Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 31 - Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullita'

Roberto Chieppa
Maurizio Santise

Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità

 

1. Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere1.

2. L'azione può essere proposta fintanto che perdura l'inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. E' fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.

3. Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

4. La domanda volta all'accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all'articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.

Note operative

Tipologia di azione Termine Decorrenza
Azione avverso il silenzio 1 anno Dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento (se l'inadempimento cessa prima dell'anno i 120 giorni decorrono dalla cessazione dell'inadempimento, ovvero dalla data del provvedimento adottato con ritardo)
Azione di condanna al risarcimento del danno subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento 1 anno e 120 giorni Dalla scadenza del termine per provvedere (se l'inadempimento cessa prima dell'anno i 120 giorni decorrono dalla cessazione dell'inadempimento, ovvero dalla data del provvedimento adottato con ritardo).
Azione di nullità 180 giorni Dalla conoscenza del provvedimento nullo
Actio iudicati (anche per provvedimenti nulli per violazione o elusione del giudicato) 10 anni Dal giudicato

Inquadramento

Per neutralizzare l'inerzia della p.a. il legislatore offre una tutela successiva, rappresentata dal rimedio del silenzio inadempimento con cui l'interessato può instaurare un giudizio teso ad accertare l'obbligo dell'amministrazione di provvedere e, qualora non residui un potere discrezionale in capo alla stessa, pronunciarsi anche sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. In quest'ultimo caso, si tratta di un giudizio di condanna ad un facere, sulla falsariga della condanna all'adempimento, come è evidente dall'art. 34, comma 1, lett. c), che, nel codificare l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto, precisa che la stessa è esercitata nei limiti di cui all'art. 31, comma 3.

Il giudizio sul silenzio inadempimento, quindi, è sensibilmente cambiato rispetto a quello originariamente previsto dall' art. 21-bis l. n. 1034/1971, come introdotto dall' art. 2 della l. n. 205/2000, che aveva ad oggetto solo l'accertamento dell'obbligo di provvedere della p.a., come aveva chiarito il Cons. St. Ad plen. n. 1/2002.

Nell'impianto del codice emerge, peraltro, l'autonomia dell'azione sul silenzio inadempimento rispetto alle altre azioni. Mancando, infatti, un provvedimento amministrativo da stigmatizzare, l'azione sul silenzio inadempimento non può che essere proposta autonomamente. Discorso diverso riguarda, invece, la possibile cumulabilità con l'azione di risarcimento del danno, che verrà esaminata all'art. 117.

Va, peraltro, evidenziato che il codice non offre una disciplina unitaria della tutela sul silenzio che, invece, è frammentata in varie norme del codice.

Nei primi tre commi dell'art. 31, contenuto nel capo II del titolo III dedicato alle azioni di cognizione, è dettata la disciplina sostanziale dell'azione sul silenzio con l'indicazione dei poteri del giudice del silenzio; nell'art. 34, lett. b), dedicato alle sentenze di merito, è previsto che il giudice ordina all'amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine; all'art. 87 è previsto che il giudizio sul silenzio inadempimento è trattato in camera di consiglio, all'art. 117 è prevista la disciplina processuale del ricorso sul silenzio; all'art. 133, n. 3 è prevista la devoluzione della materia alla giurisdizione esclusiva.

La tutela processuale segue quella sostanziale che è contenuta nell' art. 2 della l. n. 241/1990. Al comma 8 della norma è previsto espressamente il rinvio alla tutela sul silenzio inadempimento, contenuta nel c.p.a.

Compito dell'interprete è, quindi, anche ricondurre ad unità la complessa e frammentaria disciplina sparsa nel codice.

L'art. 31, comma 4, disciplina invece la domanda diretta all'accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo.

Viene confermata l'esperibilità dell'azione di accertamento nel processo amministrativo, anche se tale azione non è stata codificata come proposto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato.

Ciò non ha precluso il riconoscimento da parte della giurisprudenza dell'ammissibilità dell'azione di accertamento nel processo amministrativo.

Ad esempio, con riferimento alla tutela del terzo avverso la d.i.a. o la s.c.i.a. la giurisprudenza ammette l'azione atipica di accertamento, anche se un successivo intervento del legislatore riconduce la tutela alla necessità di chiedere alla p.a. l'esercizio dei poteri inibitori per poi contestare il silenzio o il diniego espresso.

La categoria della nullità dei provvedimenti amministrativi continua ad essere residuale ed eccezionale rispetto al principio secondo cui nel diritto amministrativo la tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento è l'annullabilità, anche in presenza di violazione di norme imperative.

L'entrata in vigore dell' art. 21- septies della l. n. 241/1990 ha contribuito a fare chiarezza e a esaurire la quasi intera area dell'invalidità del provvedimento amministrativo, ripartendola tra nullità e annullabilità, salve limitate ipotesi di irregolarità e di inesistenza.

La giurisprudenza tende a mantenere un atteggiamento restrittivo circa la qualificazione dei provvedimenti nulli, interpretando l'art. 21-septies come indicativo dell'esistenza di un numero chiuso di casi di nullità, non estensibile in via analogica ad altre ipotesi, come quelle del vizio del contrasto con il diritto dell'Unione Europea o della carenza in concreto del potere.

Sotto il versante della tutela, va escluso che il tipo di invalidità possa costituire di per sé un criterio di riparto della giurisdizione e che il «giudice naturale» dei provvedimenti nulli sia il giudice ordinario. La giurisdizione va individuata in base alla consistenza della posizione giuridica soggettiva su cui interviene l'atto nullo: giurisdizione amministrativa se il provvedimento nullo riguarda interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, anche diritti soggettivi.

Per l'azione di nullità l'art. 31, comma 4, ha introdotto un termine di decadenza di centottanta giorni e ha previsto che la nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice (la proposta di prevedere un termine per l'azione di nullità era stata esaminata dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato, ma era stata poi respinta).

Il termine di decadenza di centottanta giorni non si applica al vizio di nullità della violazione o elusione del giudicato.

Silenzio non significativo e silenzio significativo

Per delimitare il campo applicativo del giudizio sul silenzio inadempimento è necessario premettere che lo stesso ha ad oggetto esclusivamente un inerzia non significativa. Ne deriva che escono fuori da tale giudizio tutte le ipotesi di silenzio significativo, siano esse di accoglimento o di rigetto, perché in tali casi, il legislatore, in via preventiva, e non successiva, qualifica l'inerzia della p.a. come di accoglimento o di rigetto dell'istanza che, per essere stigmatizzata in sede giurisdizionale, deve essere oggetto di un'azione impugnatoria di annullamento, ai sensi dell'art. 29.

Peraltro, il silenzio assenso rappresenta la più forte tutela che può essere immaginata nei confronti del comportamento inerte della p.a. e che di recente è stato esteso anche ai rapporti tra pp.aa. ( art. 17-bis l. n. 241/1990).

Il Consiglio di Stato, Comm. Spec., nel parere del 13 luglio 2016, n. 1640, ha evidenziato che il silenzio assenso rappresenta un istituto dalla natura patologica, con valenza fortemente negativa. La generalizzazione del silenzio assenso, ora estesa anche nei rapporti tra PP.AA. ( art. 17-bis l. n. 241/1990), non comporta una sorta di accettazione dell'inerzia amministrativa, quasi che fosse un fenomeno fisiologico ed ineliminabile che viene normalizzato, degradando l'obbligo di provvedere in un mero onere di provvedere. Al contrario, il meccanismo del silenzio – assenso si basa su una contrarietà di fondo del legislatore nei confronti dell'inerzia amministrativa, che viene stigmatizzata al punto da ricollegare al silenzio dell'amministrazione interpellata la più grave delle sanzioni o il più efficace dei rimedi, che si traduce, attraverso l'equiparazione del silenzio all'assenso, nella perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.

L'orientamento tradizionale della giurisprudenza amministrativa esclude l'applicabilità del giudizio sul silenzio inadempimento in casi di silenzio assenso, in quanto, in tale ipotesi, non vi è un'inerzia sanzionabile processualmente, ma solo ad altri fini (civili, penali e disciplinari).

Parte della dottrina, tuttavia, ammette l'esperibilità di tale rimedio anche in caso di silenzio assenso perché, diversamente, il cittadino verrebbe privato di ogni garanzia legata all'atto scritto.

Tale soluzione, tuttavia, non convince perché il silenzio assenso rappresenta di per sé la più grave delle sanzioni che l'ordinamento prevede per l'inerzia della p.a., apprestando un rimedio più efficace della condanna a provvedere (Scotti).

Alla base del silenzio inadempimento vi è il dovere di provvedere e l'inerzia protratta oltre il termine finale previsto per la conclusione del procedimento.

Come precisa la dottrina, il silenzio rappresenta il dovere violato e diviene l'oggetto del successivo giudizio. È pura inerzia, non rappresenta un atto di rifiuto, è un mero fatto giuridico, è un non provvedere (Cioffi, 158).

Nello stesso senso si è, peraltro, pronunciato il Cons. St.Ad. plen., n. 1/2002.

La posizione giuridica tutelata

Ulteriore elemento per delimitare l'ambito applicativo del silenzio inadempimento è rappresentato dalla posizione giuridica tutelata. Costituendo uno strumento di tutela volto a sollecitare l'amministrazione a rispondere su un'istanza presentata dal cittadino, oggetto del giudizio non può che essere il mancato esercizio di un potere amministrativo a carattere autoritativo. In questo senso la norma si salda con l'art. 7 che, nel perimetrare la giurisdizione del giudice amministrativo, al comma 1, prevede che sono devolute alla giurisdizione del g.a. le controversie concernenti anche il mancato esercizio del potere amministrativo. Nello stesso senso va letto il successivo comma 7, il quale precisa che sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni.

In questo senso la giurisprudenza ha chiarito che l'azione avverso il silenzio — inadempimento non è esperibile avverso qualsiasi tipologia di inerzia, ma solo quando l'obbligo di provvedere implichi l'esercizio di una potestà autoritativa (T.A.R. Campania (Napoli), V, 3 febbraio 2017, n. 713).

Così si è escluso il giudizio sul silenzio inadempimento in relazione alla tutela di un diritto soggettivo: l'omessa emanazione del provvedimento finale intanto assume il valore di silenzio inadempimento, in quanto sussista un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione intestata all'organo amministrativo destinatario della richiesta, mediante lo svolgimento di un procedimento amministrativo volto all'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico; il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione, pertanto, è inammissibile allorché la posizione giuridica azionata dal ricorrente consista in un diritto soggettivo o in un interesse di fatto (T.A.R. Sardegna II, 16 gennaio 2017, n. 20).

Si è poi rilevato che il rito speciale in tema di silenzio serbato dalla Pubblica amministrazione non ha lo scopo di tutelare, come rimedio di carattere generale, la posizione del privato di fronte a qualsiasi tipo di inerzia comportamentale della stessa, bensì di apprestare una garanzia avverso il mancato esercizio di potestà pubbliche discrezionali, dal quale non può prescindersi al fine di valutare la compatibilità con l'interesse pubblico di quello sostanziale dedotto dall'interessato; conseguentemente, tale rimedio non può essere attivato per la tutela di una posizione di diritto soggettivo allo scopo di ottenere l'adempimento di un obbligo convenzionale, come la restituzione dell'immobile ed il pagamento del corrispondente valore, per il quale deve essere proposta un'azione di accertamento e di condanna; e la situazione non muta per effetto della devoluzione alla giurisdizione del giudice amministrativo delle controversie in materia di accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti e di atti e di provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici (art. 133, lett. a, n. 2 e b) dal momento che, anche in sede di giurisdizione esclusiva, non è ammessa la tutela di diritti soggettivi mediante il ricorso avverso il silenzio, sussistendo le medesime ragioni dell'esclusione (Cons. St. IV, n. 1087/2014).

Anche se non condivide nella sua assolutezza il principio appena esposto, parte della dottrina rileva che il rito speciale per il silenzio può essere utilizzato anche per i diritti soggettivi, purché si verta in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva (Guacci, 1198).

L'obbligo a provvedere quale presupposto del giudizio sul silenzio inadempimento

Presupposto del giudizio sul silenzio inadempimento è la sussistenza dell'obbligo a provvedere sull'istanza di parte. Deve, però, trattarsi della richiesta dell'esercizio di un potere a carattere autoritativo non esercitato nei termini di legge ( art. 2 l. n. 241/1990).

In quest'ottica il Consiglio di Stato ha chiarito che si verifica un silenzio-inadempimento da parte della Pubblica amministrazione tutte le volte in cui essa contravviene ad un preciso obbligo di provvedere, e tanto sia in base ad espresse previsioni di legge, sia nelle ipotesi che discendono dai principi generali o dalla peculiarità del caso (Cons. St. IV, n. 5529/2016).

