Codice Civile art. 2052 - Danno cagionato da animali.

Mauro Di Marzio

Danno cagionato da animali.

[I]. Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni [2056 ss.] cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito [672 c.p.], salvo che provi il caso fortuito [1218, 1256 1].

Inquadramento

Si fronteggiano, nell'interpretazione della norma in commento, due contrapposte opinioni, quella di impianto soggettivista, che inquadra la responsabilità per danno cagionato da animali nel contesto della responsabilità per colpa, identificando il fondamento dell'imputazione di responsabilità nella violazione di un obbligo di custodia (Bianca, 725; De Cupis, 89), e quella che ravvisa nella disposizione un'ipotesi di responsabilità oggettiva, giustificata vuoi sulla base del principio dell'utilità espresso nel latinetto cuius commoda, eius et incommoda (Franzoni, 1993, 607; Galgano, 382; Messineo, 588; Monateri, 476), vuoi sulla base del principio del rischio, in forza del quale la responsabilità ricade su colui che svolge attività tali da creare rischio per la collettività dei terzi (per tutti Trimarchi, 192).

Analoga contrapposizione di opinioni si ritrova nel dibattito giurisprudenziale, che vede fronteggiarsi la soluzione, recessiva, secondo cui l'art. 2052 c.c. pone una presunzione di responsabilità per colpa in custodiendo, la quale ammette la prova contraria consistente nella prova dell'osservanza del necessario standard di diligenza nella custodia (Cass. n. 9794/1998; Cass. n. 2717/1983), presunzione peraltro operante secondo altre decisioni iuris et de iure, e cioè tale da escludere detta prova contraria (Cass. n. 11570/2009), e la soluzione ormai ampiamente prevalente secondo la quale il fondamento della responsabilità per danno cagionato da animali risiede nel rapporto di utenza intercorrente tra il proprietario, ovvero chi se ne serve temporaneamente, e l'animale, sicché la norma disciplina una fattispecie di responsabilità oggettiva, fondata cioè non già sulla colpa del padrone o dell'utente dell'animale, bensì sul menzionato rapporto di utenza, con l'ulteriore conseguenza che il proprietario, o chi fa uso dell'animale, risponde, a prescindere da ogni riscontro di un qualche coefficiente di negligenza suo carico, in dipendenza della sola sussistenza del nesso di causalità fra l'azione dell'animale ed il danno (Cass. n. 10402/2016; Cass. n. 17091/07/2014; Cass. n. 7260/2013; Cass. n. 6454/2007). In tale prospettiva l'espressione «custodia», contenuta nella norma, viene disancorata dal possibile significato volto ad individuare lo standard di diligenza richiesto, e viene intesa nella sua oggettività come «rapporto in forza del quale taluno detenga contemporaneamente il potere di gestione, di vigilanza e di controllo dell'animale, ed il potere di trarne utilità e profitto» (Cass. n. 22632/2012; Cass. n. 10189/2010), sicché «custodia» viene ad essere sinonimo di «impiego» dell'animale da parte del proprietario o di chi, per l'appunto, lo ha in uso.

Le figure di responsabile: proprietario e «utente»

Rispondono del danno cagionato da animale, ai sensi della norma in commento, tanto il proprietario, quanto chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso: le due figure si pongono in relazione di alternatività, e cioè, se l'animale è stato affidato in uso a chi non ne è proprietario, la responsabilità dell'«utente» esclude quella del proprietario (Franzoni, 2010, 524; Monateri, 478). Corollario del carattere oggettivo della responsabilità in discorso è la sussistenza di essa anche in ipotesi di incapacità del proprietario o dell'«utente», non potendosi cioè applicare l'art. 2047 (Monateri, 476).

Il problema del carattere della responsabilità per danno cagionato da animali si riflette altresì sulla nozione di persona che «se ne serve per il tempo in cui l'ha in uso», ossia di «utente». «Utente» dell'animale, per chi segue l'impostazione soggettivista, è colui il quale abbia al momento del fatto la custodia, intesa quale governo, controllo dell'animale (Bianca, 722). Secondo l'impostazione oggettivista, viceversa, la qualifica di utente dell'animale spetta a chi ritragga da esso le normali utilità, peraltro non necessariamente economiche (Franzoni, 2010, 529; Monateri, 477). Si discute se possa essere qualificato utente, per i fini dell'applicabilità dell'art. 2052 c.c., colui che ha temporaneamente la cura dell'animale, come il veterinario, il maniscalco, lo stalliere, ecc.. Alcuni rispondono affermativamente, sul rilievo che anch'essi ritraggono un utile dall'animale per il tramite di dette attività (Monateri, 478). Altri replicano che l'art. 2052 c.c. non si applica in presenza di un qualsiasi vantaggio per il soggetto, ma solo se l'utente possa ritrarre dall'impiego dell'animale le normali utilità che gli sono proprie (Franzoni, 2010, 530).

In caso di danni arrecati dall'animale di proprietà del datore di lavoro, nell'arco temporale in cui esso è sotto la custodia del dipendente, si ritiene di regola esclusa la responsabilità di quest'ultimo (Bianca, 724). Tuttavia, in applicazione delle regole dettate dall'art. 2049 in tema di responsabilità dei padroni e committenti, la responsabilità viene fatta ricadere sul dipendente in caso di recisione del rapporto di c.d. occasionalità necessaria, e cioè quando il dipendente abbia fatto un impiego abusivo dell'animale, esorbitante rispetto alle mansioni affidategli (Monateri, 478).

Anche la giurisprudenza ritiene che proprietario e utente siano alternativamente e non cumulativamente responsabili (Cass. n. 8102/2012; Cass. n. 16023/2010; Cass. n. 13016/1992; Cass. n. 1435/1958; ma v. App. Brescia 14 gennaio 1969, in Giur. It. 1969, I, 2, 927, secondo cui dei danni cagionati da un cane adibito alla guardia di un ristorante, nel momento in cui non è adibito a tale funzione, risponde non soltanto il proprietario del cane, ma anche, quale coutente, il contitolare dell'esercizio del ristorante). In caso di comproprietà dell'animale tutti i comproprietari ne rispondono solidalmente, in applicazione dell'art. 2055 c.c. (Cass. n. 88/1972). La responsabilità del proprietario può concorrere con quella di altri, non solo ai sensi dell'art. 2043 c.c., ma anche in forza di una presunzione di responsabilità normativamente disciplinata altrove (se ne rinviene un caso nella remota Cass. n. 3767/1954, in Resp. civ. e prev. 1955, 435, contenente affermazione di concorrente responsabilità del proprietario di un cane, che aveva azzannato una bambina, la quale aveva tirato la coda all'animale, e della persona incaricata della sorveglianza della stessa). Occorre d'altro canto accennare che la responsabilità extracontrattuale del proprietario (ovvero dell'«utente») può concorrere con la responsabilità contrattuale, eventualmente del medesimo soggetto, quando ne ricorrano i presupposti (Cass. n. 261/1977).

Quanto all'«utente», la SC, in armonia con l'indirizzo oggettivista, lo identifica in colui il quale eserciti sull'animale, al di fuori dell'ingerenza del proprietario, un potere analogo a quello spettante a quest'ultimo, sia che detto potere trovi fondamento in un diritto reale o personale di godimento, sia che si fondi su una situazione di mero fatto (Cass. n. 8102/2012, che ha escluso la responsabilità del proprietario di un cavallo per i danni subiti da una donna che era stata investita dall'animale, atteso che dalle risultanze istruttorie era emerso che l'animale non era stato usato dal proprietario, ma da un terzo, per soddisfare un interesse autonomo, anche non coincidente con quello del proprietario). Perché la responsabilità del proprietario gravi su di un altro soggetto, occorre dunque che il proprietario si sia spogliato, giuridicamente o di fatto, della facoltà di far uso dell'animale (intendendo tale locuzione nel senso di trarne un profitto), trasferendolo ad un terzo. Qualora, invece, il proprietario continui a far uso dell'animale sia pure tramite un terzo e, quindi, abbia ingerenza nel governo dello stesso, resta responsabile dei danni arrecati dallo stesso (Cass. n. 14743/2002, che ha ritenuto un centro ippico responsabile dei danni subiti da un'amazzone a seguito di caduta da un cavallo di proprietà del centro stesso). Per «utente» dell'animale deve intendersi in definitiva non già il soggetto diverso dal proprietario che vanti sull'animale un diritto reale o personale di godimento, ma colui che, col consenso del proprietario, ed anche in virtù di un rapporto di mero fatto, usa l'animale per soddisfare un interesse autonomo, anche non coincidente con quello del proprietario (Cass. n. 16023/2010). In tale prospettiva, in regime di mezzadria, si riteneva ricadere la responsabilità in parola sul mezzadro e non sul concedente (Cass. n. 130161992). Nella stessa linea, come accennato, si colloca la giurisprudenza della SC in tema di danni riportati da cavalieri all'interno di maneggi: la responsabilità, cioè, ricade di regola sul proprietario del maneggio e non sul cavaliere, che non può ritenersi «utente», nel senso indicato dall'art. 2052 c.c. (Cass. n. 5664/2010; Cass. n. 979/2010; Cass. n. 20063/2008; Cass. n. 14743/2002). Poiché l'esclusione della responsabilità del proprietario è ipotizzabile solo allorché egli si sia spogliato del governo dell'animale, tale responsabilità, in caso di sinistro verificatosi in un maneggio nel corso di una lezione di equitazione, ricade esclusivamente sull'istruttrice, proprietaria dell'animale, ove la stessa svolga la propria attività in piena autonomia rispetto al club ippico (Cass. n. 25738/2015). La SC ha parimenti escluso la responsabilità del proprietario del maneggio in un caso in cui l'animale era stato locato al padre di una minore, che lo aveva portato fuori dal recinto del maneggio per una passeggiata e, quindi, per realizzare un interesse proprio ed autonomo (Cass. n. 12025/2000). Analogamente, è stata esclusa la responsabilità del proprietario del maneggio per i danni subiti da un'amazzone investita da altro cavallo, appartenente al maneggio, ma al momento montato da un cavaliere (Cass. civ. n. 8102/2012). Sempre in tema di maneggi, come meglio si vedrà più avanti, è stata ritenuta l'applicabilità dell'art. 2050 c.c., in tema di responsabilità per attività pericolose, in caso di danni riportati da cavalieri principianti o inesperti (Cass. n. 24211/2015).

