Decreto legislativo - 3/04/2006 - n. 152 art. 311 - (Azione risarcitoria in forma specifica [ e per equivalente patrimoniale ] ) 1

Francesco Agnino

(Azione risarcitoria in forma specifica [ e per equivalente patrimoniale ] ) 1

1. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto.

2. Quando si verifica un danno ambientale cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell'allegato 5 alla presente parte sesta, gli stessi sono obbligati all'adozione delle misure di riparazione di cui all'allegato 3 alla medesima parte sesta secondo i criteri ivi previsti, da effettuare entro il termine congruo di cui all'articolo 314, comma 2, del presente decreto. Ai medesimi obblighi è tenuto chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa. Solo quando l'adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti  2.

3. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare provvede in applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4 della presente parte sesta alla determinazione delle misure di riparazione da adottare e provvede con le procedure di cui al presente titolo III all'accertamento delle responsabilità risarcitorie. Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il Ministro dello sviluppo economico, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell'allegato 3 alla presente parte sesta i criteri ed i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa. Tali criteri e metodi trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo precedente. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento 3.

[2] Comma modificato dall'articolo 5-bis, comma 1, lettera a), del D.L. 25 settembre 2009, n. 135, convertito , con modificazioni, dalla Legge 20 novembre 2009, n. 166 e successivamente sostituito dall'articolo 25, comma 1, lettera g), della Legge 6 agosto 2013, n. 97. Vedi anche quanto disposto dal successivo comma 2 del medesimo articolo 25 della Legge 97/2013.

Inquadramento

La materia, originariamente disciplinata dalla l. n. 349/1986, è stata profondamente innovata dal d.lgs. n. 152/2006; ed ha subito evoluzioni normative sensibili, anche a causa di un duplice avvio a carico della Repubblica italiana, da parte della Commissione dell'Unione Europea, di procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE. Il principio generale, di derivazione eurounitaria, è l'esigenza di porre rimedio alle alterazioni ed ai danni della risorsa «ambiente» esclusivamente mediante il recupero della stessa, in relazione alla sua peculiarità, quale contesto generale di quotidiana estrinsecazione esistenziale di una massa tendenzialmente indeterminata di individui: ciò che orienta quel recupero in direzione non soltanto — e perfino neppure necessariamente — del ripristino della situazione antecedente, ma anche della riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi — generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto — coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse.

Da tale premesse consegue la riserva allo Stato, quale ente esponenziale al massimo livello sul territorio, dell'esclusiva potestà di agire, sia in via preventiva che repressiva (o, meglio, recuperatoria), in considerazione appunto della potenziale incommensurabilità del danno e delle difficoltà di determinazione ed esecuzione delle opere per il recupero della risorsa violata; sicché il bene ambiente, secondo il concetto peculiare elaborato in materia, può essere tutelato solo dallo Stato, benché debba restare impregiudicata la legittimazione di titolari di diritti diversi da quello all'integrità ambientale, i quali risultino separatamente danneggiati dall'unica condotta plurioffensiva che ha inciso su quella risorsa, ad agire per il risarcimento di quegli ulteriori danni.

Pertanto, per avvicinare, in via di grande approssimazione, tale soluzione ai principi generali del nostro ordinamento, può sintetizzarsi che è imposta comunque la riparazione in forma specifica e, per di più, attraverso lo strumento di quello che può definirsi un'esecuzione in danno dell'obbligato, da parte del soggetto pubblico e successiva rivalsa nei confronti del danneggiante.

L'art. 311 d.lgs. n. 152/2006 prevede un apparato sanzionatorio di natura risarcitoria persuasivo ed efficace per chiunque cagioni, con dolo o colpa, un danno all'ambiente e, quindi, anche per il soggetto incolpevole che omettendo di comunicare il rilevamento di una potenziale contaminazione abbia contribuito a cagionare tale danno.

Analogamente, la circostanza che nell'art. 300 d.lgs. n. 152/2006 si parli di danno «ai sensi della direttiva 2004/35/CE» ha fatto sorgere molti dubbi sulla relazione tra questa disposizione e quella contenuta al secondo comma dell'art. 311 d.lgs. n. 152/2006 (che disciplina l'azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale), che sembra fare riferimento ad un'ipotesi di danno ancorata a precedenti schemi legislativi italiani e non legata invece alla fonte europea.

L'art. 311 infatti prevede al suo secondo comma che chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.

Già da una prima lettura appare chiaro che la nozione di ambiente prevista all'art. 311 sia di tipo unitario e che anche il regime di responsabilità cui fanno riferimento le due disposizioni appaia improntato a criteri diversi.

La norma di cui all'art. 300 trovando la sua genesi nella normativa comunitaria deve infatti intendersi caratterizzata da un criterio di imputazione oggettivo. Ciò viene suffragato dal tenore dell'art. 308 (costi dell'attività di prevenzione e di ripristino), secondo cui l'operatore deve sostenere i costi delle iniziative statali si prevenzione e di ripristino ambientale senza che si debba provare una sua negligenza e che richiama alla lettera l'art. 8 della direttiva 2004/35/CE.

La norma di cui al secondo comma dell'art. 311 prevede al contrario un regime di responsabilità per colpa per i danni arrecati all'ambiente in generale, senza alcun riferimento alle singole risorse naturali prese in considerazione.

Evoluzione normativa in tema di risarcimento del danno ambientale

Il d.lgs. n. 152/2016, ha regolato l'intera materia ambientale (abrogando numerose leggi precedenti) e statuendo soltanto — la priorità delle misure di «riparazione» rispetto a risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell'assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa «ambiente».

Il successivo d.l. n. 135/2009, convertito con modif. dalla l. n. 166/2009, ha poi, con l'art. 5-bis — per neutralizzare la prima contestazione della UE del 2008 — precisato (con normativa applicabile anche ai giudizi in corso in luogo della previgente art. 18 l. n. 349/1986, salva la sola formazione del giudicato) che il danno all'ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione «primaria», «complementare» e «compensativa» previste dalla Direttiva 2004/35/CE: prevedendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all'ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, impossibili o eccessivamente onerose o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte.

Tuttavia l'art. 25 della c.d. Legge Europea 2013 (l. n. 97/2013) — per neutralizzare l'ulteriore contestazione della Commissione europea del 2012 — ha ulteriormente risistemato la materia, definitivamente eliminando ogni riferimento al risarcimento «per equivalente patrimoniale» e stabilendo che il danno all'ambiente deve essere risarcito solo con le «misure di riparazione» previste del d.lgs. n. 152/2006, all. 3 (che è identico all'Allegato 2 della Direttiva 2004/35/CE); — sicché, ad oggi e con disposizione applicabile anche ai processi in corso, il danno ambientale non può in nessun caso essere risarcito «per equivalente» pecuniario, ma solo con le misure di riparazione e con i criteri enunciati negli all. 3 e 4 al d.lgs. n. 152/2006, come modificato.

Peraltro, lo stesso art. 311 d.lgs. n. 152/2006, come da ultimo modificato, prevede al comma 3 che, sia pure solo quando l'adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti (Cass. n. 9012/2015; Cass. n. 18352/2014; Cass. n. 5705/2013; Cass. n. 6551/2011).

Questioni di diritto intertemporale

La domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della l. n. 166/2009 è assoggettata, in ordine alla liquidazione del danno, ai criteri specifici risultanti dal nuovo testo dell'art. 311, commi 2 e 3, d.lgs. n. 152/2006,come modificato dall'art. 5-bis, comma 1, lett. b), d.l. n. 135/2009,convertito con modificazioni nella citata l. n. 166/2009, individuandosi tali criteri direttamente nelle previsioni dei punti 1, 2 e 3, dell'All. 2 alla Direttiva 2004/35/CE e, solo eventualmente, ove sia stato nelle more emanato, in quelle contenute nel d.m. previsto nell'art. 311, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, ultimo periodo citato (Cass. n. 6551/2011; sul punto confermata da Cass. n. 18352/201427, solo in parte — relativamente cioè ai criteri di imputazione della responsabilità, ma non pure a quelli di liquidazione del danno — difforme risultando Cass. n. 5705/2013).