L'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso deriva dall' art. 2, comma 1 primo periodo della l. n. 241/1990, che è rimasto intatto nel corso del tempo, nonostante le sei riforme che hanno interessato la norma (Cioffi, 134). È una disposizione di chiusura del diritto amministrativo, da intendersi come principio istituzionale dell'amministrazione italiana (Cioffi, 135).

La norma è espressione dei principi d'imparzialità e di buon andamento.

Tradizionalmente si è ritenuto che il dovere di provvedere sia tipico e, quindi, debba essere previsto da una espressa norma, in omaggio al principio di legalità che governa il diritto amministrativo.

Tale impostazione, tuttavia, è stata superata dalla giurisprudenza che ha ritenuto possibile il sorgere del dovere di provvedere anche in assenza di un'apposita norma giuridica, ma in presenza di principi che legittimino tale conclusione. Il riferimento è ai principi di buona amministrazione e di correttezza, da cui può nascere una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni del provvedimento (Cons. St. n. 1342/1993).

È stato puntualmente precisato che prima della legge 241, il dovere di provvedere veniva desunto proprio da determinati principi, quali l'affidamento serbato dal privato nell'incedere dell'azione amministrativa, come, ad esempio, l'imparzialità, il buon andamento, la giustizia e l'equità (Cioffi, 137).

Segue. Le forme di autotutela doverosa

Tradizionalmente si esclude la possibilità di attivare il rito in argomento in relazione ad un'istanza tesa a sollecitare il ritiro di un provvedimento, trattandosi di un'attività ampiamente discrezionale e non coercibile. Si ammette, tuttavia, che in relazione a tale tipo di istanza la p.a. debba comunque rispondere, emergendo, comunque, un obbligo di provvedere sull'istanza anche se la conseguente attività amministrativa è a carattere ampiamente discrezionale.

Tale orientamento, peraltro, è stato messo in discussione in relazione alle forme di autotutela doverosa: si tratta di quelle ipotesi di autotutela in cui la p.a. perde la discrezionalità nel ritirare il provvedimento, ma è tenuta a farlo.

La giurisprudenza ha normalmente ricondotto a queste ipotesi l'annullamento d'ufficio della concessione edilizia in sanatoria illegittima o l'annullamento del provvedimento anticomunitario.

Predicare un'autotutela doverosa e necessaria vuol dire consentire l'instaurazione del rito speciale sul silenzio anche in relazione ad una richiesta di ritiro in autotutela di una concessione edilizia in sanatoria non evasa. Trattandosi di attività vincolata, in caso di perdurante inerzia della P.A., il giudice del silenzio potrà accertare la fondatezza della pretesa sostanziale e sostituirsi alla P.A. anche avvalendosi di un commissario ad acta.

Riguardo a tale ipotesi, tuttavia, il Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, con sentenza n. 8 del2017, ha, precisato che l’autotutela non perde le sue tradizionali connotazioni di potere discrezionale che si fonda su un presupposto rigido (l’illegittimità del provvedimento amministrativo) e due presupposti mobili (ragionevole affidamento del destinatario e sussistenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità).

Integrano, invece, ipotesi di autotutela doverosa le ipotesi di recesso obbligatorio dal rapporto contrattuale, previsto in tema di appalti pubblici (Cons. St., Ad. Plen., n. 10/2020). La qualificazione innanzitutto riguarda le fattispecie descritte dall’art. 108, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, il quale impone alle stazioni appaltanti di risolvere un contratto pubblico, durante il pe- riodo di efficacia, al ricorrere di due alternative evenienze:

a) nei confronti dell’appaltatore sia intervenuta la decadenza dell’attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci;

b) nei confronti dell’appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l’applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all’art. 80.

In relazione al provvedimento anticomunitario, scartata la teoria della nullità, perché priva di fondamento normativo, si è evidenziato che il provvedimento contrastante con la normativa eurounitaria è affetto da una peculiare forma di illegittimità che impone alla p.a. di ritirarlo in autotutela per evitare che lo Stato possa subire un pregiudizio dal permanere di una situazione di contrasto con il diritto sovranazionale.

In questo senso si colloca la Corte di Giustizia, la quale ha affermato che, in applicazione dell'art. 10 del Trattato, sussiste l'obbligo (ove il diritto interno preveda tale potere) per un'autorità amministrativa di ritornare su un proprio provvedimento confermato in sede giurisdizionale con sentenza passata in giudicato, per tener conto di una sopravvenuta sentenza interpretativa della Corte di Giustizia, favorevole alla parte soccombente verso la p.a. nel precedente giudizio (Corte Giustizia CE 13 gennaio 2004, nel procedimento C-453/00, Kühne & Heitz).

Nonostante tale pronuncia, che, peraltro, è stato provocata da una situazione del tutto particolare, la giurisprudenza non è favorevole a delineare forme di autotutela doverosa, che sfuggirebbero alle maglie dell' art. 21-nonies l. n. 241/1990.

Ne deriva, pertanto, che, allo stato, sembra che lo spazio per forme di autotutela doverosa sia particolarmente limitato. Il rito sul silenzio non può, quindi, essere utilizzato in relazione all'inerzia serbata dall'amministrazione sull'istanza di ritiro del provvedimento amministrativo. Se, invece, l'amministrazione decide di riattivare il procedimento amministrativo di autotutela è tenuto a concluderlo con la possibilità, in caso di stallo, di instaurare il giudizio sul silenzio inadempimento.

In questo senso la giurisprudenza ha chiarito che non sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una «diffida-messa in mora» diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117); infatti, il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere. Infatti, il giudizio sul silenzio è diretto ad accertare se il comportamento silenzioso tenuto violi l'obbligo dell'amministrazione di adottare un provvedimento esplicito sull'istanza del privato, titolare di una posizione qualificata che ne legittimi l'istanza, mentre le istanze dei privati volte a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela da parte della P.A. hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione e non creano in capo alla medesima amministrazione alcun obbligo di provvedere, non dando luogo a formazione di silenzio inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza (T.A.R. Sicilia (Catania) III, 19 dicembre 2016, n. 3299).

Il potere di autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale della Pubblica amministrazione e non si esercita in base ad un'istanza di parte, avente al più portata meramente sollecitatoria e inidonea, come tale, ad imporre alcun obbligo giuridico di provvedere, con la conseguente inutilizzabilità del rimedio processuale previsto avverso il silenzio inadempimento della p.a. (Cons. St. III, n. 539/2021, T.A.R. Roma, (Lazio) sez. I, 30/08/2021, n. 9422).

La giurisprudenza ha, peraltro, individuato un ulteriore argomento per escludere l'applicabilità del silenzio inadempimento in caso di autotutela. In particolare, la preclusione del ricorso avverso il silenzio-inadempimento, onde ottenere l'intervento dell'Amministrazione in autotutela, rinviene la propria ratio nell'esigenza di evitare l'aggiramento della regola del termine decadenziale di impugnazione dell'atto amministrativo (T.A.R. Campania, (Salerno) I, 21 marzo 2017, n. 507).

Segue. Obbligo a provvedere e occupazione provvedimentale

Altro problema si è posto in relazione all'istanza con cui si sollecita la p.a. a decidere se adottare un provvedimento di acquisizione provvedimentale che, ai sensi dell' art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, è espressione di un potere ampiamente discrezionale; tale potere, peraltro, potrebbe essere esercitato senza un limite temporale prestabilito, mancando un termine espressamente stabilito dal legislatore.

La Corte cost. n. 71/2015 ha riconosciuto la legittimità di quegli orientamenti giurisprudenziali che cercano di evitare che il provvedimento di acquisizione sanante possa essere esercitato sine die.

Tra questi rientra quello del Cons. St. IV, che, con sentenza 26 agosto 2015, n. 4014, ha evidenziato che è ammissibile un ricorso avverso il silenzio-rifiuto formatosi su di una istanza con la quale gli assegnatari con diritto di superficie di alloggi economici e popolari, a seguito dell'annullamento in sede giurisdizionale degli atti espropriativi, hanno chiesto alla p.a. espropriante di avvalersi dell' art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, fatto sempre salvo il ricorso a strumenti di natura privatistica, come la stipula di un contratto di acquisto avente anche funzione transattiva.

Secondo i giudici amministrativi, le Amministrazioni hanno l'obbligo giuridico di far venir meno – in ogni caso – l'occupazione «sine titulo» e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. Dunque, sussistendo in astratto un obbligo di provvedere, l'azione per silentium è validamente esperibile. È decisivo, però, cogliere il distinguo dei giudici di Palazzo Spada. Il giudizio sul silenzio inadempimento non può essere attivato per pretendere dalla P.A. l'emanazione del provvedimento ex art. 42-bis che resta ampiamente discrezionale e, quindi, non surrogabile dal g.a., pena l'invasione della discrezionalità della P.A. Ciò che, però, può essere chiesto al g.a. è di condannare la P.A. a determinarsi, essendo impedito alla stessa di restare inerte di fronte ad una situazione di intrinseca illiceità da essa stessa provocata, con l'occupazione abusiva.

Bisogna, quindi, distinguere tra obbligo a provvedere e obbligo ad attribuire il bene della vita richiesto: solo in relazione al primo tipo di obbligo è validamente esperibile il rito sul silenzio.

La P.A. dovrà, dunque, decidere se restituire il bene o acquisirlo coattivamente con il meccanismo semplificato ex art. 42-bis.

Il Consiglio di Stato, quindi, ha dichiarato l'obbligo della P.A. di determinarsi in seguito all'istanza proposta dal privato e ha fissato un termine per provvedere, senza, comunque, accertare la fondatezza della pretesa, stante l'ampia discrezionalità dell'amministrazione.

Altro problema è verificare se, in caso di ulteriore inerzia della P.A., il Commissario ad Acta nominato dal giudice amministrativo possa emanare il provvedimento ai sensi dell' art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 sostituendosi alla P.A. inerte. Sul punto si veda l'art. 117.

Segue. Obbligo a provvedere e atti soprassessori

Gli atti soprassessori sono atti con cui la p.a. non decide definitivamente sull'istanza, ma soprassiede sulla stessa, rinviando il soddisfacimento dell'interesse pretensivo all'avveramento di un fatto futuro ed incerto.

In passato la giurisprudenza ha assimilato l'atto soprassessorio agli atti endoprocedimentali, perché riteneva che lo stesso desse vita ad un arresto procedimentale ( Cass.S.U.n. 13707/2005. Nell'ambito della giurisprudenza amministrativa, cfr. Cons. St.Ad. plen., 10 luglio 1986, n. 8). In particolare, la giurisprudenza prevalente giungeva ad un'equiparazione quoad effectum dell'arresto procedimentale all'atto soprassessorio, sul presupposto che esso, rinviando il soddisfacimento dell'interesse pretensivo ad un accadimento futuro ed incerto nel quando, determinasse un arresto a tempo indeterminato del procedimento amministrativo, così generando un'immediata lesione della posizione giuridica dell'interessato. Conseguenza logica di questa impostazione era la possibilità di impugnare gli atti soprassessori.

Il Cons. St. IV n. 2511/2013 ha, invece, ricondotto l'atto soprassessorio alla sua naturale vocazione, discostandosi dalla soluzione prevalentemente accolta.

Secondo il Consiglio di Stato, l'analogia fra le due fattispecie (atti endoprocedimentali che provocano un arresto procedimentale e atti soprassessori), è il frutto di una impostazione pretoria giustificata dalla storica (ma ormai superata) concentrazione delle prospettive di tutela unicamente nell'azione di annullamento, restando quella sul silenzio, utile ad accertare, sullo sfondo di un'amministrazione totalmente inerte ed in una logica puramente attizia, l'esistenza di un obbligo di provvedere e l'attualità di tale obbligo, talché l'esistenza di un atto anche se soprassessorio conduceva ad una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell'azione.

Il varo del codice del processo amministrativo, ma, ancor prima, la configurazione di poteri speciali del giudice per l'ipotesi di azione avverso l'inerzia, estesi in via eccezionale alla cognizione dell'eventuale fondatezza dell'istanza (già previsti dall'art. 6-bisl. n. 80/2005), ha fatto venir meno la necessità di accomunare le due fattispecie, rendendo possibile anche in presenza di un atto soprassessorio l'azione sul silenzio: e ciò sul presupposto che siffatto atto non costituisca il provvedimento terminativo del procedimento, che l'amministrazione ha l'obbligo di emanare quale che sia il contenuto, ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell'obbligo di concluderlo entro il termine fissato.