Qualora il proprietario affidi l'animale dietro compenso ad un soggetto per ragioni di cura (veterinario, maniscalco, stalliere, ecc.) l'applicabilità dell'art. 2052 c.c. viene per lo più esclusa, giacché il rapporto di utenza previsto dalla norma deve dar luogo ad un godimento analogo a quello altrimenti spettante al proprietario, il che non accade nelle ipotesi considerate, nelle quali il compenso percepito dal soggetto proviene dall'attività che egli stesso presta, e non è ritratta dall'animale. È stata così esclusa la responsabilità ex art. 2052 c.c. di una clinica veterinaria alla quale era stato affidato un cane che aveva morso un uomo (Cass. n. 16023/2010); di un maneggio al quale era stato affidato un cavallo che aveva scalciato un dipendente del circolo ippico (Cass. n. 5226/1977); di un pastore, che, alle dipendenze del proprietario, aveva portato un gregge al pascolo (Cass. n. 3558/1969, la quale va rammentata anche dall'angolo visuale dell'esclusione della responsabilità del dipendente del proprietario dell'animale). Talora, tuttavia, è stato detto che il proprietario di un animale, ai sensi dell'art. 2052 c.c., non risponde dei danni da questo causati a chi lo deteneva temporaneamente in vista del perseguimento di un interesse proprio, onde il trasportatore di animali non può pretendere dal proprietario di essi il risarcimento del danno causatogli dalle bestie durante le operazioni di carico o scarico, dal medesimo espletate in piena autonomia (Cass. n. 22632/2012, in Resp. civ. prev., 2013, 858, con nota di Felleti, La nozione di utente dell'animale ai sensi dell'art. 2052 c.c.: punti fermi e questioni ancora aperte).

In caso di affidamento dell'animale ad un terzo che lo custodisca per ragioni di cortesia, in assenza di precedenti della SC, sembra doversi mutuare la nozione oggettivista di utenza, che esclude la responsabilità del custode a titolo di cortesia.

Si esclude pure che il dipendente sia responsabile per i danni provocati dall'animale di proprietà del datore di lavoro durante lo svolgimento della sua attività lavorativa (Cass. n. 10189/2010).

Anche la pubblica amministrazione può rispondere ai sensi dell'art. 2052 c.c. in quanto proprietaria (o eventualmente «utente») dell'animale. La norma trova difatti il proprio fondamento nel principio per cui chi fa uso dell'animale nell'interesse proprio e per il perseguimento di proprie finalità, anche se non economiche, è tenuto risarcire i danni arrecati ai terzi che siano causalmente collegati al suddetto uso: in tale situazione, viceversa, non rientra colui il quale utilizzi l'animale per svolgere mansioni inerenti alla propria attività di lavoro, che gli siano state affidate dal proprietario dell'animale alle cui dipendenze egli presti tale attività (Cass. n. 10189/2010, concernente domanda avanzata da un componente del corpo di polizia municipale, di risarcimento dei danni conseguenti alla caduta dovuta all'impennata del cavallo da lui montato, sul rilievo che in quel momento l'animale era affidato alla custodia dello stesso danneggiato). Sulla tematica del danno cagionato da animali selvatici v. infra.

Grava sul danneggiato la prova della proprietà dell'animale in capo al preteso danneggiante, ovvero la sussistenza del rapporto di utenza (Cass. n. 200/2002, in Resp. civ. prev., 2002, 1390, con nota di Citarella, Mandrie, (moto) veicoli e responsabilità civile). Ai fini della prova della proprietà, per quanto riguarda i cani, assumono rilievo le risultanze dell'anagrafe canina prevista dalla l. n. 281/1991, «legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo». D'altro canto l'individuazione della proprietà del cane pone problemi di una qualche complessità, i quali discendono dalla difficoltà di ricondurre il rapporto tra «padrone e cane» in termini meramente proprietari avuto riguardo alla semplice natura di bene mobile dell'animale (v. sul tema Pret. Rovereto 15 giugno 1994, in Nuova giur. civ. comm. 1995, I, 133, con nota di Zatti, Chi è il «padrone» del cane?). L'accertamento del giudice di merito concernente la proprietà dell'animale costituisce apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 1210/2006, in motivazione).

La presunzione di responsabilità che l'art. 2052 c.c. sancisce a carico del proprietario dell'animale o di chi se ne serve, per il tempo in cui lo ha in uso, come si diceva, è alternativa, non cumulativa, né solidale. Pertanto il proprietario, per esimersi dalla sua responsabilità, deve dimostrare che l'animale, nel momento in cui fu causa dell'evento lesivo, era uscito dalla sua sfera di controllo, con il conseguente trasferimento in altra persona del dovere di vigilanza e di sorveglianza. In difetto di che sussiste la presunzione legale ricollegantesi al rapporto di proprietà. Al riguardo, in particolare, deve distinguersi, fra le varie specie di animali, e così, ad es., fra il caso del cavallo dato in comodato o in locazione ad altri perché se ne serva, e quello di un cane che, vedendo uno dei suoi padroni, lo segua e gli si accompagni. In tale seconda ipotesi, non potendosi parlare di servizio in senso tecnico, legittimamente il danneggiato persegue civilmente il proprietario, nei confronti del quale gli incombe soltanto l'onere di provare la proprietà e la causa del danno, laddove spetta al chiamato in quella qualità di dimostrare il rapporto, di regola contrattuale, intervenuto con un terzo, in virtù del quale si era realizzato quel trapasso di utilizzazione che spezza il nesso di collegamento con il dovere giuridico di vigilanza nel quale è riposta la responsabilità del proprietario. Pertanto non può il proprietario esimersi da responsabilità assumendo semplicemente che il cane, al momento del fatto, si accompagnava ad altra persona (Cass. n. 1435/1958).

In caso di danno prodotto da più animali riuniti, anche occasionalmente, in gregge o in mandria, ed appartenenti a soggetti diversi, i diversi proprietari dei singoli animali, nei cui confronti opera la presunzione di responsabilità ex art. 2052, rispondono solidalmente del danno solo se questo risalga, con rapporto di causa ad effetto, all'intero gregge, o all'intera mandria, intesi come entità indistinte. La regola generale della solidarietà non può operare, invece, quando il danno sia stato provocato da uno solo, o da alcuni, degli animali riuniti, ipotesi nella quale di esso risponde solo il proprietario di quello o di quegli animali, senza che sia possibile coinvolgere nella responsabilità anche i proprietari degli altri animali del gregge, o della mandria, estranei all'accaduto (Cass. n. 1967/2000).

Il nesso di causalità

Una volta intesa la responsabilità per il danno cagionato da animali quale responsabilità oggettiva, l'addebito a carico del proprietario o di chi ha in uso l'animale si ricollega alla mera sussistenza del nesso di causalità tra l'azione dell'animale ed il danno (Galgano, 384), nesso di causalità che va ravvisato ogni qual volta l'animale sia causa efficiente del danno e, cioè, il danno sia riconducibile a detta azione, quantunque manifestatasi attraverso moti riflessi o istintivi (Franzoni, 2010, 533), ed anche ove l'azione dell'animale non attinga la vittima, la quale si procuri il danno in conseguenza della sua azione e per sottrarsi ad essa (Monateri, 480). Si ritiene per converso che esuli dall'ambito di applicazione dell'art. 2052, e ricada sotto quello dell'art. 2043, il caso in cui l'animale sia soltanto il tramite di una condotta originatasi in capo al proprietario o a colui che lo ha in uso, come nel caso in cui questi aizzino un cane contro la vittima (Monateri, 480). Parimenti al di fuori del campo di operatività della disposizione si colloca il caso in cui l'animale altro non sia che l'occasione del danno, e non la causa di esso, come nell'ipotesi in cui un distratto viandante inciampi in un animale assopito al suolo (Franzoni, 2010, 534, il quale esclude altresì l'applicabilità della norma nel caso di malattia contratta per contagio dall'animale).