Peraltro, deve prendersi atto dell'ulteriore innovazione legislativa, applicabile, per espressa previsione normativa, anche ai giudizi in corso; infatti, ai sensi dell'art. 311, comma 3, terz'ultimo periodo, come modificato dall'ultimo intervento legislativo, i criteri e metodi appena codificati — cioè pure di valutazione monetaria per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa — trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo precedente.

Secondo tale ultima novella: ai sensi del comma 2 dell'art. 311, vanno determinati i costi delle attività necessarie a conseguire la corretta e completa attuazione delle misure di riparazione di cui all'all. 3 alla parte 6 del d.lgs. n. 152/2006, quando il danno sia stato cagionato da operatori le cui attività sono elencate nell'all. 5 alla medesima parte 6; e, solo per il caso in cui l'adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, vanno determinati i costi delle attività necessari e a conseguirne la completa e corretta attuazione e si agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.

Ai sensi del comma 3 del medesimo art. 311, poi, vanno individuate le misure di riparazione da adottare con provvedimento relativo al caso di specie, mentre con decreto ministeriale vanno stabiliti (in conformità a quanto previsto dall'all. 3, punto 1.2.3, alla medesima parte 6 del d.lgs. n. 152/2006) i criteri per la determinazione delle misure di riparazione complementare e compensativa e per la loro valutazione monetaria.

La nuova disciplina va poi combinata al principio generale dell'art. 5 c.p.c. in materia di perpetuatio iurisdictionis e quindi alla persistenza della giurisdizione del giudice ordinario civile, sicché sarà quest'ultimo, investito della domanda di risarcimento per equivalente del danno ambientale, ad applicare, per provvedere sulla stessa, quei criteri e metodi e ad individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, a determinare il costo delle medesime da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.

In applicazione di principi altrettanto generali di diritto processuale, analogamente proseguono i giudizi iniziati in epoca anteriore alla prima di dette novelle legislative — e quindi prima del d.lgs. n. 152/2006 — da soggetti diversi da quello in capo al quale è ora riconosciuta in via esclusiva la legittimazione: e correttamente saranno esaminate e decise le loro domande, ove gli originari attori vi insistano, ma all'indispensabile condizione dell'armonizzazione di quelle e delle eventuali condanne coi principi suddetti, in modo che quegli attori non conseguano risultati ormai vietati dal mutato assetto ordinamentale.

Pertanto, il giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della l. n. 97/2013, essendo ormai esclusa la liquidazione per equivalente di quello, può ancora conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 d.lgs. n. 152/2006 come modificato prima dall'art. 5-bis, comma 1, lett. b), d.l. n. 135/2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97/2013, individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati (Cass. n. 9012/2015).

In tema di risarcimento del danno ambientale, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 97 del 2013, anche se riferiti a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria recepita da tale legge, è applicabile l'articolo 311 del decreto legislativo n. 152 del 2006, nel testo modificato, da ultimo, dall'articolo 25 della legge n. 97 citata, ai sensi del quale resta esclusa la risarcibilità per equivalente, dovendo ora il giudice individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa ivi prescritte e, per il caso di loro omessa o incompleta esecuzione, determinarne il costo, in quanto solo quest'ultimo (ovvero il suo rimborso) potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti. A tal riguardo, i profondi cambiamenti normativi intervenuti non hanno precluso, in sé, né la legittimazione attiva di un soggetto o ente territoriale diverso dallo Stato e neppure l'ammissibilità di una domanda di risarcimento danno proposta, come in origine previsto, per equivalente, che potrebbe in astratto essere accolta adattandola alle nuove previsioni di legge, con la previsione cioè di quelle misure di riparazione, primaria, complementare e compensativa destinate a tenere luogo, per un effettivo ripristino, del risarcimento per equivalente (Cass. 7073/2024)

Sotto altro aspetto, l'applicazione dei nuovi criteri risarcitori anche ai giudizi in corso deve avvenire anche d'ufficio – indipendentemente alla specifica domanda fatta dalle parti — perché solo in tal modo si eviterebbe la responsabilità dello Stato, membro dell'Unione ed unitariamente considerato e quindi anche quale Stato in persona dei suoi giudici di ultima istanza (Cgce 30 settembre 2003, in C- 224/01, Kobler, ovvero 13 giugno 2006, in C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; Cass. n. 1575/2015), per la violazione concreta della disciplina comunitaria — o, ora, eurounitaria — recata da un acte claire, quale certamente deve qualificarsi la normativa in materia ambientale, alla stregua della duplice procedura di infrazione avviata nei confronti della Repubblica italiana proprio per la mancata applicazione di quei principi generalissimi, tra cui quelli in tema di esclusione del risarcimento per equivalente.

Si è altresì affermato che quando la responsabilità per danno ambientale sia stata definitivamente accertata per essere passata in giudicato la decisione sull'an debeatur, la sopravvenienza dell'art. 5-bis d.l. n. 135/2009, impone una globale rivalutazione della sola questione della liquidazione del danno, con applicazione dei nuovi criteri (Trib. Bari, 14 gennaio 2016, n. 152).

L'intervento della Corte costituzionale

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale — sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost. — dell'art. 311, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che attribuisce al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo la legittimazione concorrente o sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno. La normativa impugnata è infatti la conseguenza logica del cambiamento di prospettiva intervenuto nella materia del danno ambientale, come emerge dall'evoluzione della giurisprudenza costituzionale e della relativa normativa. Se, originariamente, l'ambiente è stato considerato bene immateriale unitario, in modo che alla rilevanza dei numerosi e diversificati interessi che fanno capo alle Regioni e gli enti locali si aggiungeva l'esigenza di uniformità di tutela, che solo lo Stato può garantire, il quadro normativo è profondamente mutato con la direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE. Alla prima disciplina organica della materia (l. n. 349/1986) che legittimava a promuovere l'azione di risarcimento del danno ambientale sia lo Stato che gli enti territoriali, si è aggiunto il principio che la prevenzione e la riparazione del danno ambientale costituiscono obiettivi della politica ambientale comunitaria, e che dunque a prevalere non è più il profilo risarcitorio, ma quello della riparazione. Successivamente, il d.lgs. n 152/2006 e il d.lgs. n. 135/2009 hanno stabilito, rispettivamente, la priorità delle misure di riparazione rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, nonché la tipologia delle misure di riparazione (« primaria », « complementare », « compensativa »), relegando la tutela risarcitoria alla sola ipotesi in cui le misure di riparazione fossero in tutto o in parte omesse, o attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte ovvero impossibili o eccessivamente onerose. Infine, la l. n. 97/2013 ha eliminato, per il danno all'ambiente, il risarcimento «per equivalente patrimoniale» e imposto le «misure di riparazione». Quanto a queste ultime, se non provvede in prima battuta il responsabile del danno, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare procede direttamente agli interventi necessari, determinando i costi delle attività occorrenti per conseguire la completa e corretta attuazione e agendo nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti. È dunque in questo scenario normativo che appare non più implausibile l'esigenza di assicurare che l'esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale. Se il ripristino ambientale è ora al centro del sistema, ne deriva l'esigenza di una gestione unitaria, che giustifica la nuova disciplina del potere di agire in via risarcitoria riservato allo Stato, D'altra parte, la normativa non esclude che sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti, dal momento che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio. Né è fondato il timore che la disciplina espone la tutela dell'ambiente al rischio di una inazione statuale, attraverso la mancata costituzione di parte civile. A prescindere dalla considerazione che la proposizione della domanda nel processo penale è solo una delle opzioni previste dal legislatore, potendo lo Stato agire direttamente in sede civile, o in via amministrativa, l'interesse alla tempestività ed effettività degli interventi di risanamento di cui sono portatori gli altri soggetti istituzionali, è salvaguardato dalla possibilità che essi hanno di presentare al Ministro denunce e osservazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente relativa e chiedere l'intervento statale a tutela dell'ambiente.