L'atto è in questo caso essenzialmente conosciuto dal giudice non già in relazione ai suoi aspetti di satisfattività per l'istante, ma in relazione alla sua idoneità ad integrare adempimento della primaria obbligazione di provvedere, con il corollario che la sentenza è dichiarativa dell'obbligo generico di provvedere o, nei casi in cui l'attività è ab origine o ex post divenuta vincolata, anche dell'obbligo di adottare un provvedimento di tenore predeterminato. Secondo il Consiglio di Stato poiché, tuttavia, l'interesse a ricorrere deriva non dall'inerzia assoluta, ma dal comportamento soprassessorio, l'azione è ritualmente introdotta attraverso l'impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, ma esso è traguardato e stigmatizzato per il contenuto elusivo dell'obbligo di provvedere, ossia quale atto sussumibile nella fattispecie composita dell'inerzia.

L'impugnazione è cioè strumentale ad una pronuncia che, constatata la natura soprassessoria dell'atto e dichiarata la permanenza dell'obbligo di provvedere, condanni l'amministrazione ad emanarlo immediatamente.

Il termine di conclusione del procedimento e la certezza dell'attività amministrativa.

Il comma 2 dell' art. 2 l. 241/1990 impone di concludere il procedimento entro un termine finale, definito nel tempo.

Il termine finale è di trenta giorni ed è sussidiario, perché si applica solo se non è previsto un termine diverso stabilito da altre norme di legge o dall'amministrazione stessa.

La fissazione del termine finale è, per l'amministrazione, fatto costitutivo del dovere di provvedere e, per il cittadino, sinonimo di garanzia che fa sorgere precise situazioni giuridiche soggettive, come l'interesse al provvedimento tempestivo, l'immediata proponibilità del ricorso avverso il silenzio, la risarcibilità del danno da ritardo (Cioffi, 151).

Il termine finale per provvedere rappresenta un principio che vale per tutte le amministrazioni e per tutti i procedimenti. In maniera sintomatica l'art. 2 è, infatti, collocato proprio nel titolo dedicato ai “Principi”.

Nonostante la sua alta valenza, la violazione del termine finale per provvedere non comporta l'illegittimità del provvedimento tardivo, che, quindi, l'amministrazione è, comunque, legittimata ad emanare. L'amministrazione non perde, quindi, il potere di provvedere alla scadenza del termine finale.

Sul punto, con orientamento unanime, la giurisprudenza ha precisato che la violazione del termine di conclusione del procedimento non determina, da sola, l'illegittimità del provvedimento finale, rilevando semmai solo ai fini dell'eventuale responsabilità conseguente al ritardo dell'Amministrazione nel provvedere (T.A.R. Campania (Napoli) III, 1 dicembre 2016, n. 5553).

Il decorso del termine è, inoltre, condizione dell'azione avverso il silenzio. L'art. 31 dimostra, infatti, che l'azione sul silenzio può essere proposta solo “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo”.

La natura dell'azione sul silenzio inadempimento: azione di accertamento e di adempimento

Per lungo tempo si è discusso sulla natura del giudizio sul silenzio inadempimento. Il Cons. St.Ad. pl., n. 1/2002, aveva evidenziato che l' art. 21-bis l. 1034/1971, come modificato dall' art. 2 della l. n. 205/2000, aveva introdotto un giudizio di accertamento dell'obbligo a provvedere e non di accertamento della fondatezza della domanda proposta. Successivamente con la riforma della l. n. 241/1990 effettuata dalla l. n. 80/2005 è stato previsto che il giudice amministrativo, nei giudizi contro il silenzio rifiuto può conoscere della fondatezza dell'istanza. Il c.p.a., in linea con tale riforma, ha espressamente previsto che il giudice amministrativo può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, e non più dell'istanza, solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuino ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempienti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

La norma, quindi, prospetta un giudizio sul silenzio inadempimento a due anime: quella tradizionale, volta al mero accertamento dell'obbligo di provvedere che sfocia, ai sensi dell'art. 117, comma 2, in una condanna per la P.A. di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni. E una variante in cui il giudice del silenzio può condannare la P.A. ad adottare il provvedimento richiesto.

Per l'ammissibilità del ricorso, in ogni caso, deve essere scaduto il termine per provvedere, applicandosi altrimenti l'art. 34, comma 2, secondo cui in nessun caso il giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri non ancora esercitati. Si tratta di un'applicazione del principio di separazione dei poteri che impedisce al giudice di sostituirsi alla P.A. se la stessa non è inadempiente rispetto all'obbligo a provvedere.

Il rito sul silenzio implica, quindi, particolare cautela nel delineare i poteri del giudice amministrativo in relazione ad una vicenda in cui la P.A. non ha adottato il provvedimento amministrativo.

Per tali motivi l'accertamento della fondatezza della pretesa presuppone un'attività vincolata in relazione al quale il giudice amministrativo può sostituirsi alla P.A. perché il parametro di riferimento dell'azione amministrativa è integralmente contenuto nella legge.

In quest'ottica la giurisprudenza ha chiarito che l'istituto del silenzio inadempimento non può trovare applicazione allorquando si sia in presenza di atti a contenuto generale rimessi alla scelta discrezionale dell'Amministrazione e rispetto alla quale non sia configurabile un interesse qualificato del privato tale da poter rivendicare l'esistenza di un obbligo per l'Ente di adottare atti a contenuto pianificatorio, come ad esempio una variante al regolamento urbanistico comunale (T.A.R. Toscana I, 31 marzo 2017, n. 499).

Parimenti nel caso in cui non residuino ulteriori margini di discrezionalità e non sia necessario procedere con adempimenti istruttori, il giudice amministrativo può accertare la spettanza del bene della vita perché l'attività amministrativa è in concreto vincolata. Esempi si possono rinvenire nel provvedimento che attua un accordo procedimentale ai sensi dell' art. 11 l. n. 241/1990 o emesso in seguito ad un parere vincolante.

Il g.a. può, quindi, accertare la spettanza del bene della vita e condannare la p.a. ad adottare il relativo provvedimento, solo in presenza delle condizioni prima citate, tutte accomunate dalla comune caratteristiche di non comportare alcuna discrezionalità in capo alla P.A.. Inoltre, il penetrante potere del g.a. è precluso anche in presenza di un quadro fattuale ancora non chiaro che suggerisce alla P.A. di porre in essere adempimenti istruttori. Ne deriva che il g.a. non potrà avvalersi dei propri mezzi istruttori per accertare tali lacune, spettando all'autonomia della p.a. tale scelta.

Alcuni autori hanno evidenziato che per accertare la fondatezza della pretesa sostanziale, oltre al caso dell'attività vincolata, debbano ricorrere congiuntamente il requisito che non debbano residuare ulteriori margini di discrezionalità e quella della non necessità di adempimenti istruttori, come sarebbe reso manifesto dall'utilizzo da parte del legislatore della congiunzione «e» (Guacci, 1215). Quest'ultimo requisito non sarebbe, invece, riferibile all'attività vincolata pura.

Il giudizio sul silenzio inadempimento ha, quindi, sempre natura di giudizio di accertamento puro dell'obbligo a provvedere. A questa natura si affianca quella di giudizio di condanna a rilasciare un provvedimento di conclusione del procedimento o a rilasciare un determinato provvedimento o a tenere un determinato comportamento. Il giudizio sul silenzio inadempimento, in questa seconda versione, coincide, quindi, con un giudizio teso ad ottenere l'adempimento della P.A., come è, peraltro, reso manifesto dall'art. dall'art. 34, comma 1 lett. c), che, nel codificare l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto, precisa che la stessa è esercitata nei limiti di cui all'art. 31, comma 3.

Può, quindi, ritenersi, senza eccessivi timori, che l'azione di adempimento sia ormai entrata a pieno titolo nel giudizio amministrativo.

Coglie questa connessione il Consiglio di Stato, secondo cui l'ammissibilità, in via generale, di un'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) tesa a una pronuncia che, per le attività vincolate, costringa la p.a. ad adottare il provvedimento satisfattorio, è ricavabile dall'applicazione dei principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, dall'interpretazione della portata espansiva delle specifiche ipotesi previste dall'art. 31 comma 3 del codice, in materia di silenzio, dall'art. 124 in materia di contratti pubblici, oltre che dall' art. 4 d.lgs. 20 dicembre 2009 n. 198, in materia di azione collettiva di classe, e, soprattutto, dalla dizione ampia dell'art. 30, comma 1 del codice, che non tipizza i contenuti delle pronunce di condanna, e, quel che più conta, non limita dette statuizioni ai soli casi privatistici del risarcimento del danno e della lesione di diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cons. St. V, n. 6002/2012).

L'eventualità che l'istanza presentata dal privato sia diretta ad ottenere un provvedimento espressione di discrezionalità amministrativa, se preclude al Giudice amministrativo di pronunciarsi sulla fondatezza dell'istanza nel giudizio contro il silenzio-rifiuto, non gli impedisce, tuttavia, di dichiarare l'obbligo dell'Amministrazione rimasta inerte di provvedere sulla richiesta del privato (cfr. T.A.R. Campania, sez. VII, n. 844/2022).

Silenzio inadempimento e indennizzo

In relazione alla teoria da accogliere sul danno da ritardo, può avere una incidenza l' art. 2-bis comma 1-bis l. n. 241/1990, che ha introdotto, con sedici anni di ritardo, l'indennizzo da mero ritardo, già enunciato, ma mai attuato, dall' art. 17 comma 1 lett. f) l. n. 59/1997.

Dalla lettura della norma emerge che l'indennizzo è corrisposto per il solo fatto del mero ritardo e, ad esclusione delle ipotesi di silenzio significativo e dei concorsi pubblici, può concorrere con il risarcimento del danno, ma in tal caso va considerato assorbito in questo.

Dall'esame dell' art. 28 d.l. n. 69/2013, convertito, con modificazioni, in l. 9 agosto 2013, n. 98, emerge che l'indennizzo è corrisposto esclusivamente quando il provvedimento non venga adottato nel termine assegnato al titolare del potere sostitutivo: termine pari alla metà di quello stabilito per la conclusione del procedimento iniziale.

L'indennizzo è pari a 30,00 Euro per ogni giorno di ritardo e, comunque, l'ammontare non può superare i 2.000 Euro.

Al fine di ottenere l'indennizzo l'istante è, comunque, tenuto ad attivare il potere sostitutivo nel termine perentorio di 20 gg. dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. Il termine ha natura decadenziale e qualora sia scaduto onera il privato a riattivare il procedimento.

Nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo non provveda, l'interessato può proporre domanda ai sensi dell'art. 117. La domanda sull'indennizzo è trattata con rito in camera di consiglio e decisa con sentenza in forma semplificata. Se il ricorso è dichiarato inammissibile o è manifestamente infondata l'istanza, il giudice condanna l'istante ad una somma da due a quattro volte il contributo unificato.

La norma, di non facile interpretazione, ha fatto sorgere una serie di dubbi ermeneutici.

Il primo riguarda l'ambito applicativo dell'indennizzo, in relazione al risarcimento del danno. Va da subito chiarito che il diritto all'indennizzo non è conseguenza automatica del ritardo nella conclusione del procedimento, perché l'istante è tenuto a chiedere che sull'istanza si attivi il titolare dei poteri sostitutivi ed è tenuto a rispettare termini perentori, peraltro, molto stretti.

L'indennizzo, rispettate le regole procedimentali, certamente va riconosciuto qualora l'amministrazione abbia violato il termine a provvedere, indipendentemente dalla sussistenza dei requisiti necessari per configurare una responsabilità extracontrattuale. L'indennizzo può essere, quindi, liquidato, per il solo fatto del ritardo, indipendentemente dalla colpa della p.a. e anche in assenza di danno, come pare desumersi dalla Direttiva del Ministro della funzione pubblica e della semplificazione del 9 gennaio 2014. Secondo tale Direttiva, l'indennizzo da ritardo va corrisposto tutte le volte che l'Amministrazione non abbia rispettato un termine perentorio (che fa venir meno il potere dell'Amministrazione di provvedere) oppure ordinatorio (persistendo il relativo potere). L'indennizzo, che va tenuto nettamente distinto dal risarcimento del danno, può essere riconosciuto anche in presenza di un comportamento tenuto dall'amministrazione in base ad un errore scusabile ed astrattamente lecito. Rientreranno in queste ipotesi anche i casi riconducibili all'interno della forza maggiore o del caso fortuito.

L'indennizzo, quindi, spetta in ogni caso di violazione dei termini perché è il frutto di una valutazione di equità, volta a sanzionare comportamenti inerti dell'Amministrazione, prevedendo, comunque, una forma di ristoro per il disagio sopportato dal privato a seguito dell'avvenuta violazione dei termini.

L'istituto, quindi, assume una portata dirompente che ha consigliato di introdurlo solo in via sperimentale e solo in relazione all'avvio e all'esercizio dell'attività d'impresa.

L'indennizzo, quindi, scatta in via automatica per il solo fatto della mancata emanazione del provvedimento amministrativo; non rileva naturalmente a tal fi-ne il preavviso di rigetto, previsto dall' art. 10-bis l. n. 241/1990, che ha carattere meramente interlocutorio.