Ricade sul danneggiato l'onere della prova del nesso di causalità ivi compresa la riconducibilità dell'azione dell'animale alla sua natura (Franzoni, 2010, 535). La distribuzione dell'onere della prova si modifica però nell'ipotesi, simultaneamente disciplinata dagli artt. 2052 e 2054 c.c., dell'urto di un animale, che si trovi sulla sede stradale, da parte di un veicolo in transito. Si presume, cioè, in tal caso, sia pure fino a prova contraria, la sussistenza del nesso di causalità richiesto dall'art. 2052 c.c., sicché non occorre dimostrare che l'azione dell'animale ha causato lo scontro (Ventrella, 2990).

La SC ritiene egualmente che la responsabilità sancita dall'art. 2052 ricorre tutte le volte che il danno sia stato prodotto, con diretto nesso causale, dal fatto proprio dell'animale secundum o contra naturam, comprendendosi in tale concetto qualsiasi atto o moto dell'animale quod sensu caret (che è cioè mancante di ragione), che dipenda dalla natura dell'animale medesimo e prescinda dall'agire dell'uomo (Cass. n. 261/1977; Cass. n. 778/1979). Sussiste pertanto il nesso di causalità non solo in caso di danno prodotto da uno dei tipici fatti o moti dell'animale insiti nella sua innata selvatichezza (come i morsi, i calci, le cornate), ma anche per effetto di un comportamento dell'animale non meno istintivo e naturale, quale il libero spostarsi su una pubblica via di alcune mucche (così in motivazione Cass. n. 5783/1997, ed in seguito analogamente Cass. n. 3311/2013).

In armonia con l'indirizzo dottrinale poc'anzi rammentato, la SC escluso il nesso eziologico in caso di contagio dall'animale a terze persone o altri animali, giacché non ricorre nel frangente un fatto dell'animale (Cass. n. 1004/1970). Anche il caso del fatto dell'uomo che abbia aizzato l'animale è risolto dalla SC nel modo poi condiviso dalla dottrina, ossia con l'esclusione dell'applicabilità dell'art. 2052 c.c. (Cass. n. 261/1977), essendo viceversa applicabile l'art. 2043 c.c. Mentre la responsabilità ex art. 2054 c.c. può sussistere esclusivamente quando l'evento dannoso si verifichi in una zona aperta al pubblico transito e ordinariamente adibita al traffico veicolare (a prescindere dal carattere pubblico o privato della zona stessa), in quanto la pericolosità della circolazione stradale è legata alla pluralità dei soggetti coinvolti, la speciale responsabilità prevista dall'art. 2052 c.c. per i danni cagionati da animali trova applicazione sia con riguardo ad eventi dannosi verificatisi in aree aperte al pubblico che in relazione ad eventi dannosi occorsi in zone non aperte al pubblico. Siffatta applicazione dell'art. 2052 c.c. è conforme a Costituzione, poiché la pericolosità dell'animale permane anche in luoghi chiusi al pubblico. Pertanto, il postino che, mentre si trovava a bordo della propria «Vespa», sia stato aggredito dal cane sul vialetto privato di accesso all'abitazione del destinatario della corrispondenza, ha diritto al risarcimento del danno da parte del proprietario dell'animale (Cass. n. 26205/2011, in Resp. civ. prev., 2012, 1232, con nota di Felleti, Danni cagionati da animali: responsabilità del proprietario anche in aree non aperte al pubblico, doveri istituzionali dell'amministrazione in relazione alla fauna selvatica e ai cani randagi vaganti sul territorio).

Anche sul punto del riparto dell'onere della prova del nesso di causalità fra il comportamento dell'animale ed il danno vi è concordia con la dottrina. Secondo la SC, cioè, detta prova grava sulla vittima, collocandosi la sussistenza del nesso di causalità dal versante del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria (Cass. n. 10402/2016; Cass. n. 17091/2014; Cass. n. 7260/2013; Cass. n. 15895/2011).

L'accertamento del nesso di causalità costituisce una questione di fatto non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione (Cass. n. 3311/2013).

La prova liberatoria

Proprietario ed utente si liberano della responsabilità dando la prova del caso fortuito, nel che è fatta ricadere anche l'ipotesi della forza maggiore. Detta prova viene fatta coincidere dai fautori della concezione soggettivista della responsabilità per danni cagionati da animale con la prova di aver adottato tutte le cautele idonee ad evitare il danno (Bianca, 726; De Cupis, 92). Per converso, la configurazione oggettivista della responsabilità in questione conduce ad identificare il fortuito in un fatto, estraneo alla condotta del proprietario o dell'utente, tale da interrompere il nesso di causalità tra l'azione dell'animale ed il danno (Franzoni, 2010, 536; Monateri, 482), ivi compreso il fatto del danneggiato o di un terzo.

In quest'ottica l'effetto liberatorio non si produce in caso di smarrimento o fuga dell'animale, indipendentemente dallo scrutino di colpa del proprietario (Franzoni, 2010, 532; Monateri, 481). Si ritiene però che il furto dell'animale, che abbia poi arrecato danno ad alcuno, escluda la responsabilità del proprietario (Monateri, 481), il che appare scontato, giacché, se il proprietario, alla luce del dato normativo, non risponde ove l'animale sia stato affidato col suo consenso all'«utente», non può certo rispondere in caso di sottrazione da parte del ladro.

La SC esclude stabilmente che l'assenza di colpa possa dispiegare efficacia liberatoria e che, cioè, abbia rilievo la prova di aver usato la comune diligenza nella custodia dell'animale. Il caso fortuito ricorre in altri termini in caso di intervento di un fattore esterno nella causazione del danno, che presenti i caratteri dell'imprevedibilità, dell'inevitabilità e dell'assoluta eccezionalità, con la conseguenza che all'attore compete solo di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre il convenuto, per liberarsi, deve provare l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere detto nesso causale, non essendo sufficiente la prova di aver usato la comune diligenza nella custodia dell'animale (Cass. n. 10402/2016; Cass. n. 17091/2014; Cass. n. 7260/2013; Cass. n. 15895/2011). Tale la ragione, come si diceva, per cui non ricorre il fortuito in ipotesi di azione dell'animale dovuta ad un suo impulso, che, per quanto inaspettato, è pur sempre naturale (Cass. n. 75/1983), come nel caso dell'imbizzarrimento di un cavallo, o nell'attacco di un cane, pur solitamente mansueti. Nella stessa linea è stata riconosciuta la responsabilità del proprietario di un bovino per i danni cagionati nel fuggire da un mattatoio (Cass. n. 4752/1999).

Viceversa, ricorre il fattore in caso di agente esterno tale da possedere efficacia causale esclusiva nella determinazione del danno, ivi compresa la forza maggiore, nonché il fatto di un terzo dello stesso danneggiato (Cass. n. 9350/2009; Cass. n. 20063/2008), quale l'imprudenza di una inesperta cavallerizza caduta da cavallo (Cass. n. 20063/2008), o quella di persona introdottosi in orario di chiusura in un locale adibito alla vendita, ove era stato attaccato dal cane di guardia (Cass. n. 4160/1981), o, ancora, del cacciatore introdottosi consapevolmente in un campo sul quale si trovava una mandria al pascolo (Cass. n. 2329/1962). Naturalmente, residua un margine di elasticità dell'applicazione della regola enunciata, a seconda dei caratteri della fattispecie concreta, sicché è stata ritenuta la responsabilità del padrone di un cane che aveva aggredito una bambina entrata in un giardino attraverso un cancello non adeguatamente serrato (Cass. n. 15895/2011) nonché del proprietario di un pitbull che aveva fatto ingresso in un immobile attraverso un cancello aperto, che per la sua posizione non lasciava vedere il cartello «attenti al cane» (Cass. n. 9037/2010). La S.C. ha altresì confermato la sentenza di merito, di condanna del proprietario di un cane che aveva morso un'amica di famiglia, introdottasi in casa, e che gli aveva dato una carezza, nonostante l'invito della moglie del proprietario ad allontanarsi, dando rilievo al fatto che la danneggiata conosceva l'animale fin da cucciolo (Cass. civ. n. 10402/2016).

Anche il fatto del terzo, per integrare gli estremi del fortuito, dev'essere straordinario ed imprevedibile: pertanto, non riveste efficacia esimente il furto di bestie lasciate libere di vagare al pascolo, le quali, in seguito, abbiano recato danni a terzi, poiché in tali circostanze la sottrazione non possiede i caratteri necessari per assorbire l'intero rapporto causale (Cass. n. 3047/1972).

La prova del fortuito incombe naturalmente sul proprietario o «utente» dell'animale (Cass. n. 15895/2011; Cass. n. 16023/2010).

Il concorso di colpa

Secondo alcuni autori la disciplina dettata dall'art. 1227 c.c. in punto di concorso di colpa del danneggiato non troverebbe applicazione in caso di responsabilità per danno cagionato da animali, trattandosi di responsabilità oggettiva (Comporti, Esposizione al pericolo, 188). L'opposta opinione è tuttavia prevalente (Franzoni, 2010, 535; Monateri, 481).

