità del medico, omissione di informazioni e danno risarcibile per mancata interruzione di gravidanza, in Corr. giur. 1995, 1; Benatti, La quantificazione del danno nelle fattispecie di responsabilità dell'avvocato, Resp. civ., 2012, 3; Benedetti, La deriva dell'eccezione di inadempimento: da rimedio sospensivo a rimedio cripto risolutorio?, in Danno e resp., 2003, 7; Blaiotta, Causalità e colpa: diritto civile e diritto penale si confrontano, in Cass. pen. 2009, 1; Blaiotta, Con una storica sentenza le Sezioni Unite abbandonano l'irrealistico modello fonologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen. 2003, 4; Bonetta, Per la serie «anche gli avvocati piangono»: il procuratore risponde della nullità dell'atto di citazione, in Danno e resp., 2003, 1; Cacace, L'omissione del medico ed il rispetto della presunzione d'innocenza nell'accertamento del nesso causale, in Danno e resp., 2003, 2; Calderone-Cresta, Insussistenza della responsabilità dell'avvocato per l'estinzione di una procedura esecutiva infruttuosa, in Danno e resp., 2001, 520; Canazza, Revoca del fallimento e responsabilità (aggravata) del creditore istante, in Fall. e proc. conc. 2009, 11; E. Carbone, Responsabilità civile del patrono di causa persa, in Giur. it., 2010, 12; F. Carbone, Il conflitto di interessi avvocato-cliente, in Temi rom., 2005, 1-2; V. Carbone, Responsabilità medica, in Corr. giur. 2006, 7; Carusi, Fallito intervento di interruzione di gravidanza e responsabilità medica per omessa informazione: il danno da procreazione nella giurisprudenza della cassazione italiana e nelle esperienze straniere, in Rass. dir. civ. 1996, 2; Castronovo, Profili della responsabilità medica, in AA.VV., Studi in onore di P. Rescigno, Milano, 1998; Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958; Ciatti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di messi e le obbligazioni di risultato, in Giur. it. 2008, 7; Comoglio, voce «Procura (dir. proc. civ.)», in Enc. dir., agg. IV, 2000; Consolo, Le S.U. aprono alle domande «complanari»: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente ed irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, Corr. giur. 2015, 7; Conte, Profili di responsabilità civile e disciplinare dell'avvocato: nesso di causalità e critica con cognizione di causa in recenti pronunce della Suprema Corte, in Corr. giur. 2013, 2; Conte, Contrasti giurisprudenziali sul termine di prescrizione e responsabilità dell'avvocato, in Danno e resp. 2013, 11; Covucci, La responsabilità professionale dell'avvocato: l'evoluzione continua, in Danno e resp. 2011, 7; Covucci, La responsabilità professionale nello studio legale associato, in Danno e resp. 2007, 5; Cursi, responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell'onere probatorio, in Giur. it. 2008, 10; D'Alessandro, Le nuove frontiere del danno e la logica delle probabili, in Arc. civ. 2000, 11; D'Amico, la responsabilità ex recepto e la distinzione tra obbligazioni di «mezzi» e di «risultato». Contributo alla teoria della responsabilità contrattuale, Napoli, 1999, 130; Danovi-Ferraris, La cultura della mediazione e la mediazione come cultura, Milano, 2013; De Cupis, Il risarcimento della perdita di una «chance», in Giur. it. 1986, 8; De Fazio, Responsabilità del legale e perdita della chance di vincere il processo, in Resp. civ. e prev. 1997, 1170; De Lorenzi, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Dig. civ., XII, 1995; De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione, in Nuova giur. civ. comm. 2008; De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?, in Danno e resp. 2005, 1; De Marzo, Purché non siano percentuali: perdita di «chance» e quantum del danno risarcibile, in Foro it. 1991, 6; De Santis, La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali: le novità, in Foro it. 2013, V; Di Majo, Responsabilità contrattuale, in Dig. civ., 1998; Fabris, Mancata reintegra nel posto di lavoro ed errore professionale del difensore del lavoratore, Riv. dir. lav. 1977, 2; Fabrizio, L'avvocato e la responsabilità da parere, in Danno e resp. 2003; Fabrizio, La colpa professionale dell'avvocato: in crisi