La disposizione si applica solo a partire dal 21 agosto 2013, data di conversione del citato decreto e non si applica alla Segnalazione di inizio attività anche se relativa all'esercizio dell'attività d'impresa perché la norma richiede l'obbligo di provvedere che è assente nel caso di specie

La mancata attivazione dell'esercizio del potere sostitutivo di cui all' art. 2, comma 9-bis della l. n. 241/1990 preclude la possibilità di ottenere l'indennizzo per il mero ritardo nella conclusione del procedimento ai sensi dell' art. 28 del d.l. n. 69 del 21 giugno 2013, convertito nella l. n. 98/2013 (T.A.R. Sardegna II, 20 settembre 2016, n. 724).

L'indennizzo da mero ritardo, previsto dall' art. 2-bis della l. n. 241/1990, prescinde dalla dimostrazione degli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale (prova del danno, del comportamento colposo dell'amministrazione, del nesso di causalità); tuttavia, ai fini del riconoscimento del diritto all'indennizzo, una volta scaduti i termini per la conclusione del procedimento, l'istante, entro la scadenza perentoria dei successivi 20 giorni, deve ricorrere all'autorità titolare del potere sostitutivo di cui all' art. 2, comma 9-bis, l. n. 241/1990, richiedendo l'emanazione del provvedimento non adottato (T.A.R. Sardegna I, 12 maggio 2016, n. 428, T.A.R. Genova, (Liguria) I, 05/02/2019, n.94).

Il diritto all'indennizzo per il mero ritardo presuppone, in base all' art. 2-bis, l. n. 241/1990 (introdotto dall' art. 28, comma 9, d.l. n. 69/2013), un procedimento ad istanza di parte e non un procedimento d'ufficio (T.A.R. Campania (Napoli) III, 4 marzo 2016, n. 1175).

La giurisprudenza ha poi tratto dall'introduzione dell'indennizzo da mero ritardo conclusioni anche in relazione al risarcimento del danno.

In particolare, si è evidenziato che l'entrata in vigore dell' art. 2-bis, l. 7 agosto 1990 n. 241 non ha elevato a bene della vita suscettibile di autonoma protezione, tramite risarcimento del danno, l'interesse procedimentale al rispetto dei termini dell'azione amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza del « bene della vita », al cui conseguimento il procedimento è finalizzato: ed infatti, l'art. 2-bis cit. ammette al risarcimento il solo danno espressamente qualificato come ingiusto, ossia quello che si verifica ove l'inerzia o il ritardo pregiudichino un interesse sostanziale di effettiva pertinenza del privato. E tale opzione ermeneutica, chiaramente ricavabile dal dettato normativo, è avvalorata dalla previsione del successivo comma 1-bis dello stesso art. 2-bis, con cui il legislatore ha voluto, per casi determinati, prevedere non già il risarcimento del danno, ma il riconoscimento di un indennizzo in caso di mera inosservanza del termine di conclusione del procedimento (T.A.R. Lazio (Latina) I, 26 settembre 2016, n. 579).

Risarcimento del danno da ritardo

Il tema del ritardo nel provvedere è legato all' art. 2 l. n. 241/1990, che ha individuato rigorosi termini nel provvedere.

Da qui la necessità di verificare se rilevi per l'interprete il mero ritardo, quello non seguito da un provvedimento favorevole, oppure se abbia dignità giuridica solo il ritardo con cui è stato emanato un provvedimento favorevole. In quest'ultima ipotesi pare evidente che il ritardo smarrisca la sua autonomia per essere assorbito nel provvedimento favorevole e, in particolare, nel giudizio di spettanza del bene della vita, tipico degli interessi legittimi pretensivi, secondo le coordinate ermeneutiche già tracciate dalla Cass.S.U.n. 500/1999.

L'impostazione tradizionale ritiene risarcibile solo il danno da ritardo, inteso come danno derivante dall'adozione tardiva di un provvedimento favorevole. In tale ipotesi si concretizza un'ipotesi responsabilità extracontrattuale, secondo il modello dell'art. 2043 c.c.

A questa ricostruzione si oppone quella che attribuisce rilevanza al mero ritardo, elevando il tempo, la certezza, ad autonomo bene della vita.

La prima ricostruzione ha prestato il fianco a numerose critiche, perché non attribuisce al tempo una rilevanza autonoma. Non rileva tanto l'incertezza creata da un provvedimento non rispettoso del termine a provvedere, quanto l'aver ottenuto il bene della vita con significativo ritardo. Il risarcimento del danno da ritardo, così inteso, rappresenta, quindi, una forma di risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi.

Tale ricostruzione, però, non legge la progressiva emersione del valore tempo come bene della vita, svalutandolo, nonostante emergano segnali da parte del legislatore tesi ad attribuire rilevanza al tempo come valore in sé, indipendentemente dal contenuto del provvedimento adottato in ritardo. Tali perplessità hanno consentito la diffusione di un altro orientamento, favorevole al risarcimento del ritardo in sé, indipendentemente dal tipo di provvedimento adottato. Il tempo è elevato a bene della vita autonomo da quello ottenibile tramite il provvedimento amministrativo. Il ritardo nella conclusione del procedimento crea, quindi, un'incertezza che, potendo produrre un danno, va risarcita.

Le incertezze interpretative si sono riverberate sulla giurisprudenza amministrativa.

L'orientamento prevalente, fortificato dalla sentenza del Cons. St.Ad. plen., n. 7/2005, ha sempre ritenuto risarcibile solo il risarcimento del danno da ritardo da emanazione del provvedimento favorevole.

Tale impostazione è stata progressivamente scalfita dagli interventi legislativi. Prima la l. n. 69/2009 e poi gli artt. 30 e 133, nel prevedere che le PP.AA. sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo, hanno ridestato il dibattito e dato nuovo vigore alla teoria della risarcibilità del danno da ritardo in sé, ribadendo che il tempo deve essere considerato un bene della vita autonomo da quello finale collegato con il provvedimento richiesto.

Su questa scia due sentenze del Consiglio di Stato si sono discostate dal pensiero dell'Adunanza Plenaria, abbracciando quest'ultima ricostruzione.

Prima il Cons. St. V, 1271/2011e poi il Cons. St. n. 468/2014, hanno precisato che il danno da ritardo a provvedere da parte della P.A. trova specifica disciplina nell' art. 2-bis l. n. 241/1990, a mente del quale «le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'art. 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Si tratta di disposizione che, come posto in rilievo in giurisprudenza, «tutela in sé il bene della vita inerente alla certezza, quanto al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come parte la pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento».

Il risarcimento del danno da ritardo a provvedere riceve qualificazione, sul piano oggettivo, dall'inosservanza del termine ordinamentale per la conclusione del procedimento; sul piano soggettivo, il ritardo deve essere ascrivibile ad un'inosservanza dolosa o colposa dei termini di legge o di regolamento stabiliti per l'adozione dell'atto terminale.

Il formante giurisprudenziale, però, resta frastagliato, come emerge da altra sentenza del Cons. St. n. 1406/2013, che segue l'orientamento tradizionale. In particolare, i giudici amministrativi hanno precisato che la domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043 c.c., può essere accolta dal giudice solo se l'istante dimostri che il provvedimento favorevole avrebbe potuto o dovuto essergli rilasciato già ab origine e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell'illecito aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della sussistenza della colpa in capo alla P.A.

Allo stato, quindi, nonostante le istanze tese a elevare il tempo come bene della vita, la giurisprudenza non è del tutto convinta nel superare la tradizionale ricostruzione fornita dal Cons. St.Ad. plen.n. 7/2005.

Di recente, è stato precisato che la domanda risarcitoria del danno da ritardo deve essere ricondotta nell'alveo dell' art. 2043 c.c., per cui, per l'identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità, l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). Al fine del necessario accertamento della colposità dell'inerzia la cui dimostrazione incombe sul danneggiato, non è sufficiente la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo, poiché tale violazione di per sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa. Inoltre, il comportamento dell'Amministrazione deve essere valutato unitamente alla condotta dell'istante, il quale riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giustiziali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra cui il rito del silenzio che deve essere attivato con tempestività rilevando altrimenti, ai fini dell'art. 30, comma 3, in ordine all'accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile. L'interessato si deve, quindi, attivare al fine di reagire all'inerzia all'Amministrazione, con la conseguenza che solo in caso di persistente inerzia a seguito dell'attivazione di poteri sostitutivi o del rito del silenzio, può configurarsi la lesione del bene della vita risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e di buona fede che devono caratterizzare lo svolgimento del rapporto tra soggetto pubblico e privato (T.A.R. Sicilia (Catania) I, 6 marzo 2017, n. 445).

Nell'ottica della non risarcibilità del danno da mero ritardo, la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che ogni ipotesi di danno da ritardo presuppone, secondo i canoni ordinari, la prova della sussistenza dell'elemento soggettivo della condotta (dolo o colpa), dell'elemento oggettivo (il danno ingiusto) e del nesso di causalità tra l'uno e l'altro. Il riconoscimento del danno da ritardo — relativo, come nella specie, ad un interesse legittimo di ordine pretensivo — non può restare avulso da una valutazione di merito sulla spettanza del bene sostanziale della vita e che vada, quindi, subordinato, tra l'altro, anche alla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento sia probabilmente destinata ad un esito favorevole e, dunque, alla prova della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse. L'art. 2-bis, introdotto dall' art. 7 comma 1, lett. c), l. 18 giugno 2009 n. 69, non ha infatti elevato a distinto bene della vita suscettibile di un'autonoma protezione mediante il risarcimento del danno, l'interesse procedimentale al rispetto dei termini dell'azione amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato (T.A.R. Campania (Napoli) III, 14 febbraio 2017, n. 921).

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato  in due occasione è ritornata sulla risrcibilità del danno da mero ritardo.

Secondo il Consiglio di Stato, Ad. plen. n. 5/2018, che in realtà si è pronunciato sulla sussistenza della responsabilità precontrattuale prima dell’aggiudicazione, è ormai risarcibile il danno da mero ritardo, in quanto l’art. 30, comma 3, c.p.a. ha avuto l’effetto di superare «per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15 settembre 2005, n. 7». Tale norma, quindi, «ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di auto- rizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento)».

Il danno, precisa l’Adunanza plenaria, «deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione».

Anche in questo caso, conferma l’Adunanza plenaria, viene, quindi, in rilievo un danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappre- senta un comportamento scorretto dell’amministrazione, che genera incertezza e, dun- que, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali.

 

L’Adunanza plenaria n. 7/2021, ribadendo l’orientamento tradizionale ha evidenziato che “Nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell’ingiustizia esige dunque la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza” (punto 12 della motivazione).

L’Adunanza plenaria ha poi cercato di precisare le conclusioni raggiunte sul punto dal Cons. St. Ad. plen., n. 5/2018: “Deve al riguardo precisarsi che l’apparentemente contraria affermazione di questa Adunanza plenaria al § 42 della sentenza 4 maggio 2018, n. 5, consiste in realtà in un riferimento a tesi interpretative dell’art. 2-bis l. n. 241/1990 volte a riconoscere «la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo», come fattispecie di danno da comportamento e non da provvedimento; al successivo § 45 la stessa Adunanza plenaria ha comunque precisato che anche in questo caso è necessario che sia provato «sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione»”.

L’Adunanza plenaria ha poi precisato che “sul piano generale va in ogni caso precisato, in chiave nomofilattica, che la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall’art. 2, commi 9-bis e seguenti, l. n. 241/1990 – così come la mancata proposizione di ricorsi giurisdizionali- non ha rilievo come presupposto processuale dell’azione risarcitoria ex art. 2-bis della medesima legge, la quale, al pari dell’azione risarcitoria per illegittimità provvedimentale, è ormai svincolata da ogni forma di pregiudiziale amministrativa. La condotta attiva del privato può invece assumere rilievo come fattore di mitigazione o anche di esclusione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p. a., laddove si accerti «che le condotte attive trascurate (…) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno» (così la sentenza dell’Adunanza plenaria 23 marzo 2011, n. 3). In altri termini, la mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali, al pari delle ragioni che sorreggano il mancato esperimento degli stessi, non è idonea in sé a precludere la pretesa risarcitoria, ma costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità”.

Sotto questo profilo, va segnalata la modifica del comma 9-ter ad opera dell'articolo 61, comma 1, lettera b), del d.l. n. 77/2021, conv., con modif., dalla l. n. 108/2021, che ha introdotto la possibilità per il responsabile o l'unità organizzativa di cui al comma 9-bis, di esercitare d'ufficio, e non più solo su richiesta dell'interessato, il potere sostitutivo”.

Tale modifica normativa potrebbe, dunque, incidere sull’applicazione dell’art. 1227 c.c. alla responsabilità della p.a., per come delineata da Cons. St. Ad. plen., n. 7/2021, perché, anche in caso di inerzia del privato, il responsabile del procedimento dovrebbe, comunuque, attivare d’ufficio il potere sostitutivo.