Per la SC, che si è cimentata col problema nei riguardi del rapporto tra la norma in commento e l'art. 2054 c.c., la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., anche nel caso che il danneggiato non sia un terzo, ma lo stesso conducente; ciò in quanto l'art. 2054 c.c. esprime principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione. Pertanto, se danneggiato è il conducente e questi non dimostra di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno — non sufficiente, per il superamento della presunzione di responsabilità a suo carico, l'accertamento in concreto del nesso causale tra il comportamento dell'animale e l'evento — il risarcimento spettantegli dovrà esser corrispondentemente diminuito, in applicazione del primo comma dell'art. 1227, c.c., richiamato dall'art. 2056 c.c. (Cass. n. 200/2002; Cass. n. 4373/2016).

La fauna selvatica. Il randagismo

Secondo l'art. 1, comma 1, l. 11 febbraio 1992, n. 157, la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato. Taluno ne deduce la responsabilità dello Stato per i danni arrecati da essa ai sensi dell'art. 2052 c.c. (Franzoni, 2010, 612). Ma, come si è osservato, difetta con riguardo alla fauna selvatica il presupposto richiesto per l'operatività dell'art. 2052 c.c., ossia il governo dell'animale da parte del proprietario, giacché va escluso che lo Stato possa esercitare una reale attività di sorveglianza sulla fauna selvatica (Cendon, 462). Sicché si ritiene in prevalenza che la pubblica amministrazione sia responsabile dei danni cagionati dalla fauna selvatica non secondo l'art. 2052 c.c., ma dell'art. 2043 c.c., in concorso dei presupposti ivi previsti (Bianca, 725; Comporti, Fatti illeciti, 381)

Secondo la SC, parimenti, i danni cagionati dalla fauna selvatica selvatiche si collocano al di fuori dall'ambito di applicabilità dell'art. 2052 c.c. In tema di responsabilità extracontrattuale, così, il danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione non è risarcibile in base all'art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall'art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico (Cass. n. 9276/2014, che ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda proposta nei confronti di una Regione per il risarcimento dei danni conseguenti alla collisione tra una vettura e un cinghiale, ritenendo non fossero emerse prove di addebitabilità del sinistro a comportamenti imputabili alla Regione o all'Anas, non potendo costituire oggetto di obbligo giuridico per entrambe la recinzione e la segnalazione generalizzate di tutti i perimetri boschivi, quest'ultima, peraltro, di spettanza specifica dell'Anas; Cass. n. 24895/2005, che ha confermato la sentenza di merito che aveva rinvenuto la responsabilità dell'amministrazione nella circostanza che nella zona, densamente popolata di animali selvatici, non fosse stato installato alcun avvertimento per segnalare il pericolo, inducendo così l'utente della strada a prestare la massima attenzione, onde procedere con la necessaria prudenza; Cass. n. 27673/2008, in Riv. giur. ambiente, 2009, 501, con nota di Murtula, Profili e responsabilità connessi al volo di un passero). Anche di recente si è ribadito che il danno cagionato dalla fauna selvatica in circolazione è risarcibile non ex art. 2043 c.c. ma ai sensi dell'art. 2052 c.c., poiché tale ultima disposizione non contiene alcun espresso riferimento ai soli animali domestici ma riguarda, in generale, quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell'uomo, prescindendo dall'esistenza di una situazione di effettiva custodia degli stessi (Cass. III, n. 13848/2020).

Dall'angolo visuale dell'applicazione dell'art. 2043 c.c., occorre dire che, sebbene la fauna selvatica rientri nel patrimonio indisponibile dello Stato, la l. n. 157/1992, attribuisce alle Regioni a statuto ordinario il potere di emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica (art. 1, comma 3) ed affida alle medesime i poteri di gestione, tutela e controllo, riservando invece alle Province le relative funzioni amministrative ad esse delegate ai sensi della l. n. 142/1990 (art. 9, comma 1). Ne consegue che la Regione, anche in caso di delega di funzioni alle Province, è responsabile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., dei danni provocati da animali selvatici a persone o a cose, il cui risarcimento non sia previsto da specifiche norme, a meno che la delega non attribuisca alle Province un'autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. n. 4202/2011). La responsabilità per danni provocati da animali selvatici, in altri termini, deve essere imputata all'ente cui siano stati affidati i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sicché si deve indagare, di volta in volta, se l'ente delegato sia stato posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o sia un nudus minister, senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa (Cass. n. 12727/2016, la quale chiarisce per i danni a coltivazioni nel territorio emiliano-romagnolo provocati da caprioli, rispondono le aziende venatorie di cui all'art. 43 della l.r. Emilia-Romagna n. 8/1994 trattandosi di animali «cacciabili», mentre le Province sono responsabili dei danni provocati nell'intero territorio da specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse; Cass. n. 12808/2015 che ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva dichiarato il difetto di legittimazione della Regione Abruzzo, la cui responsabilità non poteva essere derivata sulla base del solo impegno a far fronte agli oneri finanziari per il risarcimento dei danni, secondo quanto previsto dall'art. 1, comma 2, della l. r. Abruzzo 24 giugno 2003, n. 10; Cass. n. 21395/2014 che ha annullato con rinvio la decisione con cui il giudice di merito aveva ravvisato la corresponsabilità della Regione siciliana — sebbene la stessa avesse delegato legislativamente alle Province regionali i poteri di amministrazione del territorio e gestione della fauna — in ragione di non meglio precisati «compiti di coordinamento» ad essa spettanti, senza verificare se l'adozione di misure di contenimento, idonee a scongiurare l'evento dannoso, potesse compiersi dalla Regione attraverso l'esercizio di poteri di controllo e sostitutivi).

Sul piano dell'individuazione delle condotte colpose che giustificano il sorgere della responsabilità della pubblica amministrazione per danni cagionati dalla fauna selvatica, è stato ad esempio affermato che l'amministrazione proprietaria della strada, ovvero l'ente concessionario, ha l'obbligo di apporre i previsti cartelli di segnalazione del pericolo di attraversamento da parte di animali nonché di adottare le altre opportune misure, come l'installazione di recinzioni laterali e pali della luce, peraltro solo nelle zone che sono abitualmente frequentate da animali o che sono state teatro di precedenti incidenti tali da porre sull'avviso le autorità preposte, non potendo essere pretese dall'ente pubblico la segnalazione e la recinzione generalizzate di tutte le vie aperte al traffico (Cass. n. 27673/2008; Cass. n. 7080/2006; per i danni cagionati da animali sulla sede autostradale v. Cass. n. 11016/2011; Cass. n. 7763/2007).

Vale rammentare che talune disposizioni hanno introdotto indennizzi per i danni cagionati da animali selvatici v. art. 26 l. n. 157/1992; art. 3, comma 5, l. n. 281/1991; art. 15, comma 3, l. n. 394/1991 (v. in argomento Cass. n. 10845/2007; Cass. n. 8290/2005; Cass. n. 14241/2004).

Qualora il sinistro si sia verificato in una zona protetta facente parte di un Parco Nazionale o di una riserva naturale, i soggetti incaricati della gestione e controllo degli animali selvatici sono l'Ente parco e l'ente locale individuato dalla normativa regionale (Cass. n. 24547/2009).

Resta da dire che il fenomeno del randagismo è disciplinato dalla l. n. 281/1991 (Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo), la quale affida alle Regioni l'istituzione dell'anagrafe canina nonché l'adozione di programmi per la prevenzione ed il controllo del randagismo, demandando ai Comuni il compito della costruzione e gestione, eventualmente attraverso apposita associazione, dei canili. In tale contesto è stato affermato che l'amministrazione comunale ha l'obbligo, accanto agli altri soggetti indicati dalla legge, di assumere concrete iniziative e di adottare provvedimenti volti ad evitare che i cani randagi arrechino danni e disturbo alle persone nel territorio di propria competenza. Ne consegue che, in caso di mancata adozione di misure contro il randagismo, il Comune è responsabile ai sensi dell'art. 2043 c.c. per i pregiudizi patiti dai soggetti aggrediti da cani vaganti lungo le strade comunali (Cass. n. 17528/2011, che ha cassato la pronunzia di merito la quale aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta da una motociclista, assalita da un cane randagio su una strada comunale; Cass. n. 10190/2010, che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da p arte di un Comune in favore di una donna che era caduta per il timore di essere aggredita da un cane randagio). Talora è stata ritenuta la responsabilità solidale della Asl (Cass. n. 10638/2002). In ogni caso occorre tener conto della normativa regionale di volta in volta prevista (Cass. n. 8137/2009; Cass. n. 27001/2005).

Il rapporto con la responsabilità dei padroni e committenti

In dottrina si esclude il concorso fra la responsabilità per danno cagionato da animali e quella dei padroni e committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro dipendenti o preposti ai sensi dell'art. 2049 c.c. Si osserva, difatti, che il medesimo soggetto non può essere chiamato a rispondere sia quale proprietario dell'animale, in forza dell'art. 2052 c.c., sia in veste di padrone o committente, qualora l'animale sia nella disponibilità del dipendente (Franzoni, 2010, 542).