Esclusione del risarcimento per equivalente anche alle cause in corso

In virtù dell'evoluzione della normativa, la disciplina nazionale — assai di recente ulteriormente modificata e definitivamente armonizzata con quella eurounitaria con il recepimento organico dei relativi principi, anche a causa di un duplice avvio a carico della Repubblica italiana, da parte della Commissione dell'Unione Europea, di procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE — può in linea di grande approssimazione sintetizzarsi nell'espunzione dall'ordinamento della stessa risarcibilità per equivalente e nella legittimità dei soli interventi di recupero o riparazione (sia pur suddivisi in primaria, complementare e compensativa), se del caso all'esito di una compiuta riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi — generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto — coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse ed affidati pertanto esclusivamente allo Stato.

Pertanto, non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile — né in forma specifica, né a maggior ragione per equivalente — ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio reso oggetto dell'intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti: misure che vanno ora tutte verificate alla stregua della nuova normativa (Cass. n. 16806/2015).

La Suprema Corte ha ritenuto, quindi, che, anche in ragione del recepimento della Direttiva 2004/35/CE, debba considerarsi espunta dall'ordinamento italiano la risarcibilità per equivalente del danno ambientale e dunque debbano considerarsi legittimi solo gli interventi di recupero o riparazione (suddivisi in primaria, complementare e compensativa), valutati alla luce dei numerosi e differenziati interessi coinvolti (generali e particolari, ma mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto), facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante.

Si deve così escludere qualsiasi danno ambientale residuale economicamente quantificabile e dunque risarcibile (in forma specifica o per equivalente), ogniqualvolta, a fronte della riduzione in pristino, non emerga la necessità di far eseguire ulteriori interventi sul territorio inquinato o danneggiato, e in caso di inerzia dei danneggianti, questi potranno essere condannati solo al rimborso dei costi dei predetti interventi.

In conformità ai principi comunitari richiamati, la Cassazione ha statuito che il Giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della l. 6 agosto 2013, n. 97, dovendosi ritenere esclusa la liquidazione per equivalente, può pronunciarsi sulla domanda in applicazione del nuovo testo dell'art. 311, d. lgs. n. 152/2006, come modificato dall'art. 5-bis, comma 1, lett. b), d.l. n. 135/2009 e poi dall'art. 25, l. n. 97/2013, individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, e in caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinarne il costo e condannare i soggetti obbligati al rimborso dello stesso.

Infatti, anche qualora l'evento-danno si sia verificato in un tempo risalente, la tutela dell'ambiente deve essere valutata al momento della pronuncia, e possono dunque essere applicati gli strumenti riparatori vigenti a quella data.

Analogamente, il giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della l. n. 97/2013 — essendo ormai esclusa la liquidazione per equivalente — può ancora conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo dell'articolo 311 d.lgs. n. 152/2006 (come modificato prima dall'articolo 5-bis, comma 1, lett. b, d.l. n. 135/2009 e poi dall'articolo 25 l. n. 97/2013) individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa — secondo la definizione data dalla normativa più recente e in conformità alle sue previsioni — e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, solo il rimborso del quale potrà essere reso oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati (Cass. n. 9012/2015; Cass. n. 9013/2015), tale criterio va applicato anche alle controversie ancora in corso, nonostante possano riferirsi anche a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria, inscindibile essendo l'identificazione dell'ambiente quale oggetto di tutela e delle modalità e dell'ambito del risarcimento della sua lesione e per evitare la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto eurounitario.

In tale direzione, in tema di risarcimento del danno ambientale, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge 97/2013, anche se riferiti a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria recepita da tale legge, è applicabile l'articolo 311 del d.lgs. n. 152/2006, nel testo modificato, da ultimo, dall'articolo 25 della legge n. 97/2013, ai sensi del quale resta esclusa la risarcibilità per equivalente, dovendo il giudice individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa ivi prescritte e, per il caso di loro omessa o incompleta esecuzione, determinarne il costo, in quanto solo quest'ultimo potrà, essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti. Nel caso in cui l'adozione delle misure di riparazione risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, vanno determinati i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione, costo da rendere oggetto di condanna nei confronti del soggetto obbligato (Cass. n. 23195/2018).

Le misure adottabili in presenza del danno ambientale

L'art. 311 d.lgs. n. 152/2006 prevede che il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio agisce anche esercitando l'azione civile in sede penale per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale., (comma 1) e che chi arrechi un danno all'ambiente «è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato»(comma 2).

Non c'è dubbio, quindi, che, in materia di danno ambientale il legislatore abbia previsto, in via principale, misure ripristinatorie e riparatone, e, soltanto in via residuale, il risarcimento dei danni cagionati.

Pertanto, è illegittimo il provvedimento di risarcimento in forma generica per equivalente del danno ambientale, che non motivi specificamente sulla impossibilità del ripristino in forma specifica, che è criterio prioritario di risarcimento individuato dalla legge (Cass. n. 36818/2011).

Peraltro, se pur secondario e subordinato all'impossibilità di procedere in forma ripristinatoria e riparatoria, il risarcimento pecuniario è, però, previsto dalla norma, per cui, in sede cautelare, non può certo escludersi il ricorso agli strumenti consentiti dall'ordinamento per evitare che si disperdano le garanzie per il risarcimento dei danni cagionati (Cass. pen. n. 44638/2015).

In tale fase non è, infatti, ancora possibile stabilire se si farà ricorso al ripristino in forma specifica.

La legittimazione a costituirsi parte civile dei soggetti diversi dal Ministero

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha da tempo chiarito che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per i reati ambientali spetta non soltanto al Ministero dell'Ambiente, ai sensi dell'art. 311, comma 1, d.lgs. 152/2006 ma anche all'Ente pubblico territoriale ed ai soggetti provati, precisando però che per costoro siffatta legittimazione deve ritenersi limitata ai casi in cui per effetto della condotta illecita essi abbiano subito un ordinario danno risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. (Cass. pen. n. 24677/2014, Corte Cost. n. 126/2016, che ha ribadito la configurabilità di un interesse differenziato in capo agli enti locali a seguito di un evento di inquinamento qualificabile come danno ambientale).

In particolare, la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 311, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, nella parte in cui attribuisce al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo la legittimazione, concorrente o sostitutiva, della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno.

La questione è stata sollevata dal tribunale ordinario di Lanusei nel procedimento, promosso a carico di diversi soggetti, per il reato di cui all'art. 437, commi 1 e 2, c.p. (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro) per aver omesso l'adozione di precauzioni e cautele nell'esercizio delle attività militari, tra cui anche la collocazione di segnali di pericolo di esposizione di uomini ed animali a sostanze tossiche e radioattive presenti nelle aree ad alta intensità militare, cagionando così un persistente e grave disastro ambientale, con enorme pericolo chimico e radioattivo per la salute del personale civile e militare del poligono, dei cittadini dei centri abitati circostanti, dei pastori insediati in quel territorio e dei loro animali da allevamento.

Tra le persone offese indicate nel decreto di rinvio a giudizio figuravano lo Stato, la Regione autonoma Sardegna, le Province di Cagliari e d'Ogliastra, nonché i Comuni il cui territorio era stato esposto alle sostanze contaminanti.