Si è poi rilevato che, indipendentemente dalla spettanza del bene della vita, deve essere ritenuto risarcibile il “danno da vero ritardo”: la domanda deve riguardare il costo del ritardo non l'utilità che ci si riprometteva dal provvedimento richiesto (Patroni Griffi).

In questa prospettiva la responsabilità della p.a. per il danno da ritardo si avvicina a quella precontrattuale in cui si risarcisce l'interesse negativo.

Per quanto rileva in questa sede, l'art. 117, comma 6, prevede che l'azione di risarcimento del danno possa essere proposta congiuntamente a quella avverso il silenzio. Si tratta di un tipico caso di culmo di azioni: il giudice può definire il rito camerale la domanda sul silenzio e disporre la conversione del rito. Si rinvia sul punto all'art. 117.

Silenzio inadempimento e Scia: art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990

Il d.l. n. 138/2011 ha introdotto, all'interno dell'art. 19, il comma 6-ter, secondo cui «la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all' art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». Tale intervento normativo non è stato intaccato dalla l. n. 124/2015.

L'intervento legislativo ha fatto, quindi, sorgere un nuovo dibattito giurisprudenziale, teso a comprendere la reale portata dell'innovazione legislativa.

Secondo alcuni la tutela proposta dal legislatore, del tutto incentrata sul silenzio inadempimento, sarebbe del tutto inutile come, peraltro, aveva già precisato l'adunanza plenaria (15/2011) che il legislatore sembra voler sconfessare.

Il terzo controinteressato può sollecitare esclusivamente i contropoteri della p.a. (a carattere inibitorio), ma se questa non interviene e spira il termine per provvedere previsto a pena di decadenza, il ricorso avverso il silenzio inadempimento non può essere proposto, perché in questo caso, decorsi i 60 giorni, il potere della p.a. si è consumato ( Cons. St. Ad. plen. , 15/2011).

Il giudizio sul silenzio inadempimento, come già visto sopra, può essere esperito con riguardo al potere inibitorio.

È preclusa, invece, la tutela ex art. 31 in relazione al potere di autotutela che ha carattere ampiamente discrezionale.

Si ripropone così il consueto problema: il controinteressato può esperire la domanda avverso il silenzio (nel rispetto dei limiti previsti) solo con riguardo al potere inibitorio, ma non anche con riguardo al potere di autotutela ex art. 21-nonies, richiamato dall' art. 19, comma 4, l. n. 241/1990.

Per cercare di fornire una lettura compatibile con i principi costituzionali, è intervenuto, nel 2012 (sent. n. 298), il T.A.R. Veneto, il quale ha offerto una spiegazione interessante, sulla spinta della novella del novembre 2011 che integra il comma 1 dell'art. 31. Tale norma prevede la possibilità di esperire l'azione sul silenzio nei casi in cui la p.a. abbia l'obbligo di provvedere e negli altri casi previsti dalla legge.

Secondo il T.A.R. Veneto, il legislatore consente al privato di proporre l'azione avverso il silenzio inadempimento nei casi in cui sussiste l'obbligo di provvedere in seguito ad un inadempimento o negli altri casi previsti dalla legge; in queste ultime ipotesi non sarebbe necessario attendere l'inadempimento della P.A., potendo la tutela essere esperita anche in via anticipata, prima della scadenza del termine a provvedere.

La S.c.i.a. rappresenta, secondo il T.A.R., uno dei casi previsti dalla legge che consente la tutela anticipata.

Ne deriva, quindi, che il terzo controinteressato può proporre l'azione prevista dall'art. 31 prima della scadenza del termine a provvedere.

Il risultato è che il g.a. dovrà accertare l'insussistenza delle condizioni per presentare la S.c.i.a. e condannare la P.A. ad emettere il provvedimento inibitorio che, avendo carattere vincolato, può ben essere imposto alla P.A. dal giudice amministrativo.

Di recente, peraltro, il T.A.R. Toscana III, ord., 11 maggio 2017, n. 667 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell' art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla Scia, per contrasto con gli artt. 3,11,97,117, comma 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Cedu ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE, e 117 comma 2 lett. m) Cost.

L'ordinanza denuncia, in primo luogo, che la mancata fissazione di un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche amministrative, viola la necessaria tutela dell'affidamento del segnalato, tutela che viene inquadrata quale principio cardine dell'attività amministrativa in tutti i settori dell'intervento pubblico. Viene, inoltre, denunciato il contrasto della norma in questione con i principi di ragionevolezza e buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., in quanto il disegnato modello procedimentale impone all'amministrazione, quale che sia il momento in cui sopravviene l'istanza del controinteressato, di rivedere la posizione assunta in precedenza (in sede di verifica ufficiosa) circa la legittimità dell'iniziativa segnalata. Infine, viene rilevata la violazione del principio di ragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere alcun limite temporale alla possibilità che il terzo solleciti il potere inibitorio dell'amministrazione, in quanto si omette di disciplinare un elemento indispensabile alla tenuta complessiva del meccanismo semplificatorio introdotto dal legislatore e da quest'ultimo ascritto ai livelli essenziali delle prestazioni garantite su scala nazionale.

Sul punto va, però, segnalato Cons. St. VI, n. 4610/2016, secondo cui «In relazione al tempo, non è perfettamente adattabile lo schema dell'azione avverso il silenzio-inadempimento a quella proposta dal terzo nell'ambito della s.c.i.a. L'art. 31 prevede, infatti, che l'azione si propone entro il termine di un anno dalla conclusione del procedimento. Ma in questo caso il ricorrente, essendo titolare dell'interesse legittimo pretensivo all'adozione di un provvedimento favorevole che ha attivato con la sua istanza, è a conoscenza del momento in cui il procedimento si deve concludere e, conseguentemente, di quando inizia a decorrere il termine di un anno. Nel caso della s.c.i.a., invece, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all'adozione di atti sfavorevoli per il destinatario dell'azione amministrativa. Non è, pertanto, a conoscenza « diretta » dell'andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica».

L'assenza del termine per sollecitare le verifiche da parte del controinteressato potrebbe, comunque, essere risolto nel senso di imporre al terzo controinteressato di avanzare l'istanza non oltre il termine di 18 mesi spettanti all'amministrazione per procedere con i poteri di cui all'art. 21-nonies. L'art. 19, comma 6-ter, nella parte in cui consente al terzo controinteressato di sollecitare le verifiche, individua queste con le verifiche «spettanti» alla p.a. competente. Ne deriva che il potere del terzo controinteressato deve essere individuato in relazione a tali poteri della p.a. che non possono essere, comunque, esperiti oltre il termine di 18 mesi dalla scadenza del termine per provvedere in via inibitoria, come ormai espressamente previsto dall' art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 222/2016.

La p.a., compulsata dal controinteressato, sarà tenuta ad attivare un procedimento di verifica, ai dell' art. 21-nonies l. n. 241/1990, sulla SCIA, ma non sarà tenuta necessariamente ad intervenire, trattandosi, comunque, di un'attività discrezionale.

La Corte cost. n. 45/2019 , ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal T.A.R. Toscana, in quanto le verifiche cui è chiamata l'amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono quelle già puntualmente disciplinate dall'art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all'art. 21-novies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell'amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all'esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l'interesse si estingue.

La Corte, però, ritiene che il problema della tutela del terzo indubbiamente esiste e vada risolto in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell'insieme degli strumenti apprestati a tutela della situazione giuridica del terzo.

In particolare, nella prospettiva dell'interesse legittimo, il terzo potrà attivare:

1) gli strumenti di tutela già sopra richiamati;

2) i poteri di verifica dell'amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell'art. 21, comma 1, della legge n. 241/1990 (in questo caso «non è ammessa la conformazione dell'attività e dei suoi effetti a legge»);

3) potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all'amministrazione, ai sensi dell'art. 21, comma 2-bis, della l.n. 241/1990, come, ad esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia ed espressamente richiamati anche dall'art. 19, comma 6-bis.

4) potrà, inoltre, agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l'art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241/1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti).

Al di là delle modalità di tutela dell'interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un'attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica.

La Corte, peraltro, ha evidenziato che tutto ciò non esclude l'opportunità di un intervento normativo sull'art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell'attività segnalata e, dall'altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell'esercizio del potere da parte dell'amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere.

La giurisprudenza amministrativsa successiva alla citata pronuncia della Corte costituzionale ha precisato che i poteri di controllo sulla SCIA, se attivati tempestivamente (entro i sessanta o trenta giorni dalla segnalazione), sono vincolati, con la conseguenza che l'interessato potrebbe chiedere anche l'accertamento della fondatezza nel merito della pretesa; se attivati invece dopo il decorso del termine ordinario (ed entro i successivi diciotto mesi), sono invece subordinati alla sussistenza delle 'condizioni' di cui all'art. 21-nonies, della l. n. 241/1990. Anche se la Corte costituzionale non ha precisato se sussista, in capo all'Amministrazione, l'obbligo di avvio e conclusione del procedimento di controllo tardivo sollecitato dal terzo, ferma restando la piena discrezionalità nel quomodo, secondo il Consiglio di Stato deve propendersi per la obbligatorietà della risposta da parte della p.a. alla luce di un argomento letterale: in particolare la differente formulazione dell'art. 21-nonies rispetto all'art. 19, comma 4, della l. n. 241/1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l'amministrazione "adotta comunque" (e non già semplicemente "può adottare") i provvedimenti repressivi e conformativi (sempre che ricorrano le 'condizioni' per l'autotutela). Depone, inoltre, nel senso della doverosità della risposta una lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo: avendo il legislatore optato per silenzio-inadempimento quale unico mezzo di tutela (“amministrativo”) messo a disposizione del “terzo”, ove non sussistesse neppure l'obbligo di iniziare e concludere il procedimento di controllo tardivo con un provvedimento espresso, si finirebbe per privare l'istante di ogni tutela effettiva davanti al giudice amministrativo, in contrasto con gli articoli 24 e 113 della Costituzione.

E’ necessario quindi riconoscere, rispetto alla sollecitazione dei poteri di controllo tardivo, quanto meno l'obbligo dell'amministrazione di fornire una risposta (Cons. St. VI, 5208/2021).

L'azione di accertamento prima dell'entrata in vigore del Codice

In sede di commento all'art. 29 è già stato evidenziato come il processo amministrativo sia stato incentrato sulla tradizionale azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, che costituisce un'azione di carattere costitutivo e come, tuttavia, da tempo, il legislatore abbia arricchito la tutela nei confronti dell'amministrazione con nuovi strumenti e nuove azioni.

Tra queste, l'azione di accertamento è stata per lungo tempo ritenuta esperibile solo in presenza di posizioni di diritto soggettivo ed è stata di recente estesa anche agli interessi legittimi da alcune aperture della giurisprudenza, non ancora del tutto consolidate.

Una ipotesi di azione di accertamento è costituita dall'accertamento dell'obbligo di provvedere nel giudizio avverso il silenzio.

Il Consiglio di Stato ha ammesso l'azione di accertamento anche per gli interessi legittimi, in quanto il principio di effettività della tutela giurisdizionale impone di riconoscere l'esperibilità di tale azione, almeno in tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente (Cons. St. VI, n. 717/2009, con riferimento all'ammissibilità dell'azione di accertamento, da proporre nel termine di decadenza, per contestare una d.i.a. edilizia e per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l'attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di attività).

In tale precedente il Consiglio di Stato, al fine di individuare lo strumento di tutela per la contestazione da parte del terzo della d.i.a., ha affermato importanti principi, che trascendono la questione specifica della tutela del terzo avverso la denuncia di inizio attività e che appare opportuno di seguito richiamare.

In particolare, è stato sottolineato che l'effettività della tutela deve essere assicurata al terzo mediante strumenti diversi dall'azione di annullamento, che siano perfettamente compatibili con la natura privatistica della d.i.a. e che tale strumento di tutela non può, allora, che essere identificato nell'azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l'attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà sull'Amministrazione l'obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti.

In tale occasione il Consiglio di Stato ha affrontato in modo aperto i dubbi prospettati in ordine alla questione dell'ammissibilità innanzi al Giudice amministrativo di un'azione di accertamento autonomo.

Sono dubbi che nascevano, innanzi tutto, dalla considerazione secondo cui un giudizio di accertamento sarebbe ammissibile solo in una controversia tra soggetti in posizione di parità e rispetto ai quali il giudice detiene il potere di fissare la disciplina puntuale del rapporto concreto. Quando, viceversa, sussiste un soggetto in posizione di supremazia (la Pubblica Amministrazione), la soluzione del conflitto di interessi sarebbe demandata a tale soggetto, che detiene e gestisce il potere, ed il sindacato del giudice, in tali casi, non può che assumere la struttura del controllo successivo dei modi di esercizio del potere, laddove, viceversa, un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all'Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere.