In presenza dei presupposti per l'applicazione di entrambe le disposizioni, si afferma che il danneggiato può optare per l'azione nei confronti del committente, proprietario dell'animale, secondo l'art. 2049 c.c., oppure per quella prevista dall'art. 2052 c.c. (Monateri, 483).

Nel caso di danni arrecati da un animale di proprietà del committente nell'arco temporale in cui l'animale si trova sotto il controllo del dipendente o del preposto, nell'esercizio delle sue mansioni, la SC ritiene l'applicabilità dell'art. 2049 c.c. Nell'esercizio di un'attività imprenditoriale sussiste cioè a carico dell'imprenditore la responsabilità ai sensi dell'art. 2049 c.c. per gli atti illeciti, produttivi di danni a terzi, compiuti dalle persone che, indipendentemente dall'esistenza o meno di uno stabile rapporto di lavoro subordinato, siano inserite, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell'organizzazione aziendale ed abbiano agito, in questo contesto, su richiesta, per conto e sotto la vigilanza dell'imprenditore (Cass. n. 3616/1988, secondo cui il gestore di un maneggio era responsabile ai sensi dell'art. 2049 c.c. del fatto illecito compiuto da un addetto, il quale aveva affidato un cavallo ad un cliente perché lo domasse, sicché l'animale aveva scalciato arrecando danno ad un cliente).

La simultanea applicazione degli artt. 2049 2052 c.c. è stata ammessa nell'ipotesi di animale di proprietà del dipendente o preposto, il quale se ne serva per lo svolgimento delle sue mansioni: in tal caso egli risponde ai sensi dell'art. 2052 c.c., mentre il committente è responsabile ai sensi dell'art. 2049 c.c., a condizione che sussista il nesso di «occasionalità necessaria» tra l'esercizio delle mansioni ed il danno (Cass. n. 75/1983, la quale ha confermato la decisione di merito che aveva condannato sia il custode di una scuola di ballo, il cui cane lupo aveva morso un'allieva, sia nel datore di lavoro del custode, per la condotta del dipendente).

Il rapporto con la responsabilità per l'esercizio di attività pericolose

Secondo la dottrina la responsabilità per danno cagionato da animale non concorre con quella per l'esercizio di attività pericolose di cui all'art. 2050 c.c. Occorre in altri termini di volta in volta verificare, a seconda dei casi, se il danno sia da addebitare all'esercizio di un'attività pericolosa per la natura dei mezzi adoperati, ovvero se sia da ricondurre all'azione dell'animale (Franzoni, 1993, 622).

La SC, aderendo in linea di principio siffatta impostazione, ha talora affermato che, in caso di danni alla persona causati da una caduta da cavallo occorsa durante una lezione di equitazione, al fine di individuare il criterio di imputazione della responsabilità del gestore del maneggio, occorre operare un distinguo: se la caduta è avvenuta nel corso di una lezione per principianti, in cui i cavalli seguivano un percorso prestabilito e sotto la guida di un istruttore, deve escludersi che tale attivatì possa essere considerata pericolosa, con la conseguenza che il gestore del maneggio può essere chiamato a rispondere del danno solo ai sensi dell'art. 2052 c.c., ove ne ricorrano i presupposti; se, invece, la caduta da cavallo è avvenuta nel corso di una cavalcata, effettuata da un cavaliere inesperto con cavallo concessogli in uso dal maneggio, il gestore di quest'ultimo può essere chiamato a rispondere dei danni ai sensi dell'art. 2050 c.c. (Cass. n. 12307/1998). In altre occasioni è stato però detto che il gestore del maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti, adibiti allo svolgimento di lezioni di equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa, ai sensi dell'art. 2050 c.c., dei danni riportati dai soggetti partecipanti, qualora gli allievi siano cavallerizzi principianti o inesperti (Cass. n. 6888/2005, la quale ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto il gestore responsabile, per attività pericolosa, dei danni subiti da una giovane, titolare di una attestazione di idoneità psicofisica alla cavalcatura, che era caduta da cavallo nel corso della sua sesta lezione; Cass. n. 24211/2015, la quale ha ritenuto applicabile al gestore la responsabilità ex art. 2050 c.c. per i danni subiti da una allieva che, nel corso della sua terza lezione di equitazione, era stata disarcionata dal cavallo, imbizzarritosi per il passaggio nelle vicinanze di alcuni cavalieri al galoppo; per il noleggio di cavalli v. Cass. n. 3471/1999). La responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. è stata esclusa in un caso in cui una cavallerizza era stata urtata dall'animale mentre lo sellava, trattandosi di sinistro avvenuto prima che iniziasse l'attività di equitazione (Cass. n. 11861/1998).

Il rapporto con la responsabilità per danni cagionati dalla circolazione di veicoli

Dal punto di vista pratico possiede ampio rilievo la questione del rapporto tra l'art. 2052 c.c. e la responsabilità per danni cagionati dalla circolazione dei veicoli prevista dall'art. 2054 c.c. Quest'ultima disposizione stabilisce al primo comma che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è tenuto a risarcire il danno prodotto dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Secondo la dottrina, in caso di incidente che coinvolga un animale e un veicolo, sulla sede stradale destinata al traffico veicolare, l'applicazione delle due norme concorre, sicché il riparto della responsabilità tra proprietario o utente dell'animale e conducente del veicolo va determinata in considerazione delle concrete modalità di svolgimento del fatto (Franzoni, 2010, 543).

Anche secondo la S.C. gli artt. 2052 e 2054 c.c. operano simultaneamente. È stato detto che, in tema di responsabilità per danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale, la presunzione di responsabilità oggettiva (formula, quest'ultima, tratta dalle massime ufficiali ed in effetti contraddittoria, a fronte dell'ormai prevalente inquadramento della responsabilità per danno cagionato da animali nel campo della responsabilità oggettiva, di cui si è parlato in precedenza) a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione, sicché, ove il danneggiato sia il conducente e non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso — sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell'animale, il caso fortuito — il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c. (Cass. n. 4373/2016; Cass. n. 200/2002). È stato precisato che la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., anche nel caso che il danneggiato non sia un terzo ma lo stesso conducente: ciò in quanto l'art. 2054 c.c. esprime principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione. Pertanto, se danneggiato è il conducente e questi non dimostra di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno — non sufficiente, per il superamento della presunzione di responsabilità a suo carico, l'accertamento in concreto del nesso causale tra il comportamento dell'animale e l'evento — il risarcimento spettantegli dovrà esser corrispondentemente diminuito, in applicazione del comma 1 dell'art. 1227 c.c., richiamato dall'art. 2056 c.c. (Cass. n. 1736/2011). D'altro canto, il mancato superamento della presunzione da parte di uno dei soggetti non comporta di per sé esonero da responsabilità dell'altro, se questi non abbia vinto la presunzione a suo carico (Cass. n. 5783/1997). Anche di recente è stato detto che, in materia di danni derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, a norma dell'art. 2052 c.c. grava sul danneggiato l'allegazione e la dimostrazione che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall'animale selvatico (cioè appartenente ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla l. n. 157/1992 o, comunque, rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato), la dinamica del sinistro, il nesso causale tra l'agire dell'animale e l'evento dannoso subito nonché - ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c. - di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida. Spetta, invece, alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che il comportamento dell'animale si è posto del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa del danno autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi (Cass. III, n. 13848/2020).

Fattispecie

Sulla natura della responsabilità per danno cagionato da animali, è stato detto che di tale danno risponde ex art. 2052 c.c. il proprietario o chi ne ha l'uso, per responsabilità oggettiva e non per condotta colposa (anche solo omissiva), sulla base del mero rapporto intercorrente con l'animale nonché del nesso causale tra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso, che il caso fortuito, quale fattore esterno generatore del danno concretamente verificatosi, può interrompere, sicché, mentre grava sull'attore l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, la prova del fortuito è a carico del convenuto (Cass. n. 17091/2014). Ai sensi dell'art. 2052 c.c., la responsabilità del proprietario dell'animale — che incontra il limite del caso fortuito, costituendo quindi un'ipotesi di responsabilità oggettiva — non trova il proprio fondamento in una specifica attività del proprietario, quanto, piuttosto, in una relazione, di proprietà o di uso, fra la persona fisica e l'animale (Cass. n. 2414/2014, la quale precisa che detta responsabilità prescinde sia dalla continuità dell'uso, sia dalla presenza dell'utilizzatore al momento in cui l'animale arreca il danno). La responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. ha dunque natura oggettiva ed è collegata alla custodia dell'animale, da intendersi come rapporto in forza del quale taluno detiene contemporaneamente il potere di gestione, di vigilanza e di controllo dell'animale, ed il potere di trarne utilità e profitto (Cass. n. 22632/2012). La responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., prevista a carico del proprietario di animale per i danni cagionati dallo stesso, trova pertanto un limite solo nel caso fortuito, ossia nell'intervento di un fattore esterno nella causazione del danno, che presenti i caratteri dell'imprevedibilità, dell'inevitabilità e dell'assoluta eccezionalità, con la conseguenza che all'attore compete solo di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre il convenuto, per liberarsi, deve provare l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere detto nesso causale, non essendo sufficiente la prova di aver usato la comune diligenza nella custodia dell'animale. (Cass. n. 15895/2011, la quale ha giudicato erroneo il ragionamento del giudice di merito il quale aveva ritenuto che integrasse l'ipotesi di caso fortuito la condotta della danneggiata, minorenne di anni tre, rimasta ferita per l'aggressione da parte di un cane che si trovava all'interno di un giardino il cui ingresso era costituito da un cancello non assicurato da idonea chiusura, tanto da potere essere facilmente aperto dalla bambina stessa). È stata così cassata la pronuncia di merito che, deducendo erroneamente la prova del caso fortuito dal semplice fatto che il proprietario e il custode di un cane di razza pit bull avevano adottato tutte le misure idonee in regime di normalità ad evitare che l'animale potesse aggredire terzi (nella specie, era stata utilizzata una catena di tre metri per legare il cane in un luogo distante dal cancello e su quest'ultimo era stato posto un cartello recante la scritta «attenti al cane», peraltro non visibile in caso di apertura), aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta da una persona di età avanzata che, introdottasi nello stabile tramite il cancello aperto, aveva riportato danni per un morso del predetto cane (Cass. n. 9037/2010).