A parere del giudice rimettente l'accentramento della legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non garantirebbe un sufficiente livello di tutela della collettività e della comunità e la deroga alla disciplina della responsabilità civile determina un trattamento deteriore del diritto ad un ambiente salubre, diritto primario ed assoluto, rispetto ai restanti diritti costituzionali di pari valore, i quali, con riguardo alla sfera di tutela di responsabilità civile, non subiscono alcuna limitazione nella titolarità dell'azione ad agire.

I giudici delle leggi indicano quale sia la corretta lettura della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 152/2006 in materia di risarcimento del danno ambientale. Per la Corte, il T.U. Ambiente, recependo la Direttiva n. 2004/35/Ce, ha posto il profilo risarcitorio in posizione accessoria rispetto al riparazione del danno ambientale.

Ciò significa che il risarcimento pecuniario per equivalente potrà aversi nella sola ipotesi in cui le misure per la riparazione del danno dell'ambiente siano risultate in tutto o in parte omesse ovvero sia stata attuata in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte o esse risultino impossibili o eccessivamente onerose.

L'art. 311 d.lgs. n. 152/2006 stabilisce che l'adozione delle misure necessarie al ripristino del danno ambientale è in prima battuta a carico del responsabile del danno, tuttavia, il comma 2 del medesimo articolo prevede che, quando le misure risultino in tutto o in parte omesse, o comunque realizzate in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare procede direttamente agli interventi necessari, determinando i costi delle attività occorrenti per conseguire la completa e corretta attuazione e agendo nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti. Tale disciplina, tra l'altro non esclude, che sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti (Corte cost. n. 126/2016).

Al riguardo, In tema di bonifica spontanea di sito inquinato, il proprietario ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute, a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed indipendentemente dalla identificazione del responsabile dell'inquinamento da parte della competente autorità amministrativa, atteso che, una volta instaurata la causa, tale accertamento ricade nel giudizio di fatto del giudice. Non trova, peraltro, applicazione la regola della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c., poiché trattasi di obbligazione ex lege di contenuto indennitario, e non risarcitorio derivante dal fatto obbiettivo dell'inquinamento (Cass. n. 1573/2019, in applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, escludendo l'applicabilità dell'art. 2055 c.c., aveva determinato l'apporto causale della società convenuta per l'inquinamento del terreno nella misura dei due terzi).

Peraltro, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla p.a. solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte se è vero, per un verso, che l'amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria — la quale impone al soggetto, che fa correre un rischio di inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione — per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa (Cons. Stato, n. 5604/2018).

Ne discende che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca alla disciplina generale del danno stabilita dal codice civile, non essendo in alcun modo dubbia la legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti.

Inoltre, concludono i giudici delle leggi, l'interesse degli altri soggetti è preso in considerazione dall'art. 309, d.lgs. n. 152/2006, il quale prevede esplicitamente che «Regioni, Province autonome ed enti locali possono presentare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l'intervento statale a tutela dell'ambiente».

In altri termini, il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico alla integrità e salubrità dell'ambiente, è previsto e disciplinato soltanto dall'art. 311, d.lgs. n. 152/2006 sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell'ambiente; tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell'art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale, così come possono agire per il risarcimento del danno non patrimoniale avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica (Cass. pen. n. 35610/2016; Cass. pen. n. 19439/2012).

Del resto, il Giudice delle leggi ha statuito che anche dopo l'entrata in vigore del d. lgs. n. 152/2006, ed in particolare degli artt. 300 e seguenti, tutti gli altri soggetti, singoli o associati, comprese le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l'azione civile in sede penale ai sensi dell'art. 2043 c.c. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall'interesse pubblico alla tutela dell'ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva (Corte cost. n. 641/2007; Cass. n. 24677/2015).

Fondamento della legittimazione processuale degli enti portatori di interessi diffusi o collettivi, infatti, è il diritto degli stessi alla tutela del loro patrimonio morale o al perseguimento dei loro scopi statutari: in casi di tal genere, purché l'interesse azionato costituisca il patrimonio morale imprescindibile dell'ente, il reato ipotizzato, oltre a ledere naturalmente l'interesse tutelato in via diretta dalla norma penale, finisce con il produrre un danno dell'ente o dell'associazione che abbia fatto della tutela del medesimo interesse il proprio scopo esclusivo o prevalente (Trib. Novara, 21 gennaio 2016).

Conclusivamente, il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico alla integrità e salubrità dell'ambiente, è ora previsto e disciplinato soltanto dall'art. 311 d.lgs. n. 152/2006, sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell'ambiente.

Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell'art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale (Cass. pen. n. 633/2012; Cass. pen. 25193/2011), così come possono agire per il risarcimento del danno non patrimoniale (Cass. pen. n. 19439/2012), avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica.

Nell'accertamento di tale voce di danno il giudice dovrà verificare, sulla base della concreta allegazione di parte, la sussistenza di esso, consistente nel pregiudizio arrecato all'attività da detti soggetti effettivamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (Cass. pen. n. 34761/2011).

Siffatti principi (da ultimo ribaditi da Cass. pen. n. 29750/2014), hanno però come loro ineludibile presupposto normativo l'avvenuta abrogazione, per effetto della entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006, art. 318, comma 2, lett. a), della ricordata l. n. 349/1986, art. 18, comma 3.

Poiché tale effetto è intervenuto solo in data 29 aprile 2006, data di scadenza della vacatio legis relativa al predetto d.lgs. n. 152/2006, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica del 14 aprile 2006, e tenuto conto ella circostanza che il ricordato decreto legislativo non contiene alcuna disposizione intertemporale destinata a disciplinare gli effetti del trapasso da un determinato assetto normativo ad un altro ad esso sopravvenuto, deve ritenersi che, per i fatti, verificatisi anteriormente alla entrata in vigore della predetta normativa e pertanto nella conseguente vigenza di quella preesistente, deve continuare ad applicarsi la l. n. 349/1986, art. 18, comma 3, che non poneva limitazioni alla legittimazione attiva degli enti locali all'esercizio della azione risarcitoria (Cass. pen. n. 24677/2014).

In tal senso può essere significativo rilevare che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali formatisi nella vigenza della cessata normativa, la legittimazione attiva a costituirsi parte civile per il risarcimento del danno ambientale era riconosciuta, oltre che agli enti territoriali diversi dallo Stato, anche alle associazioni di protezione ambientale riconosciute ai sensi della l. n. 349/1986, art. 13 (Cass. pen. n. 38748/2004).

L'entrata in vigore della l. n. 97 del 2013 (che, modificando l'art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, ha concentrato la legittimazione attiva in capo al Ministero dell'Ambiente) non fa venir meno la legittimazione dei soggetti o enti territoriali diversi dallo Stato a coltivare i giudizi di risarcimento del danno ambientale precedentemente instaurati, né determina l'inammissibilità della domanda risarcitoria per equivalente che vi sia stata eventualmente proposta, ferma restando la necessità di coordinarne la statuizione di accoglimento con le prescrizioni della nuova disciplina, alla cui stregua il giudice è tenuto ad individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e a determinarne il costo, il cui rimborso potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti nel caso di omessa o incompleta esecuzione delle stesse (Cass. n. 7073/2024).

Il risarcimento del danno in favore di soggetti diversi dal Ministero

Ai fini del riconoscimento del danno risarcibile in favore di altri soggetti, diversi dal Ministero dell'ambiente (a ciò espressamente legittimato ex art. 311 T.U. ambientale) in materia di reati ambientali è necessario il concorso di due condizioni: a) tale danno non può essere e non può coincidere, con il danno ambientale generico di natura pubblica, e dunque con la lesione dell'ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale ed anzi rispetto a questo deve essere ulteriore e diverso, oltre che diretto e specifico e deve aver provocato la lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale; b) il danno deve avere carattere patrimoniale.