Ancora, ulteriori ostacoli all'ammissione dell'azione di accertamento autonomo nel processo amministrativo derivavano, secondo l'insegnamento tradizionale: a) dalla negazione, invalsa soprattutto in passato, che l'interesse legittimo sia una posizione giuridica sostanziale avente la stessa dignità del diritto soggettivo; b) dalla mancanza di un riconoscimento espresso dell'azione di accertamento da parte del legislatore, a differenza di quanto accade negli ordinamenti di altri Paesi che tale azione conoscono (par. 43 della VGeO tedesca); c) dalla tradizionale configurazione del giudizio amministrativo come giudizio sull'atto, e non sul rapporto, nell'ambito del quale, pertanto, al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, l'unica azione proponibile sarebbe quella volta ad ottenere l'annullamento del provvedimento illegittimo; d) dalla limitazione dei mezzi di prova utilizzabili dal giudice amministrativo, il quale, pertanto, non sarebbe in grado, per la povertà dei suoi poteri istruttori, di compiere un accertamento pieno del rapporto controverso.

Il Consiglio di Stato ricorda che l'evoluzione normativa e giurisprudenziale dell'ultimo decennio ha determinato il superamento di una così rigida chiusura all'azione di accertamento del processo amministrativo, offendo, al contempo, numerosi argomenti che depongono a favore di una diversa soluzione.

In primo luogo, come hanno anche recentemente evidenziato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza Cass.S.U., n. 30254/2008, «sono ormai definitivamente tramontate precedenti ricostruzioni della figura dell'interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, che il primo configuravano come situazione funzionale a rendere possibile l'intervento degli organi della giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la natura di giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque di mezzo direttamente volto a rendere possibile, attraverso una nuova determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata e solo indirettamente a realizzare l'interesse del privato».

Rientra nel potere della P.A. accertare la corretta utilizzazione della misura liberalizzatrice (d.i.a.) da parte del privato e di intervenire tempestivamente nei casi di suo uso distorto.

Ciò significa che la nozione di interesse legittimo, utilizzata originariamente per contrassegnare situazioni sostanziali che non raggiungevano la soglia di tutela propria del diritto soggettivo, serve oggi anche a contrassegnare il nucleo di facoltà che, all'interno del diritto soggettivo, possono essere esercitate solo a seguito del positivo esercizio da parte della p.a. dal suo potere conformativo.

In questi casi, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla titolarità del diritto, quello amministrativo giudica dal suo contenuto, del suo grado di tutela, a seconda che venga o meno in conflitto con interessi di rilevanza pubblicistica (urbanistica, ambiente, paesaggio ecc.).

In tal senso si è chiaramente espressa la Corte cost. n. 204/2004. La Corte ha sottolineato che l' art. 24 della Costituzione assicura agli interessi legittimi «le medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla effettività della tutela che questi deve loro accordare».

La stessa attribuzione al Giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto anche nell'ambito della competenza generale di legittimità ( ex art. 7 l. n. 205/2000) affonda le sue radici, secondo la Corte, nell' art. 24 della Costituzione «il quale garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri».

Anche la Corte Costituzionale ha dato, dunque, il proprio avallo alla piena parificazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi quanto a possibilità di farli valere in giudizio, all'effettività della tutela e all'adeguatezza dei poteri del giudice.

Questo criterio interpretativo generale deve presiedere alla ricostruzione delle disposizioni legislative oggi vigenti in materia di processo amministrativo.

In senso contrario all'azione atipica di accertamento, non pare risolutiva nemmeno la tradizionale considerazione secondo cui il giudizio amministrativo è un giudizio sull'atto e non sul rapporto.

In primo luogo, tale affermazione riguarda il giudizio di annullamento (che presuppone che sia stato emanato un provvedimento di cui si contesta l'illegittimità); non può invece assumere rilevanza nell'ambito di un giudizio che non mira alla eliminazione del provvedimento, ma vuole ottenere un accertamento giurisdizionale (di inesistenza dei presupposti della d.i.a.) al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo. In questo caso, mancando il provvedimento da scrutinare, l'oggetto del giudizio non può che essere il rapporto che, secondo il ricorrente dovrebbe essere poi recepito nel successivo provvedimento repressivo.

In secondo luogo, secondo il Consiglio di Stato, anche la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull'atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato.

Citando ancora la recente sentenza delle Sezioni Unite Cass.S.U.n. 30254/2008, più indici normativi testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto. Basti pensare: all'impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso ( art. 21, primo comma, l. n. 1034/1971 —l. T.A.R., modificato dall' art. 1 l. n. 205/2000); al potere del giudice di negare l'annullamento dell'atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ( art. 21-octies l. n. 241/1990, introdotto dall' art. 21-bis l. n. 15/2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza dell'istanza nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto ( art. 2, comma 5, l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 80/2005 in sede di conversione del d.l. n. 35/2005).

Il giudizio amministrativo, rimane perciò, un giudizio sull'atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va inclusa quella in esame, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell'atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della P.A., mediante l'esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della P.A.

È importante in questa sede sottolineare che il Consiglio di Stato ha ritenuto che non decisivo nemmeno l'ostacolo derivante dalla mancanza di una norma espressa che preveda l'azione di accertamento nel processo amministrativo.

Come è stato efficacemente rilevato dalla dottrina che si è occupata del tema, sotto questo profilo ricorre nel processo amministrativo una situazione del tutto analoga a quella del processo civile, nel quale pure manca un esplicito riconoscimento normativo generale dell'azione di accertamento (specifiche azioni di accertamento sono previste nel codice civile solo per i diritti reali).

Ciò nonostante, nel processo civile l'azione di accertamento è pacificamente ammessa. A tale pacifico riconoscimento dell'azione di accertamento nel giudizio civile si giunge partendo dalla premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l'organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto.

L'azione di accertamento nel nostro ordinamento non è quindi un'azione «tipica» (come lo è, ad esempio, nel diritto processuale civile l'azione costitutiva ex art. 2908 c.c.), in quanto non è necessario un espresso riconoscimento normativo per ammetterne la vigenza. L'ammissibilità di tale azione discende di per sé dall'esistenza della giurisdizione che implica appunto lo «ius dicere».

Ad analoghe conclusioni può giungersi per il processo amministrativo: si può ritenere che anche nel processo amministrativo il potere di accertamento del giudice non possa essere limitato alle sole ipotesi tipiche specificamente previste.

La tipicità dell'azione di annullamento era coerente con la visione originaria del processo amministrativo come un processo impostato sulla tutela degli interessi legittimi oppositivi ai quali corrispondeva una pretesa a un «non facere» in capo all'amministrazione, cioè un dovere di astensione dall'emanare il provvedimento restrittivo della sfera giuridica dell'interessato. L'art. 45 del T.U. e l'art. 26, comma 2, della legge istitutiva dei T.A.R. ( l. n. 1034/1971) che individuano come unico dispositivo di accoglimento la sentenza di annullamento rispecchiavano perfettamente tale visione.

Una siffatta visione non corrisponde più all'evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha attribuito rilevanza e pari dignità agli interessi legittimi pretensivi.

Infine, il Consiglio di Stato rileva che a favore dell'ammissibilità di una azione atipica di accertamento gioca un ruolo decisivo anche l' art. art. 24 Cost. Tale norma sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi in sé considerati, e dunque, indipendentemente dal problema dell'annullamento dell'atto amministrativo. Viene così costituzionalizzato il carattere strumentale del processo rispetto al diritto sostanziale, in linea con la nota formula dottrinale secondo cui il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quelle e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire.

Ne deriva che anche per gli interessi legittimi la garanzia costituzionale impone di riconoscere l'esperibilità dell'azione di accertamento autonomo di questa posizione sostanziale, almeno in tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.

A tale risultato non può opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto, come è stato di recente rilevato, uno dei corollari dell'effettività della tutela è anche il principio della atipicità delle forme di tutela, non diversamente da quello che accade nel processo civile.

E non vi è ragione di differenziare, in linea di principio, sotto il profilo delle implicazioni che possono trarsi dall' art. 24 Cost., il processo amministrativo dal processo civile, soprattutto se si riconosce all'interesse legittimo, com'è ormai pacifico, una rilevanza sostanziale analoga a quella del diritto soggettivo.

Deve, allora, condividersi l'opinione di quanti sostengono che l'esigenza dell'effettività della tutela non può dirsi soddisfatta solo perché l'ordinamento consenta un rimedio giurisdizionale qualsiasi al diritto (o all'interesse) che si assume violato o insoddisfatto: occorre invece che la tutela assicuri in modo specifico l'attuazione della pretesa sostanziale. E sarebbe una tutela non effettiva quella che, sulla base di una aprioristica e indimostrata negazione dell'azione di accertamento, costringesse il terzo controinteressato rispetto all'attività edilizia iniziata sulla base della d.i.a. a presentare una istanza all'Amministrazione volta all'esercizio del c.d. potere di autotutela per poi ricorrere, in caso di mancata risposta, al giudizio contro il silenzio-rifiuto.

Né, secondo il Consiglio di Stato, in senso contrario, può assumere rilievo la considerazione, prima ricordata, secondo cui un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all'Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere.

L'azione di accertamento relativa alla d.i.a. non scaturisce, infatti, dalla mera esigenza di eliminare una incertezza sulla posizione giuridica sostanziale, ma dalla più pregnante esigenza di eliminare una lesione già in atto, determinata dalla difformità tra lo stato di fatto e lo situazione di diritto, a causa della già intrapresa realizzazione di un intervento edilizio non consentito in base alle semplice d.i.a.

Non si tratta, dunque, di una tutela preventiva dell'interesse legittimo del terzo che sarebbe in contrasto con il fatto che l'ordinamento ha attribuito all'Amministrazione la gestione di determinati rapporti. Si tratta, viceversa, di una tutela a posteriori, richiesta a seguito della asserita lesione dell'interesse legittimo del terzo contro interessato rispetto alla d.i.a.

L'ammissibilità dell'azione di accertamento dopo l'entrata in vigore del Codice

Il mancato inserimento del Codice di una disciplina dell'azione di accertamento nel processo amministrativo.

La ritenuta ammissibilità da parte del Consiglio di Stato dell'azione di accertamento avrebbe dovuto costituire un importante elemento per il suo inserimento nel Codice, nel momento in cui in tale sede veniva scelta la strada dell'inserimento della disciplina delle azioni in conformità con un preciso criterio di delega.

L' art. 44 della l. n. 69/2009 fa riferimento, infatti, all'esigenza di disciplinare le azioni e di prevedere le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Le pronunce dichiarative sono appunto quelle con cui viene decisa una domanda di accertamento e la Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato aveva inserito una disposizione avente ad oggetto l'azione di accertamento.

Era stato previsto in termini generali che chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l'adozione delle consequenziali pronunce dichiarative e si richiamava anche la possibilità di chiedere l'accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo.

Veniva in tal modo generalizzata l'azione di accertamento, che mira a risolvere situazioni di incertezza relative all'esercizio di poteri pubblici, ad accertare l'esistenza o l'inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l'adozione delle consequenziali pronunce dichiarative.

L'azione non era limitata alla sola tutela delle posizioni di diritto soggettivo e la sua estensione alle posizioni di interesse legittimo, finalizzata anche a chiarire la portata della regola concretamente posta dal provvedimento amministrativo dopo l'esercizio del potere pubblico, aveva richiesto alcuni accorgimenti, già sperimentati e codificati da altri ordinamenti.

In particolare, era stato escluso che per le posizione di interesse legittimo l'azione di accertamento potesse essere esercitata in modo da eludere il termine di decadenza previsto per l'azione di annullamento (norma simile all'art. 43, comma 2, del Verwaltungsgerichtsordnung nel sistema tedesco).

Era stato poi escluso che la nuova azione potesse riguardare poteri amministrativi ancora non esercitati (v. art. 30) e ciò al fine di evitare domande dirette ad orientare l'azione amministrativa pro futuro, con palese violazione del principio della divisione dei poteri (esigenza tenuta presente nel citato precedente del Consiglio di Stato).

Con riferimento sia alla generale azione di accertamento che a quella di nullità non venivano indicati i termini per il relativo esercizio, considerata la diversità delle fattispecie riferibili alla tipologia di azioni in esame.

Tale disposizione è stata eliminata dal Codice dal Governo fin dalla approvazione preliminare del testo e non è stata reinserita, nonostante una espressa richiesta in tal senso delle Commissioni parlamentari.

Le modifiche apportate dal Governo in sede di approvazione preliminare del testo sono state giustificate al dichiarato fine di non introdurre istituti che, anche indirettamente o mediatamente ed in prospettiva temporale di medio periodo, potessero essere suscettibili di determinare incremento di oneri per la finanza pubblica, evidentemente insostenibili nell'attuale fase congiunturale» (v. il comunicato del Governo, allegato al capitolo II della I parte).