la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Danno e resp. 1999; Facci, L'errore dell'avvocato, l'appello e la chance di vincere il processo, in Resp. civ. e prev. 2002, 6; Favale, Contrasto giurisprudenziale ed obbligo dell'avvocato di seguire la via più sicura, in Giur. it. 2014, 4; Favale, La responsabilità civile del professionista forense, Padova, 2002, 73; Finocchiaro, In tema di inesistenza ed invalidità della sentenza per difetto di rappresentanza tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1998; Fiori-Marchetti, Un altro passo verso l'obbligazione di risultato nella professione medica?, in Riv. it. med. leg. 2008, 3; Foffa, Responsabilità professionale dell'avvocato per proposizione di un appello inammissibile, in Danno e resp. 2007, 11; Fortinguerra, La responsabilità dell'avvocato, in Bonilini-Carnevali-Confortini (a cura di), Codice della responsabilità civile e RC auto, Milano, 2015; Fortino, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1984; Gabrielli, La r.c. del professionista: generalità, in Cendon (a cura di), La responsabilità civile, VI, in Il diritto privato nella giurisprudenza, Torino, 1998; Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazione di mezzo/di risultato, in Resp. civ. e prev. 2008, 2; Gorgoni, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile, in Resp. civ. e prev. 2007, 2; Gazzara, Le S.U. «fanno il punto» in tema di onere della prova della responsabilità sanitaria, in Resp. civ. e prev. 2008, 7; Giacobbe, Professioni intellettuali, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987; Granelli, In tema di danni punitivi, in Resp. civ. e prev. 2014; Lascialfari, Causalità «scientifica» e causalità «giuridica» tra imputazione del fatto e risarcimento del danno, in Corr. giur. 2000, 7; Lega, In tema di responsabilità civile del difensore, ivi, 1939, in Giur. it. 1969, 1; Lepre, Nuovi spunti in tema di responsabilità civile dell'avvocato, in Nuova giur. civ. comm. 1999, 3; Mandrioli, Delle parti e dei difensori, in Allorio (diretto da) Commentario del codice di procedura civile, Milano, 1973, I; Mariconda, Inadempimento ed onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, in Corr. giur. 2001, 12; Marinelli, La responsabilità civile degli avvocati, in Rass. For. 2008; Martini, La violazione di norme deontologiche quale fonte di responsabilità professionale dell'avvocato, in Nuova giur. civ. comm. 1998, 6; Martinuzzi, La responsabilità dell'avvocato. Cenni generali, in La responsabilità civile dei professionisti: medici, notai e avvocati, in Quaderni fondazione forense bolognese, Bologna, 2004; Massa, Le sezioni unite davanti a «nuvole ed orologi»: osservazioni sparse sul principio di causalità, in Cass. pen. 2002, 12; Masucci, La r.c. dell'avvocato, in Cendon (a cura di), La responsabilità civile, VI, in Il diritto privato nella giurisprudenza, Torino, 1998; Mengoni, «Obbligazioni di risultato» e «obbligazioni di mezzi», in Riv. dir. comm. 1954, I; Meoli, Risoluzione per inadempimento ed onere della prova, in Nuova giur. civ. comm. 2002, 3; Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1996; Michetti, Responsabilità dell'avvocato e prova del danno, in Contratti 2009, 4; Milianti, Sui criteri di risarcimento dei danni conseguenti all'esclusione del lavoratore dal novero dei candidati a una promozione, in Riv. dir. lav. 1998, 4; Monnosi, Prova dell'inadempimento e liquidazione del danno, in Resp. civ. e prev. 2000, 4; Montaldo, Brevi considerazioni in materia di procura alle liti, in Riv. giur. sarda 2000, 1; Morozzo Della Rocca, in Giust. civ., 2010, 3, in nota a Cass. Civ. II, n. 21589/2009; Musolino, La prescrizione della responsabilità professionale, in Resp. civ. e prev. 2010, 7-8; Musolino, La responsabilità dell'avvocato per inosservanza dell'obbligo di informazione, in Resp. civ. e prev. 2010, 6; Musolino, L'opera intellettuale. Obbligazioni e responsabilità, Padova, 1995; Musy, Sicilcasse ed il danno da perdita di una chance, in Giur. it. 1994, 2; Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno e resp. 2008, 008, 8-9; Orru, Sulla responsabilità medica per mancata interruzione della