Tuttavia, il proprietario di un animale, ai sensi dell'art. 2052 c.c., non risponde dei danni da questo causati a chi lo deteneva temporaneamente in vista del perseguimento di un interesse proprio, onde il trasportatore di animali non può pretendere dal proprietario di essi il risarcimento del danno causatogli dalle bestie durante le operazioni di carico o scarico, dal medesimo espletate in piena autonomia (Cass. n. 22632/2012). In una prospettiva non dissimile si colloca alla pronuncia secondo cui la norma dell'art. 2052 c.c. — in base alla quale chi si serve di un animale è responsabile dei danni dallo stesso cagionati per il tempo in cui lo ha in uso — trova il proprio fondamento nel principio per cui chi fa uso dell'animale nell'interesse proprio e per il perseguimento di proprie finalità, anche se non economiche, è tenuto risarcire i danni arrecati ai terzi che siano causalmente collegati al suddetto uso; in tale situazione, peraltro, non rientra colui il quale utilizzi l'animale per svolgere mansioni inerenti alla propria attività di lavoro, che gli siano state affidate dal proprietario dell'animale alle cui dipendenze egli presti tale attività (Cass. n. 10189/2010, che ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda, avanzata da un componente del corpo di polizia municipale, di risarcimento dei danni conseguenti alla caduta dovuta all'impennata del cavallo da lui montato, sul rilievo che in quel momento l'animale era affidato alla custodia dello stesso danneggiato). Secondo questa pronuncia, dunque, l'animale utilizzato nel lavoro è come un macchinario dell'azienda: se è esso a causare la lesione al dipendente, spetta al datore rifondere il danno ex art. 2052 c.c.: sicché è stato riconosciuto il diritto al risarcimento in capo ad un sottufficiale della polizia municipale disarcionato dal cavallo durante una manifestazione; a detta della Corte, infatti, non è corretto addebitare il sinistro al poliziotto, in quanto «utilizzatore» del cavallo: la responsabilità da custodia, infatti, si configura in capo al Comune che fa uso dell'animale per le sue finalità, anche se mediante un dipendente.

In generale stato detto che la responsabilità del proprietario, o di chi si serve di un animale, di cui all'art. 2052 c.c., si fonda non su un comportamento o un'attività — commissiva od omissiva — ma su una relazione intercorrente tra i predetti e l'animale, il cui limite risiede nel caso fortuito, la prova del quale — a carico del convenuto — può anche avere ad oggetto il comportamento del danneggiato, purché avente carattere di imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità (Cass. n. 10402/2016, la quale ha confermato la sentenza di merito, di condanna del proprietario di un cane che aveva morso un'amica di famiglia, introdottasi in casa, e che gli aveva dato una carezza, nonostante l'invito della moglie del proprietario ad allontanarsi, dando rilievo al fatto che la danneggiata conosceva l'animale fin da cucciolo). Anche nella giurisprudenza di merito è stato ripetuto che la presunzione di responsabilità per danno cagionato da animali, ai sensi dell'art. 2052 c.c., può essere superata esclusivamente qualora il proprietario o colui che si serve dell'animale provi il caso fortuito (Trib. Savona 21 novembre 2015; v. pure Trib. Parma 9 settembre 2011). In tema di responsabilità per danni cagionati da animali, cioè, risponde il proprietario dello stesso, ex art. 2052 c.c., il quale è esonerato solo nel caso in cui riesca a provare il caso fortuito, poiché ciò che rileva è la semplice relazione esistente tra il gestore e l'animale e il nesso di causalità tra il comportamento di questo ed il danno (Trib. Foggia 6 novembre 2014). In particolare, la rilevanza del fortuito deve essere apprezzata sotto il profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre ad un elemento esterno, anziché all'animale che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi: ne consegue che spetta all'attore provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, mentre il convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non già di essere esente da colpa, bensì l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Trib. Ancona 30 ottobre 2014).

Sul piano del riparto degli oneri probatori è stato precisato che spetta all'attore provare l'esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento dannoso secundum o contra naturam, comprendendosi in tale concetto qualsiasi atto o moto dell'animale quod sensu caret, mentre il convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non già di essere esente da colpa o di aver usato la comune diligenza e prudenza nella custodia dell'animale, bensì l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Cass. n. 10402/2016). Il proprietario del cane risponde a titolo di negligenza quando l'evento lesivo cagionato dall'animale consistito nel mordere una persona fosse prevedibile in base all'id quod plerumque accidit e altrettanto evitabile ove lo stesso avesse adottato le giuste cautele (Trib. La Spezia 7 luglio 2015, concernente la tenuta dell'animale al guinzaglio in modo appropriato e applicazione allo stesso della museruola). È stato ancora ribadito che, ai sensi dell'art. 2052 c.c. in tema di danno cagionato da animali la responsabilità del proprietario è presunta, ovvero non è fondata sulla colpa, ma sul rapporto di fatto con l'animale. Conseguentemente, per i danni cagionati dall'animale al terzo, il proprietario risponde in ogni caso e in toto, a meno che non dia la prova del caso fortuito, ossia dell'intervento di un fattore esterno idoneo a interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno. Pertanto, se la prova liberatoria richiesta dalla norma non viene fornita, il giudice deve condannare il proprietario dell'animale al risarcimento dei danni per l'intero (App. Roma 22 febbraio 2012). Sicché non è sufficiente la prova di avere usato la comune diligenza nella custodia dell'animale (Trib. Parma 9 settembre 2011). In sede penale si è inoltre precisato che nell'ipotesi di lesioni subite in seguito ad un morso di un cane, va esclusa l'ipotesi del caso fortuito nel fatto che la catena cui il cane era legato si sia rotta consentendo all'animale di avventarsi sulla persona offesa, in quanto la prova del caso fortuito incombeva sull'imputato, il quale, per contro, non aveva fornito elemento alcuno per ritenere che la corda fosse integra ed adeguata alla corpulenza del cane (Cass. pen. n. 49690/2014).

Con riguardo alla responsabilità dell'utilizzatore dell'animale la SC ha affermato che, in tema di danno cagionato da animali, l'art. 2052 c.c. prevede, alternativamente e senza vincolo di solidarietà, la responsabilità del proprietario dell'animale ovvero dell'utilizzatore, evenienza questa ipotizzabile solo allorché il proprietario si sia spogliato, in fatto o in diritto, del governo dell'animale. (Cass. n. 25738/2015, che ha confermato la decisione di merito che — in relazione ai danni conseguiti ad un sinistro mortale, verificatosi in un maneggio nel corso di una lezione di equitazione — aveva ritenuto unica responsabile l'istruttrice, proprietaria del pony, svolgendo essa la propria attività in piena autonomia rispetto al club ippico). La responsabilità del proprietario dell'animale è in altri termini alternativa rispetto a quella del soggetto che ha in uso il medesimo; tale responsabilità — che incontra il limite del caso fortuito, costituendo quindi un'ipotesi di responsabilità oggettiva — non trova il proprio fondamento in una specifica attività del proprietario, quanto, piuttosto, in una relazione, di proprietà o di uso, fra la persona fisica e l'animale (Trib. Lucca 14 ottobre 2015). In tema di danno cagionato da animali, poiché l'art. 2052 c.c. impone l'obbligo di predisporre le necessarie cautele — fatta salva la possibilità della prova del caso fortuito — indifferentemente sia al proprietario dell'animale sia a chi se ne serva per il tempo in cui lo ha in uso, il proprietario si libera della responsabilità solo ove provi di essersi spogliato dell'utilizzo dell'animale, senza che a tal fine possa essere ritenuta sufficiente la prova del momentaneo affidamento dello stesso ad altri, qualora detto affidamento sia accompagnato dal mantenimento della diretta sorveglianza sull'animale medesimo (Cass. n. 979/2010, la quale ha ritenuto che il titolare di un'associazione organizzatrice di una passeggiata a cavallo a beneficio dei privati fosse responsabile dei danni occorsi al fantino per effetto della caduta provocata dall'improvviso imbizzarrirsi dell'animale a causa dello spavento conseguente alla vista di un cane pastore)