Appare difficile comprendere come la codificazione dell'azione di accertamento possa, anche solo indirettamente, comportare nuove spese.

In primo luogo, tale azione già può essere esercitata sulla base della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato e la sua codificazione avrebbe evitato il rischio di interpretazioni giurisprudenziali dirette ad ampliare eccessivamente il suo ambito di applicazione.

A tal fine operavano i limiti dell'inammissibilità dell'azione in relazione a poteri non esercitati o al fine di aggirare il mancato esercizio dell'azione di annullamento nei termini di decadenza.

In secondo luogo, l'azione di accertamento consente a volte di chiarire situazioni controverse (ad esempio, l'essersi formato o meno il silenzio assenso), evitando che l'incertezza possa poi ricadere sulla stessa p.a. ed esporla a pretese risarcitorie maggiori.

Da ultimo, va rilevato che l'azione di accertamento compare nello stesso Codice, pur essendo restata priva della norma generale.

È presente nel comma 4 dell'art. 31 con riguardo alla nullità (di seguito, commentato); è presente nell'art. 34, comma 5 (pronuncia di merito dichiarativa della cessazione della materia del contendere); è presente nell'art. 114, comma 4 (il giudice dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato); è presente negli artt. 121 e 122 (il giudice dichiara l'inefficacia del contratto); è presente soprattutto nell'art. 34, relativo alle pronunce del giudice.

In tale articolo, viene reintrodotto il limite alla pronuncia del giudice per i poteri amministrativi non ancora esercitati e tale limite ha un senso solo con riguardo all'azione di accertamento.

Si fa inoltre riferimento alla possibilità che nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulti più utile per il ricorrente e, in questo caso, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.

È, quindi, previsto che l'azione di annullamento, non più utile per il ricorrente, possa essere convertita in azione di accertamento dell'illegittimità di un atto (pertanto, anche con riferimento a diritti soggettivi), da far valere a fini risarcitori.

L'art. 34, nel prevedere le eccezioni all'impossibilità per il giudice di conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento, richiama anche il comma 3 dell'art. 30, che disciplina l'azione di risarcimento autonoma, che presuppone quindi la ammissibilità dell'accertamento dell'illegittimità dell'atto.

La realtà è che l'azione di accertamento, benché di applicazione limitata nel processo amministrativo, costituisce uno degli strumenti di tutela anche degli interessi legittimi e, come affermato dal Consiglio di Stato sarebbe una tutela non effettiva quella che, sulla base di una aprioristica e indimostrata negazione dell'azione di accertamento, costringesse il cittadino a utilizzare strumenti di tutela più complessi e lunghi rispetto all'esercizio dell'azione di accertamento.

Ciò significa che l'azione di accertamento resta ammissibile a tutela di ogni situazione giuridica anche nel processo amministrativo e che la sua mancata codificazione costituisce solo una occasione persa per una compiuta e coerente disciplina delle azioni, ma non priva il cittadino di uno strumento che la giurisprudenza gli aveva già messo a disposizione.

L'Adunanza Plenaria ammette l'azione di accertamento in materia di d.i.a. e s.c.i.a.

Come già evidenziato, prima dell'entrata in vigore del c.p.a., il Consiglio di Stato aveva già riconosciuto l'ammissibilità nel processo amministrativo dell'azione di accertamento, anche con riferimento a posizioni di interesse legittimo, pronunciando in una fattispecie inerente la tutela del terzo avverso la d.i.a. (Cons. St. VI, n. 717/2009).

La questione della tutela del terzo avverso la d.i.a. è stata, dopo l'entrata in vigore del Codice, rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St. IV, ord. n. 14/2011).

In primo luogo la Plenaria ha affermato che, in materia di dichiarazione di inizio attività sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto il ricorso del terzo mira a far valere l'interesse legittimo leso dal non corretto esercizio del potere amministrativo di verifica della conformità dell'attività dichiarata rispetto al paradigma normativo; in questi casi la controversia non riguarda un rapporto meramente interdittivi, ossia il conflitto tra il denunciante che intenda svolgere l'attività oggetto della dichiarazione ed il terzo che lamenti l'indebita ingerenza nella sua sfera giuridica, ma si appunta su un rapporto amministrativo che ha come fulcro il corretto e tempestivo esercizio del potere amministrativo di controllo circa la conformità dell'attività dichiarata al paradigma normativo, con conseguente adozione delle misura inibitoria in caso di esito negativo del riscontro. Il contenzioso ha quindi come oggetto l'esercizio di un potere pubblicistico finalizzato alla tutela di interessi pubblici, in coerenza con il disposto dell' art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo, che assegna alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione delle controversie concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo ( Cons. St.Ad. plen.n. 15/2011).

Secondo la Plenaria, la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.

Il silenzio osservato dall'amministrazione nel termine perentorio previsto dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio pone fine al procedimento amministrativo diretto all'eventuale adozione dell'atto di divieto, produce l'effetto giuridico di precludere all'amministrazione l'esercizio del potere inibitorio a seguito dell'infruttuoso decorso del termine perentorio all'uopo sancito dalla legge e integra così l'esercizio del potere amministrativo attraverso l'adozione di un provvedimento tacito negativo equiparato dalla legge ad un, sia pure non necessario, atto espresso di diniego dell'adozione del provvedimento inibitorio; trattasi, quindi, di un provvedimento per silentium con cui la p.a., esercitando in senso negativo il potere inibitorio, riscontra che l'attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, quindi, decide di non impedire l'inizio o la protrazione dell'attività dichiarata. Detto atto tacito consolida l'affidamento del denunciante circa la legittimazione allo svolgimento dell'attività, lasciando detto soggetto esposto al rischio del più limitato potere di autotutela.

Venendo in rilievo un provvedimento per silentium, la tutela del terzo sarà affidata primariamente all'esperimento di un'azione impugnatoria, ex art. 29 del codice del processo amministrativo, da proporre nell'ordinario termine decadenziale di sessanta giorni, decorrenti dal momento della piena conoscenza dell'adozione dell'atto lesivo secondo i principi interpretativi consolidati, elaborati in materia di impugnazione di provvedimenti in materia edilizia e urbanistica.

In materia di d.i.a. (o anche di s.c.i.a.) l'azione di annullamento proposta dal terzo può essere ritualmente accompagnata, ai fini del completamento della tutela, dall'esercizio di un'azione di condanna dell'amministrazione all'esercizio del potere inibitorio, alla stregua del combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza la tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio.

In sostanza, in materia di d.i.a. (o anche di s.c.i.a.), il terzo è legittimato all'esercizio, a completamento ed integrazione dell'azione di annullamento del silenzio significativo negativo, dell'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di adempimento) tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all'amministrazione l'adozione del negato provvedimento inibitorio ove non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia ai sensi del comma 3 dell' art. 19 della l. n. 241/1990.

Ma la decisione della Plenaria assume importanza non solo tale riferimento all'ammissibilità di una sorta di azione di adempimento, ma anche per le considerazioni svolte sull'azione di accertamento.

Viene, infatti, affermato che, con riferimento all'arco di tempo anteriore al decorso del termine perentorio fissato dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio relativo alla d.i.a. (o alla s.c.i.a.), non essendosi ancora perfezionato il provvedimento amministrativo tacito e non venendo in rilievo un silenzio-rifiuto, è esperibile l'azione di accertamento atipica (ammissibile nel processo amministrativo) tesa ad ottenere una pronuncia che verifichi l'insussistenza dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto della denuncia, con i conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all'autorità amministrativa.

In questo caso, l'assenza del definitivo esercizio di un potere ancora in fieri, non preclude l'esperimento dell'azione giudiziaria anche se impedisce l'adozione di una sentenza di merito ai sensi dell'art. 34, comma 2, che impedisce al giudice di pronunciarsi su poteri amministrativi non ancora esercitati. Il giudice amministrativo può adottare, nella pendenza del giudizio di merito, le misure cautelari necessarie al fine di impedire che, nelle more della definizione del procedimento amministrativo di controllo e della conseguente maturazione della condizione dell'azione, l'esercizio dell'attività denunciata possa infliggere al terzo un pregiudizio grave ed irreparabile.

Una volta spirati i termini di legge per la definizione del procedimento con il conseguente pieno esercizio del potere amministrativo, verrà a configurarsi la condizione dell'azione mancante, con conseguente rimozione dell'ostacolo frapposto dall'articolo 34, comma 2, alla definizione del giudizio e l'azione di accertamento si converte automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento sopravvenuto in quanto la portata sostanziale del ricorso iniziale finisce per investire in pieno, sul piano del petitum sostanziale e della causa petendi, la decisione della pubblica amministrazione di non adottare il provvedimento inibitorio.

Oggetto dell'accertamento invocato con l'azione iniziale non può essere solo la mera sussistenza o insussistenza dei presupposti per svolgere l'attività sulla base di una semplice denuncia ma, in coerenza con i caratteri della giurisdizione amministrativa come giurisdizione avente ad oggetto l'esercizio del potere amministrativo ai sensi dell'articolo 7, comma 1, del codice, la sussistenza o l'insussistenza dei presupposti per l'adozione dei provvedimenti interdettivi doverosi, e, quindi, la fondatezza dell'interesse pretensivo all'uopo azionato del terzo.

Al di là della validità della soluzione individuata per la tutela del terzo avverso la d.i.a. o la s.c.i.a. assume importanza generale il riconoscimento dell'ammissibilità dell'azione di accertamento anche in relazione a posizioni che la stessa Plenaria qualifica come interessi legittimi.

Viene affermato che, ove altre azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela, l'azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire concreto ed attuale ex art. 100 c.p.c., risulta praticabile in forza delle coordinate costituzionali e comunitarie richiamate dallo stesso art 1 c.p.a..

Il nuovo intervento del legislatore con l' art. 6 del d.l. n. 138/2011 e le modifiche apportate al Codice dal primo decreto correttivo.

Come già indicato al par. “Silenzio inadempimento e Scia: art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990”, con l' art. 6 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148, è stato aggiunto il comma 6-ter all' articolo 19, della l. 7 agosto 1990, n. 241, che prevede che «6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all' articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».

Nell'originario testo del d.l. era stato anche previsto che «La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate», ma tale riferimento è poi caduto in sede di conversione in legge e, sempre in sede di conversione, è stata inserita la parola «esclusivamente» al fine di rafforzare la ratio della disposizione, che risulta essere quella di limitare i maggiori mezzi di tutela, che la Adunanza Plenaria aveva appena riconosciuto.

La novità è stata rafforzata con il correttivo al Codice, con cui, in accoglimento di una osservazione della Commissioni parlamentari, è stato precisato che il ricorso avverso il silenzio può essere proposto non solo nel tradizionale caso del decorso dei termini per la conclusione del procedimento amministrativo, ma anche «negli altri casi previsti dalla legge»; tali altri casi sono costituiti appunto dall' art. 19, comma 6-ter della legge n. 241/90 (il correttivo ha anche modificato l'art. 133, dove tra le materie di giurisdizione esclusiva è stato inserito un espresso riferimento al «silenzio assenso, di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3, e provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata di inizio attività, denuncia e dichiarazione di inizio attività, di cui all' articolo 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241») (v. supra)

Dopo tale intervento normativo la tutela del terzo avverso la d.i.a. o la s.c.i.a. torna indietro di qualche anno e torna a consistere nella possibilità di chiedere all'amministrazione di esercitare i propri poteri inibitori, con l'eventuale esercizio del ricorso avverso il silenzio in caso di inerzia o con l'eventuale impugnazione del diniego espresso.

E’ stata riconosciuta la portata retroattiva della norma sancita dal citato art. 19, comma 6 ter, tenuto conto che la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla ricordata modifica legislativa, aveva ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a., atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata (Cons. St. IV, n. 4659/2017).

Una tutela maggiormente tortuosa che aveva nel passato fatto emergere diversi profili di criticità, che avevano condotto la giurisprudenza per diverse vie a ricercare una maggiore effettività della tutela.

Il punto d'approdo sembrava essere la recente decisione della Plenaria, ma il legislatore ha imposto di tornare al punto di partenza.

Il presupposto sembra essere il seguente: se una attività è completamente liberalizzata, non vi può essere una azione diretta davanti al g.a. per contrastarla, ma si può solo chiedere all'amministrazione di verificare se sussistano tutti i presupposti dell'attività liberalizzata potendo contestare la risposta o il silenzio della p.a. solo successivamente.

Se questa è la ratio, non si comprende l'espunzione in sede di conversione del riferimento alla liberalizzazione e ancor meno si comprende perché mai il terzo debba essere privato di una modalità di agire più efficace per far accertare che la attività in concreto svolta non integrava i presupposti dell'attività liberalizzata.