Dunque, se la condotta di reato è conditio sine qua non del danno ambientale, nulla impedisce, né in linea di principio né in linea di fatto, che allo stesso tempo essa sia anche conditio della lesione di altri diritti patrimoniali, degni di tutela risarcitoria; cionondimeno, tale lesione deve comportare un danno diretto e specifico.

La seconda precisazione appare ancora più rilevante e selettiva. Infatti, se davvero l'attributo patrimoniale è stato utilizzato consapevolmente al fine di circoscrivere l'area del danno risarcibile — e non vi è motivo di pensare che ciò non sia avvenuto —, la conseguenza inevitabile sarebbe quella di rendere davvero ridotti gli spazi di legittimazione ad agire di entità private, associazioni, o Enti territoriali, legittimazione che dovrebbe essere esclusa laddove intendano chiedere il risarcimento del danno da illecito ambientale, sub specie di danno morale (non patrimoniale), invocando, ad esempio, la frustrazione dei propri scopi istituzionali o statutari ovvero il risarcimento del danno quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente salubre di ogni uomo e delle formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità.

In tali ipotesi si è, infatti, in presenza di posizioni giuridicamente rilevanti, ma non di diritti patrimoniali lesi e, correlativamente, di danni patrimoniali patiti, requisito necessario per la legittimazione all'azione risarcitoria, secondo la decisione in commento.

È appena il caso di notare che una tale interpretazione non frustra minimamente i diritti risarcitori dei privati cittadini che abbiano subito, quale conseguenza del fatto produttivo del danno ambientale, un danno alla salute: si tratterà caso mai di valutare se sussista un delitto contro la persona concorrente con il reato ambientale.

In caso affermativo, infatti, costoro potranno certamente agire, eventualmente costituendosi parte civile, anche per il risarcimento del danno biologico — notoriamente non patrimoniale — inteso non già quale conseguenza dell'illecito ambientale ma dell'autonomo reato contro la persona.

Inoltre, per la Cassazione il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica può configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela (Cass. pen. n. 19439/2012).

La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 c.c., poiché l'art. 185 c.p., comma 2, — che costituisce l'ipotesi più importante «determinata dalla legge» per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. — dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale« obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi »danneggiato« per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.

Invero, il danno all'ambiente può concorrere con un danno patrimoniale subito dal privato e conseguente al medesimo illecito, che, in particolare, in ipotesi di illecito penale consente di configurare una condotta antigiuridica sussumibile sul piano civilistico nell'alveo dell'art. 2043 c.c. Del resto, che la fattispecie di cui all'art. 18, oggi abrogata dal testo unico 152 del 2006, vale a dire l'Illecito ambientale in senso proprio, non esaurisca la tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive colpite dalla condotta lesiva dell'ambiente è testimoniato dalla nuova disposizione di cui all'art. 313, comma 7, del richiamato testo unico che così recita: «resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi». Quanto detto, circa i rapporti tra l'art. 2043 e l'art. 18 l. n. 349/1986 assume un significato, oltre che dogmatico, di ordine eminentemente pratico posto che da un lato l'accertamento dell'illecito seguirà lo schema dell'art. 2043 c.c. che delimita l'onere probatorio dell'attore e, dall'altro, la conseguente obbligazione risarcitoria avrà i caratteri della solidarietà nei riguardi ed a tutela del danneggiato in base all'art. 2055 c.c., diversamente dall'illecito ambientale, per il quale l'art. 18, richiamato nel presente procedimento ratione temporis, prevede una responsabilità risarcitoria parziaria (Trib. Busto Arsizio, 6 agosto 2010).

Il diritto all'integrità dell'ambiente è configurabile sia come interesse diffuso che in termini di diritto soggettivo individuale ma, nonostante questa duplice natura, l'azione di risarcimento del danno ambientale può essere esercitata solo dagli enti pubblici, unici titolari del diritto in esame.

Ai singoli viene riconosciuto un diritto soggettivo ad un ambiente salubre che legittima il ricorso all'azione prevista dall'art. 2043 c.c. solamente sulla base della prova del fatto, dell'evento lesivo e del nesso di causalità fra evento e danno, oltre ad una funzione di promozione dell'azione nei confronti degli enti legittimati o la possibilità di ingresso nei processi civili e penali da questi ultimi instaurati (Trib. Bologna, 19 febbraio 2014, n. 20258).

In caso di illecito ambientale, la prescrizione del credito risarcitorio del proprietario del sito inquinato, non responsabile dell'inquinamento e che ne abbia sostenuto le spese di bonifica, nei confronti del responsabile dell'inquinamento decorre dal momento della prima manifestazione del danno, da identificarsi in quello in cui egli abbia ricevuto l'ingiunzione a provvedere alla bonifica (Cass. n. 8826/2024).

Il concorso in caso di danno ambientale

Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale (principio posto dalla art. 18 l. n. 349/1986, e poi ribadito dall'art. 311, comma 3, d.lgs. n. 152/2006 penultimo periodo, anche nel testo modificato — da ultimo – dall'art. 25 l. n. 97/2013).

Tuttavia, la conseguente esclusione dell'operatività dell'art. 2055 c.c. deve avvenire con cautela, quello integrando un principio generale in tema di responsabilità extracontrattuale e rispondendo ad esigenze di tutela immediata ed effettiva del danneggiato.

È indubbio che tale esclusione di operatività mira ad evitare il rischio di una sorta di responsabilità oggettiva o per fatto altrui ed in particolare quello di ascrivere ad ogni compartecipe anche per un modesto segmento di una delle condotte sfociate in un danno ambientale complessivo la responsabilità per l'ingentissimo danno che ne è derivato, anche quanto alle specifiche conseguenze non prevedibili o perfino non controllabili perché da ascriversi alla condotta indipendente di altri: si pensi al caso di danneggiamenti ambientali di contesti complessi, determinati da condotte tra loro del tutto indipendenti (come, ad esempio, l'inquinamento di un corso d'acqua da parte di diversi imprenditori trasgressori), nei quali è parso opportuno che il risultato complessivo finale non fosse ripagato per intero secondo la casualità del soggetto economicamente solvibile.

Se questa è la ratio della norma di limitazione della responsabilità, essa non può operare pure nei casi di condotta unitaria, risultante dalla combinazione, quale indispensabili antefatti causali tra loro avvinti da inscindibili e reciproci nessi di consequenzialità, delle azioni colpose o dolose concorrenti di più persone: alle quali ultime sia quella complessiva condotta che quell'unitario danno allora andranno altrettanto unitariamente ascritti, in persistente applicazione — o, se si vuole, in non limitata applicazione o non estesa esclusione — della regola generale.

E la limitazione di responsabilità in esame va allora circoscritta ai casi in cui le condotte causative dell'unitario evento di danno siano differenti e tra loro indipendenti; a contrario, ove l'unitario evento di danno sia causato non da una pluralità di condotte autonome od indipendenti, ma da una altrettanto unitaria condotta colposa o dolosa, però indissolubilmente ascrivibile a più soggetti tra loro indifferenziatamente e quindi a condotte concorrenti in senso stretto, può riprendere applicazione — o non soffrire la limitazione speciale suddetta — la regola generale dell'art. 2055 c.c., che pone appunto in via generalissima i criteri di imputazione degli effetti di una condotta complessiva ed inscindibile nelle componenti delle azioni od omissioni di più soggetti.

Si è quindi affermato che in materia di responsabilità per danno ambientale, la regola sancita dall'art. 311, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, nel testo modificato, da ultimo, dall'art. 25 l. n. 97/2013 — per la quale «nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale» mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in caso di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di una unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, quando siano tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa: con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, non soffre imitazione la regola generale dell'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero danno causato (Cass. n. 14935/2016; Cass. n. 9012/2015).