gravidanza, in Nuova giur. civ. comm. 1995, 6; Pecora, Entra in scena la responsabilità «paraoggettiva» del medico. L'incidenza del dovere di informativa e la natura di «(quasi) risultato» dell'obbligazione professionale nel recente pronunciamento della Corte di Cassazione, in Riv.it. med. leg. 2005, 6; Pensa, Avvocati e procuratori: Responsabilità civile, penale e disciplinare, Milano, 1989; Perlingeri, Abuso dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. La responsabilità professionale dell'avvocato, in Corr. giur. 2011, 9; Perugini, La diligenza imposta al professionista nell'espletamento del suo incarico e l'obbligo di informazione, in Giur. it. 2005, 7; Perulli, Il lavoro autonomo. Contratto d'opera e professioni intellettuali, in Cicu-Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011; Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011; Plenteda, La responsabilità dell'avvocato, rischi risarcitori e strumenti di tutela, Matelica, 2008; Princigalli, Quand'è più si che no: perdita di «chance» come danno risarcibile, in Foro it. 1986, 2; Ricciardi, Lineamenti dell'ordinamento professionale forense, Milano, 1990; Riganò, Promozione a scelta: tutela delle posizioni soggettive del lavoratore e risarcibilità della perdita di chance, in Giur. it. 1997, 6; Ruta, La responsabilità dell'avvocato: alcune considerazioni in margine ad una riaffermazione della Suprema Corte, nella giurisprudenza di merito, in Resp. civ. e prev. 1994, 4; Sabatini, La valutazione dei vantaggi di una diversa prestazione del professionista: una nuova ipotesi di responsabilità dell'avvocato?, in Giust. civ. 2008, 9; Salvatore, L'avvocato e la responsabilità da parere, in Danno e resp. 2003, 3; Santoro Passarelli, Professioni intellettuali, in Nuovo D.I., XIV, 1967; Sburlati, La responsabilità civile del professionista intellettuale, in Resp. civ. e prev. 1995; Scalia-Centofanti, La responsabilità civile dell'avvocato, in Tenore (a cura di), L'avvocato e le sue quattro responsabilità, Napoli, 2014; Scarselli, Utilità della difesa e diritto al compenso, in Foro it., 2013, 6; Scoditti, Danni conseguenza e rapporto di causalità, in Foro it. 2000, 6; Sicchiero, Dalle obbligazioni di mezzi e di risultato alle obbligazioni governabili e non governabili, in Giur. it. 2015, 11; Spaziani, Il d.d.l. sulla responsabilità professionale del personale sanitario in discussione al Senato (AS 2224), in giudicedonna.it 2006, 2; Spinelli Francalanci, La responsabilità contrattuale dell'avvocato: la diligenza imposta al professionista nell'espletamento del suo incarico. Rapporto tra artt. 1176 e 2236 cod. civ. in Giur. it. 2003, 3; Tedeschi-Taddei, Il contratto d'appalto e la responsabilità del progettista-direttore dei lavori per i vizi e le difformità dell'opera, in Contratti 2006; Tecce, La prestazione del progettista tra locazione d'opera manuale e prestazione d'opera intellettuale, in Riv. trim. app. 2007; Torresi, Perdita di chance e tutela civile dei diritti, in Giur. it. 1999; Travaglino, Causalità civile e penale: modelli a confronto, in Corr. mer. 2008, 6; Trazzi, Responsabilità dell'avvocato per violazione dell'obbligo di informazione, in Contr. impr. 1999; Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010; Valore, Profili di responsabilità medica per omessa informazione al paziente delle carenze strutturali della clinica, in Giust. civ. 2011, 7-8; Venturello, L'esperienza francese, tedesca e di common law, in Giur. it., 1995, 5; Viglione, Prestazione d'opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazione di mezzi e di risultato, in Nuova giur. civ. comm. 2006, I; Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica, in Danno e resp. 2008, 10; Viney, Les obligations. La responsabilitè: conditions, Parigi, 1982; Zamboni, «Difetto di difesa tecnica e responsabilità per le spese di lite», in Nuova giur. civ. comm. 2002, 1; Zana, Responsabilità del professionista, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, 4; Zana, La responsabilità del medico, in Riv. crit. dir. priv. 1987, 1; Zeno Zencovich, Danno per la perdita della possibilità di una utilità futura, in Riv. dir. comm. 1986, 2. |