La responsabilità per il danno causato dall'animale, prevista dall'art. 2052 c.c., incombe dunque a titolo oggettivo ed in via alternativa o sul proprietario, o su chi si serve dell'animale, per tale dovendosi intendere non già il soggetto diverso dal proprietario che vanti sull'animale un diritto reale o parziale di godimento, che escluda ogni ingerenza del proprietario sull'utilizzazione dell'animale, ma colui che, col consenso del proprietario, ed anche in virtù di un rapporto di mero fatto, usa l'animale per soddisfare un interesse autonomo, anche non coincidente con quello del proprietario (Cass. n. 8102/2012 che ha escluso la responsabilità del proprietario di un cavallo per i danni subiti da una donna che era stata investita dall'animale, atteso che dalle risultanze istruttorie era emerso che l'animale non era stato usato dal proprietario, ma da un terzo, per soddisfare un interesse autonomo, anche non coincidente con quello del proprietario). Il custode di un cane a titolo di mera cortesia, anche ove tenga seco l'animale per lungo periodo, non risponde ex art. 2052 c.c. per il danno provocato a terzi dallo stesso. Infatti la suddetta forma di responsabilità aggravata o obiettiva sussiste solo a carico del proprietario dell'animale o di chi ne faccia uso nel proprio interesse, concetto quest'ultimo non riconducibile alla mera custodia. Nondimeno il custode risponde ex art. 2043 c.c. per colpa ove sia positivamente provato che nella custodia dell'animale ha violato comuni regole di prudenza e diligenza (Trib. Genova 24 marzo 2010).

In sede di liquidazione di danni non derivanti da sinistri stradali, deve escludersi la possibilità di applicare analogicamente l'art. 139 cod. ass. poiché tale norma, nello stabilire i criteri di liquidazione dei danni biologici derivanti da sinistri stradali, costituisce una previsione di natura eccezionale. (Trib. Grosseto 11 luglio 2015, in fattispecie relativa a danno cagionato da animale, in cui il giudice ha fatto applicazione delle tabelle milanesi ai fini della liquidazione del danno).

Buona parte della produzione giurisprudenziale in tema di responsabilità per danno cagionato da animali concerne l'ipotesi dell'impatto tra l'animale e un'autovettura o comunque dell'interferenza tra il comportamento dell'uno ed il danno riportato dall'automobilista.

È stato di recente ribadito che, in tema di sinistro tra autovettura ed animale, allorché emerga una esclusiva responsabilità del padrone dell'animale, viene meno il principio secondo cui in caso di urto tra un autoveicolo e un animale concorrono la presunzione di responsabilità del proprietario o utilizzatore dell'animale e la presunzione di colpa del conducente del veicolo (Cass. n. 4202/2017, in situazione in cui il giudice di merito aveva ritenuto credibile, in considerazione dell'entità dei danni riportati dalla vettura, che il cane fosse sbucato all'improvviso provenendo dalla parte destra della carreggiata, com'era confermato anche dalla presenza di accessi laterali, sebbene sterrati). In analoga situazione, connotata però dalla negligente condotta dell'automobilista, è stato stabilito che, in tema di danno cagionato da animali (art. 2052 c.c.), la presunzione di responsabilità a carico del proprietario o detentore dell'animale (fondata non sulla colpa, ma sul rapporto di fatto con l'animale stesso) è superabile solo con la prova del caso fortuito, ossia dell'intervento di un fattore esterno (ivi compreso il fatto del terzo e il fatto colposo del danneggiato stesso), che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno e quindi idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo (Trib. Modena 21 marzo 2012, in caso di sinistro stradale avvenuto per evitare un cane in attraversamento. In applicazione del principio di cui in massima, accertato che il veicolo procedeva ad una velocità eccessiva, e quindi tale da non riuscire a frenare senza provocare il sinistro, è stata esclusa la responsabilità del proprietario del cane). Più in generale, nel caso di scontro tra un veicolo ed un animale, il concorso fra le presunzioni stabilite a carico del conducente del veicolo ex art. 2054 comma 1 c.c. ed a carico del proprietario dell'animale ex art. 2052 c.c., comporta la pari efficacia di entrambe tali presunzioni e la conseguente necessità di valutare, caso per caso e senza alcuna reciproca elisione, il loro superamento da parte di chi ne risulta gravato; pertanto, quando non sia possibile accertare l'effettiva dinamica del sinistro, e perciò la sussistenza e la misura delle rispettive colpe, se solo uno dei soggetti interessati superi la presunzione posta a suo carico, la responsabilità graverà sull'altro soggetto, mentre in ipotesi di superamento da parte di tutti, ciascuno andrà esente da responsabilità, la quale graverà invece su entrambi se nessuno raggiunga la prova liberatoria (Trib. Piacenza 2 febbraio 2010).

Mentre la responsabilità ex art. 2054 c.c. può sussistere esclusivamente quando l'evento dannoso si verifichi in una zona aperta al pubblico transito e ordinariamente adibita al traffico veicolare (a prescindere dal carattere pubblico o privato della zona stessa), in quanto la pericolosità del fenomeno circolatorio è legata alla pluralità dei soggetti coinvolti, la speciale responsabilità prevista dall'art. 2052 c.c. per i danni cagionati da animali trova applicazione sia con riguardo ad eventi dannosi verificatisi in aree aperte al pubblico che in relazione ad eventi dannosi occorsi in zone non aperte al pubblico. Siffatta applicazione dell'art. 2052 c.c. è conforme a Costituzione, poiché la pericolosità dell'animale permane anche in luoghi chiusi al pubblico. Pertanto, il postino che, mentre si trovava a bordo della propria «Vespa», sia stato aggredito dal cane sul vialetto privato di accesso all'abitazione del destinatario della corrispondenza, ha diritto al risarcimento del danno da parte del proprietario dell'animale (Cass. n. 26205/2011). Si segnala riguardo che l'esclusione della copertura assicurativa per i sinistri verificatisi in aree private è stata posta in discussione da Corte di Giustizia Europea, Sezione III, con sentenza n. C 162/13 del 4 settembre 2014, la quale ha osservato che l'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in fatto di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell'obbligo di assicurare tale responsabilità, deve essere interpretato nel senso che rientra nella sua nozione di «circolazione dei veicoli» qualunque uso di un veicolo che sia conforme alla funzione abituale dello stesso. Potrebbe dunque rientrare in detta nozione la manovra di un trattore nel cortile di una casa colonica per immettere in un fienile il rimorchio di cui è munito, com'è accaduto nel procedimento principale, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare.

Per l'attribuzione della responsabilità del sinistro stradale al custode dell'animale occorre provare la sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento di quest'ultimo ed il danno subito dall'automobilista. Perciò, in tema di sinistro causato da animali, in assenza della prova del nesso causale tra il comportamento degli animali nella custodia del convenuto e la perdita del controllo dell'autovettura dell'attrice, non può essere riconosciuta la responsabilità del custode degli animali (Cass. n. 1368/2017).