Pertanto, la condotta antigiuridica consistente nella causazione di un danno inflitto all'integrità ambientale – la cui normativa italiana ha recentemente perseguito un'armonizzazione con quella sia comunitaria che europea – ha portato la Cassazione ad affermare che in materia di responsabilità per danno ambientale, la regola di cui all'art. 311, comma 3, penultimo periodo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (nel testo attualmente vigente e secondo cui «ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale») mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni che concorrono, ciascuna nella sua rilevanza causale alla realizzazione di una condotta unitaria di danneggiamento dell'ambiente. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola di cui all'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato.

Con riferimento al comma 7 dell'art. 18 l. n. 349/1986, la Corte di Cassazione aveva precisato che con tale norma il legislatore non ha inteso trasformare l'obbligazione solidale per il risarcimento del danno ambientale in obbligazione parziaria, ma ha semplicemente affermato che nei rapporti interni di regresso tra i condebitori ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità, in deroga alla norma stabilita dall'art. 2055, comma 3, c.c., secondo cui in caso di dubbio le colpe si presumono uguali. E ciò perché costituisce principio generale del nostro ordinamento la solidarietà passiva nelle obbligazioni risarcitorie ex delicto (art. 187, comma 2, c.p.) e da fatto illecito (art. 2055, comma 1, c.c.), e sarebbe assurdo che una legge, come la 349/1986, che ha inteso approntare nuovi strumenti di tutela dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni ambientaliste a fronte del danno ambientale, abbia poi affievolito la garanzia dei soggetti danneggiati nei confronti dei responsabili del danno, trasformando da solidale in parziaria l'obbligazione risarcitoria di questi (Cass. pen. n. 11870/2003; la natura derogatoria del comma 7 dell'art. 18 era stata in precedenza affermata da Cass. n. 9211/1995).

Ad ogni modo, in presenza di danno ambientale potenzialmente imputabile a una pluralità di soggetti, è necessario provare analiticamente l'effettiva incidenza causale del comportamento del proprietario attuale nell'inquinamento del sito contaminato, non gravando su di esso alcun obbligo di procedere alle attività di messa in sicurezza e bonifica. In ogni caso, il risarcimento del danno ambientale non può esperirsi per equivalente pecuniario, ma solo attraverso le misure di riparazione ambientale previste dall'Allegato 3 alla Parte VI del d.lgs. n. 152/2006 (Trib. Livorno, 13 aprile 2015, n. 5261).

Invero, la responsabilità ambientale è pacificamente di natura personale, trovando riscontro sia nel principio comunitario «chi inquina paga» — enunciato dall'art. 191, comma 2, Tfue — sia nelle disposizioni legislative interne di cui all'art. 311, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, e all'art. 18, comma 7, legge n. 349/1986 (Cass. n. 9211/1995, ove si è proceduto ad individuare la responsabilità solidale di alcune società produttrici e smaltitrici di rifiuti fondando la propria decisione sul combinato disposto degli artt. 2043 e 2051 c.c.; Cass. pen. n. 11870/2004 ha affermato come si dovesse intendere la disciplina di cui al comma 7 non tanto come vera e propria obbligazione parziaria, bensì come criterio di regolazione dei rapporti interni di regresso tra condebitori, in deroga a quanto previsto dall'art. 2055, comma 3, c.c.).

Le Sezioni Unite, in tema di responsabilità ambientale, hanno affermato che a carico del proprietario/gestore del sito inquinato che non abbia direttamente causato l’inquinamento, non può essere imposto l’obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza (c.d. “m.i.s.e.”) e di bonifica, in quanto gli effetti in capo al proprietario incolpevole sono limitati a quanto previsto dall’art. 253 c. amb. in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari, possedendo le misure anzidette una connotazione ripristinatoria di un danno già prodottosi che le rende non assimilabili alle misure di prevenzione che, viceversa, il proprietario del sito è obbligato ad assumere in quanto idonee a contrastare un evento recante una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile; al proprietario che non abbia causato l’inquinamento sono, altresì, inapplicabili i criteri di imputazione della responsabilità di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c., dal momento che la disciplina definita nella parte quarta del c. amb. per la bonifica dei siti contaminati ha carattere di specialità rispetto alle norme del codice civile, contemplando, a tale proposito, la specifica posizione del proprietario/gestore incolpevole e trovando applicazione nei confronti del responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga” di cui alla Direttiva 2004/35/CE), a titolo di dolo o colpa; ne consegue che l'obbligo di adottare le misure utili a fronteggiare la situazione di inquinamento rimane unicamente a carico di colui che di tale situazione sia stato responsabile per avervi dato colposamente o dolosamente causa, non potendosi addossare al proprietario incolpevole dell’inquinamento alcun obbligo né di bonifica, né di messa in sicurezza (Cass., S.U., n. 3077/2023).

Pertanto, in assenza della prova della incidenza causale di ciascun singolo concorrente deve escludersi una responsabilità solidale di tutti gli operatori che hanno concorso all'inquinamento del sito e, dunque, ritenere tutti responsabili dell'intero danno.

In tale direzione, il Consiglio di Stato, facendo leva su un'interpretazione letterale della disciplina predisposta dal d.lgs. n. 152/2006, ha stabilito chiaramente come l'obbligo di bonifica gravi solamente sul responsabile dell'inquinamento. Rimarrebbe salva la mera facoltà per il proprietario o altri soggetti interessati di procedere volontariamente alla bonifica, ai sensi dell'art. 245 d.lgs. n. 152/2006. Di conseguenza, nel caso in cui l'Amministrazione non provi il nesso causale tra la condotta del proprietario del sito e l'inquinamento, non potrà essere imposto a quest'ultimo alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un'ottica di recupero del sito (Cons. St. n. 2376/2011; Cons. St. n. 3885/2009; T.A.R. Toscana n. 565/2011).

Invero, secondo l'orientamento che si sta consolidando deve essere esclusa l'automaticità ed oggettività della responsabilità in capo al c.d. proprietario incolpevole. A tal proposito, si è osservato che costituisce jus receptum l'orientamento a mente del quale, quando un fenomeno di inquinamento non è ascrivibile alla sfera di azione del proprietario medesimo, va escluso il coinvolgimento coattivo del proprietario dell'area inquinata, nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza: al più tale soggetto potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell'art. 253 del cod. ambiente (Cons. St. n. 4647/2016).

In tal senso, il soggetto proprietario che non ha prodotto né autonomamente né in concorso l'inquinamento del sito non risponde degli oneri di bonifica per il solo fatto d'essere proprietario ma sussiste in capo allo stesso una responsabilità di natura patrimoniale limitatamente al valore del sito a seguito degli interventi di ripristino posti in essere dall'Autorità competente (Cons. St. n. 502/2018).

Pertanto: a) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. l), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia; b) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2); c) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente (art. 244, comma 4); d) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4); e) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).

Le suddette regole derivano da un principio di matrice eurounitaria rappresentato dal principio “chi inquina paga” ormai confluito in una specifica disposizione (art. 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea).

Il Codice dell'ambiente opera infatti una precisa scansione dei soggetti di volta in volta chiamati ad adottare le misure di protezione e ripristino ambientale, senza la previsione espressa e diretta degli obblighi di cui agli artt. 240 ss. in capo al proprietario incolpevole, salvi gli effetti derivanti dall'imposizione di oneri reali e privilegi speciali ex art. 253 — previsti peraltro per far fronte alla sola ipotesi di inadempimento (o mancata individuazione) del soggetto responsabile —. Allo stesso tempo, il principio chi inquina paga andrebbe inquadrato nell'ottica di una responsabilità individuale rifuggendo qualsiasi ipotesi di responsabilità oggettiva.

Peraltro, l'Adunanza Plenaria ha concluso nel senso che l'Amministrazione non possa imporre al proprietario di un'area inquinata, che non sia anche l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica [...], in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall'art. 253 d.lgs. n. 152/2006 in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, operando lo stesso codice una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione (Cons. St. n. 21/2013; Cons. St. n. 25/2013).