Diverse le pronunce rese in tema di equitazione. L'attività di equitazione viene notoriamente annoverata tra le attività pericolose e sussunta nell'art. 2050 c.c. Ed infatti, il gestore di un maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti, adibiti allo svolgimento di lezioni di equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa, ai sensi dell'art. 2050 c.c., dei danni riportati dai partecipanti qualora siano cavallerizzi principianti o inesperti (Cass. n. 24211/2015, la quale ha ritenuto applicabile al gestore la responsabilità ex art. 2050 c.c. per i danni subiti da una allieva che, nel corso della sua terza lezione di equitazione, era stata disarcionata dal cavallo, imbizzarritosi per il passaggio nelle vicinanze di alcuni cavalieri al galoppo). Anche nella giurisprudenza di merito si afferma che l'attività di equitazione può essere considerata attività pericolosa ex art. 2050 c.c.: tale possibilità non sussiste, tuttavia, in astratto ma va accertata in concreto in base alle modalità con cui viene impartito l'insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati ed alla qualità degli allievi. Ove, all'esito di tale accertamento, non emergesse un giudizio di pericolosità, la responsabilità del gestore del maneggio andrà invece valutata alla stregua del diverso criterio di cui all'art. 2052 c.c. (Trib. Reggio Emilia 29 ottobre 2014). Ed infatti, con riferimento ad un evento di danno verificatosi durante un corso di equitazione, per stabilire se nel caso concreto ricorra un coefficiente di pericolosità tale da integrare la fattispecie di cui all'art. 2050 c.c., e da costituire il discrimine con la diversa responsabilità ex art. 2052 c.c., non potendo, stricto sensu, parlarsi di un'attività sempre e comunque pericolosa, occorre guardare a parametri concreti quali il luogo in cui si svolge, la presenza di un istruttore e di strutture idonee, nonché, soprattutto, l'esperienza del cavaliere discente che costituisce sopra ogni altra valutazione il discrimen dell'applicazione dell'art. 2050 c.c. in luogo dell'art. 2052 c.c. (Trib. Teramo 12 agosto 2014). Ma se la cavallerizza è esperta, la medesima attività rientra tra i danni cagionati dagli animali ex art. 2052 c.c. (Cass. n. 12392/2016, la quale ha anche chiarito che la ricorrenza del caso fortuito, quale causa di esclusione della responsabilità del proprietario, attiene al profilo probatorio, sicché, non costituendo oggetto di eccezione in senso proprio, è rilevabile d'ufficio). In tale prospettiva è stato altresì detto che la responsabilità del proprietario o dell'utente dell'animale per i danni da questo causati è riconducibile alle ipotesi di responsabilità presunta e non a quelle di colpa presunta e trova un limite solo nel caso fortuito, ossia l'intervento di un fattore esterno nella determinazione del danno, che può consistere anche nel fatto del terzo o nella colpa del danneggiato, ma che necessariamente presenti i caratteri dell'inevitabilità, imprevedibilità ed assoluta eccezionalità (Cass. n. 25223/2015 che ha escluso la responsabilità del circolo ippico per i danni provocati da un calcio al volto sferrato dal cavallo a una cavallerizza esperta che si era introdotta nell'area recintata). Il centro ippico che organizza lezioni di equitazione è responsabile per le lesioni subite da un allievo che, mentre montava a cavallo e procedeva in fila indiana secondo le indicazioni impartite dall'istruttore, era stato colpito da un calcio sferrato da altro cavallo gestito dal centro medesimo (Cass. n. 5664/2010). Nella giurisprudenza penale si trova peraltro affermato che, in tema di reato di lesioni colpose, non costituendo l'attività equestre meramente addestrativa attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., la responsabilità a titolo di colpa del titolare di un maneggio per le lesioni eventualmente derivate, durante una lezione, dal disarcionamento di una allievo da parte del cavallo, non può essere presunta ma deve essere sempre accertata in concreto con relativo onere a carico dell'accusa, non potendo trovare applicazione la presunzione di cui all'art. 2052 c.c., rilevante ai soli fini della responsabilità civile (Cass. pen. n. 4502/2015).

Al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 2052 c.c. si collocano i danni cagionati da un animale selvatico. In generale la legittimazione passiva in materia di danni cagionati da animali selvatici non compete alle Province ma alle Regioni, che rispondono ai sensi dell'art. 2043 c.c. (con conseguente onere di provare un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico) e non ex art. 2052 c.c., che, prevedendo un'ipotesi di responsabilità oggettiva, comporterebbe una sorta di responsabilità automatica dell'Ente ogni volta che si verifichi un qualsiasi incidente con coinvolgimento della fauna selvatica (Trib. Modena 21 marzo 2012). La responsabilità extracontrattuale per danni provocati dall'attraversamento su una strada statale di un animale selvatico (nella specie un daino o capriolo) deve essere imputata all'ente a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna, sia che essi derivino dalla legge, sia che trovino la loro fonte in una delega o concessione di altro ente. In quest'ultimo caso, l'ente delegato o concessionario potrà considerarsi responsabile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., per i suddetti danni a condizione che gli sia stata conferita, in quanto gestore, autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentirgli di svolgere l'attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi, inerenti all'esercizio dell'attività stessa, e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. n. 4788/2014). È stato nella stessa prospettiva ad esempio ribadito che la responsabilità per danni provocati da animali selvatici deve essere imputata all'ente cui siano stati affidati i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sicché si deve indagare, di volta in volta, se l'ente delegato sia stato posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o sia un nudus minister, senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa. Ne consegue che per i danni a coltivazioni nel territorio emiliano-romagnolo provocati da caprioli, rispondono le aziende venatorie di cui all'art. 43 della l.r. Emilia-Romagna n. 8 del 1994 trattandosi di animali «cacciabili», mentre le Province sono responsabili dei danni provocati nell'intero territorio da specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse (Cass. n. 12727/2016). Parimenti in precedenza era stato stabilito che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici va imputata all'ente cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che derivino dalla legge, sia che trovino fonte in una delega o concessione di altro ente (Cass. n. 21395/2014, la quale ha annullato con rinvio la decisione con cui il giudice di merito aveva ravvisato la corresponsabilità della Regione siciliana — sebbene la stessa avesse delegato legislativamente alle Province regionali i poteri di amministrazione del territorio e gestione della fauna — in ragione di non meglio precisati «compiti di coordinamento» ad essa spettanti, senza verificare se l'adozione di misure di contenimento, idonee a scongiurare l'evento dannoso, potesse compiersi dalla Regione attraverso l'esercizio di poteri di controllo e sostitutivi). Ed ancora, in tema di responsabilità extracontrattuale, il danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall'art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall'art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico. (Cass. n. 9276/2014, che ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda proposta nei confronti di una Regione per il risarcimento dei danni conseguenti alla collisione tra una vettura e un cinghiale, ritenendo non fossero emerse prove di addebitabilità del sinistro a comportamenti imputabili alla Regione o all'Anas, non potendo costituire oggetto di obbligo giuridico per entrambe la recinzione e la segnalazione generalizzate di tutti i perimetri boschivi, quest'ultima, peraltro, di spettanza specifica dell'Anas). In tema di responsabilità extracontrattuale il danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall'art. 2052 c.c., inapplicabile alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della p.a., ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall'art. 2043 c.c., e tanto anche in tema di onere della prova, con la conseguente necessaria individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico (Cass. n. 5202/2010, secondo cui, poiché nella specie il giudice di appello aveva escluso che l'attore avesse dato — in concreto — la prova che la Regione ha posto in essere una condotta — ancorché colposa — causativa del danno patito dallo stesso attore — certo essendo, da un lato, che non era stata fornita alcuna prova dell'eccessivo incremento e ripopolamento di animali selvatici imputabile alla Regione, dall'altro, che la regione, non essendo l'ente preposto alla gestione della strada sulla quale si è verificato l'incidente non aveva alcun obbligo di apporre segnaletica idonea a indicare una situazione di pericolo per la sicurezza della circolazione (e, in particolare, quello ex art. 95 d.lgs. n. 285 del 1992, del probabile attraversamento della sede stradale da parte di animali selvatici), da ultimo che erano assolutamente generiche tutte le altre carenze denunciate e che giusta la stessa prospettazione dell'attrice l'incidente si sarebbe verificato anche in presenza di adeguata segnalazione, certo che il cinghiale aveva attraversato la strada (secondo gli stessi assunti dell'attrice) repentinamente e inaspettatamente — la Suprema Corte ha affermato che correttamente il tribunale aveva rigettato la domanda risarcitoria).

Anche nella giurisprudenza di merito è stato ribadito che, in tema di circolazione stradale, il sinistro determinato dallo scontro con un animale selvatico non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2052 c.c., trattandosi appunto di animali selvatici per i quali non è configurabile una posizione di custodia o vigilanza o di vigilanza dell'ente pubblico e dunque non opera nessuna presunzione di colpa. Spetta in tal caso al danneggiato l'onere di provare gli elementi costitutivi dell'illecito, ivi compresa la colpa della p.a. (Trib. L'Aquila 1° agosto 2016). Nello stesso senso si colloca la giurisprudenza onoraria, secondo cui ii danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall'art. 2052 c.c., inapplicabile alla selvaggina in quanto il suo stato di libertà è incompatibile con qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma soltanto alla stregua dell'art. 2043 c.c., con la conseguente necessità di individuare un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico (Giudice pace Firenze 18 novembre 2013 concernente sinistro provocato dall'attraversamento improvviso di un cinghiale su strada mancante di apposita segnaletica di pericolo).

La responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente all'ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281/1991) il dovere di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi, mentre non può ritenersi sufficiente, a tal fine, l'attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, quale è il controllo delle nascite della popolazione canina e felina, avendo quest'ultimo ad oggetto il mero controllo «numerico» degli animali, a fini di igiene e profilassi, e, al più, una solo generica ed indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo (Cass. n. 12495/2017). La p.a., in base al principio del neminem laedere, è responsabile dei danni riconducibili all'omissione dei comportamenti dovuti, che costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale. Ne consegue che il comune deve rispondere dei danni patiti da un motociclista aggredito da un cane randagio durante la marcia del mezzo, atteso che l'ente territoriale — ai sensi della legge-quadro 14 agosto 1991 n. 281 e delle leggi regionali in tema di animali di affezione e prevenzione del randagismo (nella specie, l. reg. Camp. 2 novembre 1993 n. 36, ratione temporis applicabile) — è tenuto, in correlazione con gli altri soggetti indicati dalla legge, al rispetto del dovere di prevenzione e controllo del randagismo sul territorio di competenza (Cass. n. 17528/2011).

Le api non sono animali selvatici, tenuto conto che essi sono pienamente gestiti dall'apicoltore che attraverso il loro utilizzo gestisce un'attività economicamente rilevante (Cass. n. 7260/2013).

Bibliografia

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