Ciononostante, il Collegio ha ritenuto necessario sottoporre al vaglio della Corte di giustizia europea la questione relativa alla compatibilità di siffatto sistema di imputazione degli obblighi di bonifica ai principi comunitari in materia ambientale, come sanciti dall'art. 191, par. 2 Tfue, e dalla Direttiva 2004/35/CE.

Sulla questione pregiudiziale si è pronunciata la Terza Sezione della Corte di giustizia europea (Corte giust. UE, 4 marzo 2015, causa C-534/13). Secondo i Giudici comunitari, la disciplina nazionale di cui agli artt. 239 ss., d.lgs. n. 152/2006, sarebbe assolutamente compatibile con quella comunitaria, in particolare con la Direttiva 2004/35/CE. L'analisi del considerando 2 e degli artt. 4,6,7,8 e 11, par. 2 della direttiva, ha portato la Corte a concludere per l'assoluta necessità di individuare, ai fini dell'applicazione della direttiva stessa, un nesso di causalità tra l'attività dell'operatore e il danno ambientale verificatosi. Tale indagine risulta infatti imprescindibile ai fini dell'implementazione del principio «chi inquina paga», nonché del regime di responsabilità di cui alla stessa Direttiva 2004/35/CE, a quest'ultimo informato. Qualora non possa invece essere dimostrato alcun nesso eziologico tra il danno e un'attività condotta da un operatore, tale situazione rientrerebbe nell'ambito dell'ordinamento giuridico nazionale, che troverebbe unico limite nel rispetto delle norme del Trattato e di altri atti di diritto derivato.

Alla luce della decisione del giudice comunitario, resta in capo al legislatore nazionale la scelta circa l'attribuzione all'autorità competente di poteri impositivi relativamente alle attività di messa in sicurezza o bonifica nei confronti di un soggetto — nel caso di specie, il proprietario incolpevole — non espressamente individuato come responsabile del fatto lesivo ambientale (Fermeglia, 1595).

Di recente, si è affermato che la direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004, del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla responsabilità ambientale in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata che non osta a una normativa nazionale la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione degli interventi (Cons. St. n. 4119/2016).

Responsabilità della società capogruppo

In una fattispecie relativa alla impugnazione avanti al giudice amministrativo di una ordinanza di rimozione dei rifiuti da una discarica e di bonifica, emessa nei confronti della capogruppo si è affermato (T.A.R. Abruzzo n. 204/2014) che, ai fini dell'accertamento di illeciti ambientali commessi da gruppi societari deve essere accolta la concezione sostanzialistica di impresa fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria (maturata soprattutto in tema di concorrenza) e quindi applicato il principio della prevalenza dell'unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, secondo cui per illeciti commessi dalle società operative la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazione in misura tale, come nel caso di specie, da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse (nel caso di controllo totalitario, come nella fattispecie esaminata dalla sentenza, l'assenza di autonomia decisionale è presunta, secondo Corte di Giustizia, 25 ottobre 1983, causa C- 107/82).

La decisione ha altresì precisato che l'applicazione del principio eurounitario dell'unicità economica del gruppo al fine di allocare l'obbligo di bonifica su chi per lungo tempo si è giovato di tali attività realizzate anche mediante società operative attiene all'imputazione della responsabilità intera e finale in capo alla holding e al gruppo nel suo complesso e non alla misura del concorso nella responsabilità.

Inoltre tale soluzione favorisce l'effetto utile dell'applicazione di principi fondamentali della materia ambientale (di matrice eurounitaria), quale quello secondo cui «chi inquina paga».

Pertanto il principio della responsabilità di gruppo fatto proprio dalla risalente giurisprudenza comunitaria nella materia degli illeciti concorrenziali, costituisce un principio generale di diritto amministrativo interno e quindi deve essere applicato dalle Amministrazioni nell'adottare anche i provvedimenti del tipo in esame, per via dell'effetto spill over dei principi comunitari, oggi del resto codificato espressamente all'articolo 1 della l. n. 241/1990.

L'applicabilità di tali principi nella materia del danno ambientale è stata esaminata da altra pronuncia del giudice amministrativo relativa alla impugnazione di una ordinanza ministeriale a contenuto risarcitorio rivolta anche nei confronti della società holding del gruppo (T.A.R. Lazio n. 3449/2016).

La sentenza, premesso che il rapporto di società con le partecipate era di carattere finanziario (ed asseritamente decisorio, con riguardo all'invocato patto parasociale), afferma che dal punto di vista astrattamente teorico, ed in prima approssimazione, non si può escludere che si verta in ipotesi di attribuibilità alla ricorrente della qualità di «operatore economico» quanto al potere decisionale sulle scelte finanziarie da parte della società nei confronti delle partecipate (a loro volta partecipanti nelle società immediatamente impegnate nell'attività chimica e materialmente responsabili dell'attività inquinante).

Inizio del termine di prescrizione

In tema di danno ambientale trattandosi di illecito evidentemente permanente, attesa la persistenza nel tempo della condotta — liberamente adottata ma sempre reversibile, con spontanea tempestiva ottemperanza anche alle ingiunzioni via via impartite — di mantenimento del sito ambientale in condizioni di depredazione o diminuzione, la prescrizione avrebbe iniziato a decorrere soltanto da quando la situazione illegittima, consistente nell'addotta alterazione dello stato dei luoghi, fosse stata rimossa (Cass. n. 594/1990; Cass. n. 1624/1980), oppure da quando fosse divenuta impossibile per i soggetti danneggianti, ove avessero perso la libera disponibilità del bene e, quindi, la possibilità di liberamente determinarsi in ordine allo stesso (Cass. n. 28652/2011).

Della prescrizione del diritto al risarcimento del danno ambientale si è occupata recentemente la Corte di Cassazione (Cass. n. 9012/2015; Cass. n. 3259/2016).

In precedenza si discuteva se l'illecito civile fonte del danno ambientale avesse natura permanente, e quindi restasse in essere fino a che permaneva il danno, ovvero se fosse illecito istantaneo ad effetti permanenti, con conseguente decorrere della prescrizione a partire dal momento di realizzazione della condotta.

La soluzione del quesito assume rilevanza ai fini della prescrizione dell'azione risarcitoria (che, secondo l'art. 2947 c.c. si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato, salvo che il fatto sia considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, nel qual caso questa si applica anche all'azione civile) atteso che nel caso d'illecito permanente il danno si verifica momento per momento, per cui in ogni momento sorge il diritto al risarcimento per il danno già verificatosi e decorre il relativo termine di prescrizione (Cass. n. 11474/1993; Cass. n. 14861/2000).

In generale l'atto illecito istantaneo si distingue dall'atto illecito permanente — con le relative conseguenze in ordine alla decorrenza della prescrizione — perché nel primo la condotta dell'agente si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno, mentre in quello permanente essa perdura oltre tale momento e continua a cagionare danno per tutto il corso della sua durata (Cass. n. 875/1990). L'istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento contra ius dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa. Mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero elemento genetico dell'evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l'esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nel fatto illecito permanente il comportamento contra ius oltre a produrre l'evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell'uno e dell'altro (Cass. n. 1156/1995; Cass. n. 16009/2000).

n sostanza, «l'istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento contra ius dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa. Mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero elemento genetico dell'evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l'esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nel fatto illecito permanente il comportamento «contra ius» oltre a produrre l'evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell'uno e dell'altro» (Cass. II, n. 1156/1995).

In questo contesto, si è affermato che il danno ambientale integra un illecito evidentemente permanente, attesa la persistenza nel tempo della condotta — liberamente adottata ma sempre reversibile, con spontanea tempestiva ottemperanza anche alle ingiunzioni via via impartite — di mantenimento del sito ambientale in condizioni di depredazione o diminuzione, la prescrizione avrebbe iniziato a decorrere soltanto da quando la situazione illegittima, consistente nell'addotta alterazione dello stato dei luoghi, fosse stata rimossa (...), oppure da quando fosse divenuta impossibile per i soggetti danneggianti, ove avessero perso la libera disponibilità del bene e, quindi, la possibilità di liberamente determinarsi in ordine allo stesso, concludendo nel senso che la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento e pertanto il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento non inizia a decorrere se non da quando tali condizioni sono state volontariamente eliminate dal danneggiante o tale condotta è stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte del danneggiante medesimo (Cass. n. 9012/2015).

In altri termini, a proposito del pregiudizio morale derivante da danno ambientale, la Cassazione ha quindi affermato – sul presupposto che la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento – che il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal momento in cui tali condizioni siano state volontariamente rimosse dall'autore del danneggiamento, ovvero la eliminazione di dette conseguenze non può realizzarsi per la perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte di costui.

La stessa Corte di Cassazione ha fatto ulteriori due precisazioni.

In primo luogo ha operato una netta distinzione rispetto alla contigua materia della bonifica, affermando che la natura permanente dell'illecito causa del danno ambientale prescinde dall'esistenza di un obbligo legale di provvedere alla bonifica del sito contaminato e al ripristino ambientale delle aree compromesse (già previsto dall'abrogato art. 17 d.lgs. n. 22/1997 e poi dagli artt. 242 segg. Codice ambientale), così da individuare, anche in funzione della decorrenza della prescrizione, una condotta omissiva in contrasto con l'obbligo ex lege di attivarsi ai predetti fini, la quale, tuttavia, non potrebbe ritenersi imposta retroattivamente (Cass. n. 3259/2016). Differente è, quindi, la situazione che attiene alla cessazione di una condotta lesiva, di compromissione del bene ambiente, con relativa rimozione delle condizioni che la determinino, e quella che fa leva, invece, sul comportamento (direttamente imposto dalla legge) volto a porre in essere misure, lato sensu, ripristinatorie della funzionalità ambientale del sito inquinato.

In tema di risarcimento del danno ambientale nella sua duplice veste di danno patrimoniale e di quello di cui all'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, i giudici di legittimità hanno affermato che le spese per la rimessione in pristino, per la bonifica dei terreni danneggiati, in uno con i danni derivanti dal la perdita di valore del terreno inquinato et similia, costituiscono nomina dello stesso pregiudizio, risultando, pertanto, assoggettate allo stesso termine di prescrizione. Ne consegue che, nel caso in cui sia stata pronunciata sentenza penale, che contenga anche la statuizione generica circa il risarcimento del danno ambientale, l'azione per la relativa quantificazione si prescrive, a norma dell'art. 2953 c.c., nel termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui la sentenza stessa divenga irrevocabile (Cass., n. 6901/2015).

La seconda precisazione riguarda la valenza del precedente giurisprudenziale rappresentato da Cass. n. 9711/2013, secondo cui ha natura di illecito istantaneo con effetti permanenti quello che determini un danno da inquinamento, dal momento che la condotta lesiva consiste in un fatto quod unico actu perfecitur, cioè destinato ad esaurirsi in una dimensione unitaria (sul piano logico e sostanzialmente cronologico) di concreta realizzazione, a prescindere dalla eventuale diacronia dei relativi effetti.

Tale precedente viene ritenuto non pertinente alla fattispecie, giacché esso ha riguardo al danno (non patrimoniale) alla persona in conseguenza di inquinamento ambientale e non già al danno all'ambiente quale bene autonomamente inteso, nei termini sopra evidenziati, per il cui risarcimento è causa (Cass. n. 3259/2016).

L'affermazione della natura di illecito permanente del danno ambientale, consente un chiarimento in relazione alla ipotesi in cui l'attività generatrice del danno sia realizzata da più persone che si succedono nel tempo (es. realizzazione di discarica abusiva iniziata da un soggetto e proseguita da un altro).

In tal caso, vale il principio secondo cui la successione di un soggetto ad un altro in un rapporto, comportando il termine di una condotta e l'inizio di un'altra, determina la cessazione della permanenza e l'inizio del decorso del termine di prescrizione del diritto al risarcimento, nonché, ove il successore, ponga in essere una nuova e autonoma condotta illecita, l'insorgenza di un nuovo illecito permanente alla cui cessazione inizierà a decorrere un nuovo termine prescrizionale; peraltro, ove la situazione di danno o di pericolo in pregiudizio dello stesso soggetto, ancorché apparentemente unitaria con riferimento alla posizione del danneggiato, derivi materialmente da condotte autonome e distinte, di per se stesse idonee e sufficienti a cagionare eventi dannosi o pericolosi ontologicamente separati, non insorge una situazione di condebito e non si fa luogo a solidarietà (Cass. n. 493/1999, relativa ad un caso di captazione di acque pubbliche senza titolo inizialmente effettuato dalla Cassa per il Mezzogiorno in danno dell'A.C.E.A. e, in un secondo momento, dalla Regione Abruzzo cui la Cassa aveva trasferito le opere dell'acquedotto per il fabbisogno idrico della popolazione).

Si è comunque precisato che la prescrizione quinquennale dell'azione di risarcimento dei danni derivanti a diritti di soggetti che lamentino la lesione dei loro diritti di proprietà, di impresa (nella specie, agricola) e all'integrità psico-fisica cagionata dalla compromissione dell'ambiente provocata dall'esercizio dell'attività di raccolta e smaltimento dei rifiuti decorre dal momento in cui i danni derivanti dalla lesione si sono manifestati e sono divenuti percepibili, venendo in rilievo un illecito istantaneo a effetti permanenti; tale azione, infatti, si riferisce al danno (non patrimoniale) alla persona in conseguenza di inquinamento ambientale e non già al danno all'ambiente quale bene autonomamente inteso, non potendo pertanto trovare applicazione il principio della decorrenza del termine prescrizionale solo dal momento in cui le condizioni di danneggiamento siano cessate (T.A.R. Latina, 23 novembre 2016, n. 741).

Inoltre, la controversia concernente la corresponsione del corrispettivo della gestione del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, affidato sulla base di ordinanze contingibili ed urgenti adottate (per ragioni di emergenza ambientale) ai sensi dell'art. 191 del d.lgs. n. 152 del 2006, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che essa riguarda unicamente l'esecuzione del rapporto di natura privatistica intercorrente tra le parti e la cognizione di aspetti puramente patrimoniali, senza involgere il sindacato, in via diretta o incidentale, della legittimità dell'attività provvedimentale urgente posta "a monte" dello stesso, la quale costituisce uno strumento alternativo e sostitutivo del contratto di appalto (Cass., S.U. 12483/2020). 

In tema di immissioni inquinanti, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia tra privati nella quale l'attore ha domandato la condanna del convenuto ad eseguire opere idonee alla bonifica delle aree e ad evitare la migrazione delle sostanze inquinanti, nonché il risarcimento dei danni alla proprietà, all'attività, all'immagine e alla salute, senza che assuma rilievo la previsione del d.lgs. n. 152 del 2006 riguardante la possibilità di un intervento da parte della P.A. per l'eliminazione della situazione dannosa, trattandosi di un accrescimento dei livelli di tutela, che non può conseguentemente comportare un arretramento della giurisdizione in materia di diritti soggettivi (Cass., S.U., n. 18472/2024).

In caso di illecito ambientale, la prescrizione del credito risarcitorio del proprietario del sito inquinato, non responsabile dell'inquinamento e che ne abbia sostenuto le spese di bonifica, nei confronti del responsabile dell'inquinamento decorre dal momento della prima manifestazione del danno, da identificarsi in quello in cui egli abbia ricevuto l'ingiunzione a provvedere alla bonifica (Cass. n. 8826/2024).

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