Va, tuttavia, rilevato che la nuova forma di tutela delineata dall'art. 18, comma 6-ter, potrebbe essere utilizzata senza un termine preciso, in quanto il terzo in qualunque momento potrebbe sollecitare le verifiche della p.a.; se tale tesi è corretta, il terzo ha uno spazio temporale ampio per agire e l'attività assoggettata a d.i.a. o s.c.i.a. resta esposta ad azioni giurisdizionali a tempo indefinito (mentre, secondo la tesi della Plenaria, scattava il termine di 60 giorni per l'annullamento del provvedimento implicito di mancato esercizio dei poteri inibitori, decorrenti dalla conoscenza dell'intervento).

Come già evidenziato in precedenza, tali criticità hanno indotto i giudici amministrativi a sottoporre l'intervento legislativo al vaglio della Corte Costituzionale: è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell' art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/90, nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla Scia, per contrasto con gli artt. 3,11,97,117, co. 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Cedu ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE, e 117 comma 2 lett. m) Cost. (T.A.R.Toscana, Firenze, 11 maggio 2017 n. 667, che critica il fatto che la tutela sia è realizzabile esclusivamente attraverso lo strumento del ricorso per silenzio-rifiuto di cui all' art. 31 c.p.a. avverso l'eventuale inerzia serbata dall'Amministrazione; si contesta l'incostituzionalità della previsione nella parte in cui, rispetto alla mancata risposta dell'Amministrazione alla sollecitazione del potere di controllo, omette di fissare un termine perentorio entro il quale il terzo possa avanzare l'istanza di sollecitazione; in assenza di tale termine la norma pare ammettere una sollecitazione del potere di verifica della Scia da parte del terzo sine die)

La nullità del provvedimento amministrativo: inquadramento dell'istituto

La invalidità di un atto amministrativo è, in via generale, la difformità di tale atto dal diritto, la non conformità alla fattispecie normativa che lo disciplina (Piras, 607), integrata da una serie di regole che attengono al corretto esercizio della potestà discrezionale (Corso, 91).

L'invalidità determina la sanzione della inefficacia definitiva dell'atto; tale sanzione può essere automatica, come nel caso della nullità, che opera di diritto, o necessitare di una apposita applicazione giudiziale, come nel caso dell'annullabilità, che non si determina automaticamente ma deriva da una decisione del giudice su sollecitazione del privato ricorrente.

Le due forme di invalidità costituiscono entrambe una qualificazione negativa dell'atto, determinata dall'inosservanza delle norme giuridiche, con la differenza che l'atto nullo è inefficace di diritto, inidoneo a produrre i suoi effetti fin dall'origine, e viene considerato tamquam non esset, mentre l'atto annullabile è comunque idoneo a produrre i suoi effetti che permangono nell'ordinamento giuridico fino a quando e solo se, su istanza di parte, non venga dichiarata, in via giudiziale, l'illegittimità dell'atto stesso, o nel caso dell'attività amministrativa, l'atto non venga rimosso in via di autotutela dalla stessa amministrazione (Villata-Ramajoli, 336).

Con riguardo al regime delle invalidità nel diritto amministrativo, il legislatore si era limitato a prevedere che il giudice amministrativo decidesse sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa [ art. 26 r.d. n. 1054/1924 ( t.u. Cons. St.) ed art. 2l. n. 1034/1971 (l. T.A.R.)].

Con tale disposizione di contenuto solo processuale era stato comunque sancito il principio, secondo cui la tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di applicazione giudiziale in presenza dei tre tradizionali vizi (violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere), ora codificati anche dall' art. 21-octies, comma 1, della l. n. 241/1990 e richiamati dall'art. 29, che stabilisce che «L'azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni».

Si ricorda che in diritto civile, la regola per violazione a norme imperative è la nullità, mentre la annullabilità è prevista a tutela di interessi particolari (salve particolari, ma significative eccezioni, come in materia di delibere assembleari, di matrimonio, di testamento).

Nel diritto amministrativo è, invece, prevalsa un'impostazione del regime di invalidità del provvedimento amministrativo, autonoma rispetto al diritto civile (Giannini, 181): la categoria della nullità assume un rilievo residuale, limitato alle ipotesi di nullità testuale (espressamente comminata da una norma di legge) e ad altri casi di gravi difetti strutturali del provvedimento.

Le norme che disciplinano l'azione amministrativa e, in particolare, il provvedimento amministrativo sono tutte norme imperative giacché trovano fondamento nei principi costituzionali di buon andamento e di efficienza dell'azione amministrativa di cui all' art. 97 Cost. e non sono disponibili per la pubblica amministrazione.

Tuttavia, ogni violazione di legge (anche di disposizioni imperative) costituisce vizio di legittimità, e quindi causa di annullabilità, dell'atto amministrativo; pertanto, la violazione di norma imperativa che nel diritto civile provoca nullità, nel diritto amministrativo si qualifica come vizio di violazione di legge, che determina invece l'annullabilità dell'atto e che solo il legislatore può elevare, con specifica ed espressa disposizione, a ragione di nullità dell'atto (Piras, 601).

È stato sottolineato come la ragione di fondo di tale divergenza di disciplina tra vizi dell'atto amministrativo e vizi del negozio sia chiara: nel diritto amministrativo l'esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità del provvedimento amministrativo. Nel nostro ordinamento, come si evince chiaramente dal principio di decadenza, è inconcepibile che il vizio di un provvedimento amministrativo, ancorché derivante da violazione di norma imperativa, possa essere rilevato senza limiti temporali ed addirittura d'ufficio da parte del giudice. Se così non fosse, l'azione amministrativa resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione.

Esigenze di rilievo pubblicistico impongono invece che, decorso il termine di decadenza, il provvedimento amministrativo, giusto o sbagliato che sia, pervenga ad una condizione di stabilità ed intangibilità giurisdizionale, salva naturalmente la possibilità per la pubblica amministrazione di esercitare l'autotutela nei limiti previsti anche per tale potere (Cons St., VI, n. 5902/2010).

La nullità del provvedimento può discendere solo dalla violazione delle norme che definiscono e, quindi, delimitano il potere di cui il provvedimento è esercizio (quando ad esempio gli elementi essenziali dell'atto non corrispondono a quelli predeterminati dall'ordinamento), mentre costituisce motivo di annullabilità la violazione di quelle norme che regolano l'esercizio del potere (Romano, 818).

In molti casi la nullità dell'atto amministrativo è destinata ad operare come strumento di salvaguardia nei confronti dello stesso potere pubblico, cui impedisce di trasmodare in modo autolesionistico; l'introduzione di ipotesi di nullità dell'atto amministrativo non sembra affatto aver segnato un arretramento dei privilegi del potere: al contrario, essa ha rafforzato la supremazia dell'interesse della P.A. su quello del cittadino, privato in tal modo delle garanzie normalmente offertegli dal regime di esecutività dei provvedimenti a lui favorevoli; si pensi, per esempio, proprio ai limiti sempre più stringenti all'esercizio del potere di autotutela, che il ricorso «tecnico» alla qualificazione di nullità consente di superare in radice, e comunque di attenuare fortemente (Romano Tassone, che riconosce tuttavia che la nullità conseguente alla violazione del giudicato sembra funzionale essenzialmente alla tutela dell'interesse del privato).

Ferma restando la generale vocazione della nullità a proteggere un interesse genericamente pubblico, si può distinguere funzionalmente tra nullità disposte a scopo di (auto)protezione della stessa P.A. agente, e nullità previste a fini di garanzia del privato. Rientrano nella prima categoria le nullità testuali delle quali la dottrina e la giurisprudenza avevano già individuato la funzione di tutela dell'interesse «particolare» (interesse pubblico specifico) della P.A., mentre ricadono nella seconda categoria le altre ipotesi previste dall'art. 21-septies (Romano Tassone).

Analoga distinzione è effettuata tra la nullità come conseguenza dell'illecito (nullità a scopo di garanzia) e nullità come forma di invalidità (nullità a scopo di controllo); nel primo caso (illiceità), i profili della causa, dei motivi e dell'oggetto aprono la vicenda negoziale ai valori primari per la convivenza civile, espressi attraverso le formule dell'ordine pubblico, del buon costume ovvero contenuti in singole norme di condotta. In altre parole, di fronte alla commissione di un fatto illecito, l'ordinamento utilizza lo strumento della nullità in funzione di garanzia per i suoi preminenti interessi. Nel secondo caso, quando la nullità costituisce manifestazione di invalidità dell'atto, essa rappresenta uno strumento con il quale l'ordinamento non reprime comportamenti antisistemici ma controlla il regolare ed ottimale svolgimento della vita associata. In questi casi, la nullità risulta come una delle forme in cui si manifesta il fenomeno dell'invalidità degli atti giuridici; uno dei possibili regimi di trattamento che l'ordinamento riserva agli atti imperfetti, purché leciti (Luciani).

Ciò premesso, si osserva che in assenza di un intervento del legislatore era stata la giurisprudenza a delineare i contenuti delle tipologie di vizi del provvedimento più gravi, che operano di diritto e comportano, in via automatica, la nullità del provvedimento amministrativo o addirittura l'inesistenza.

Non avevano quindi spazio nel diritto amministrativo le c.d. le nullità virtuali, derivanti dalla violazione di norme imperative che, pur in assenza della espressa sanzione della nullità, non siano assistite da altra sanzione, con la conseguente inapplicabilità della regola generale di cui al comma 1 dell' art. 1418 c.c. («il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente»).

La sanzione della nullità del provvedimento era prevista solo con riferimento ad ipotesi peculiari, quali ad esempio l'assunzione nel pubblico impiego senza il filtro preventivo della procedura concorsuale ed era inoltre utilizzata dalla giurisprudenza con riferimento ad alcune carenze particolarmente gravi dell'atto amministravo, tali da determinarne la nullità o addirittura l'inesistenza.

Con la riforma della l. n. 241/1990, operata dalla l. n. 15/2005, è stato codificato — con l'art. 21-septies— l'istituto della nullità del provvedimento amministrativo.

L' art. 21-septies della l. n. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando a) manchi degli elementi essenziali,b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione,c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infined) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge.

Le cause di nullità del provvedimento amministrativo hanno carattere tassativo e devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso (Cons. St. V, n. 891/2006; Cons. St. IV, n. 5671/2014; Cons. St. V, n. 2237/2015), anche se le nuove ipotesi di nullità vanno in gran parte ricondotte a quei casi in cui la giurisprudenza era già pervenuta alla qualificazione dell'atto in termini di nullità.

Nonostante ciò, viene tuttora mantenuto un atteggiamento cauto circa la categoria della nullità dei provvedimenti, da ricondurre ad ipotesi non prevalenti, numericamente ridotte, se non marginali (Villata-Ramajoli, 343).

Resta fermo che il legislatore, tra le varie opzioni possibili — ossia tra quella di inserire nel sistema della patologia dell'atto amministrativo tutte le ipotesi di nullità (testuale, strutturale e virtuale) previste dall' articolo 1418 c.c. e quella di ritenere sufficiente la categoria dell'annullabilità per quanto riguarda i rapporti amministrativi — ha scelto la soluzione di compromesso, ossia quella di escludere la nullità per contrasto con norme imperative di legge, giudicando tale categoria particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di certezza e di stabilità dell'azione amministrativa. Pertanto, le ipotesi astrattamente riconducibili alla nullità c.d. virtuale vanno ricondotte al vizio di violazione di legge, atteso che le norme riguardanti l'azione amministrativa, dato il loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non disponibili da parte dell'amministrazione.

Quindi esse costituiscono cause di annullabilità del provvedimento, da farsi valere entro il termine di decadenza, a tutela della stabilità del provvedimento amministrativo (in questi termini, Cons. St. V, n. 1498/2010, in una fattispecie avente ad oggetto l'ampliamento di una concessione di pubblico servizio senza gara, rispetto al quale l'amministrazione chiedeva l'accertamento della validità del rapporto e il contraente eccepiva la nullità del contratto per la violazione dell' art. 113, co. 15-bis, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e dei principi comunitari; commentando tale pronuncia, Foà rileva che in effetti alcuna norma prevede la sanzione della nullità per l'ipotesi in cui l'amministrazione proceda all'affidamento di un servizio pubblico senza il previo esperimento del procedimento ad evidenza pubblica. Al momento in cui l'Amministrazione ha proposto l'azione di accertamento il contratto integrativo era valido, posto che l'omessa o viziata procedura di evidenza pubblica non può ridondare automaticamente sul contratto accessivo, in assenza di una pronuncia giurisdizionale che ne statuisca l'illegittimità. L'autore prosegue rilevando che la tesi esposta delinea coerentemente alla disciplina sostanziale il sistema dei rimedi giurisdizionali: la nullità testuale è nullità agli effetti processuali, ad essa applicandosi oggi la previsione di cui all'art. 31 comma 4, con il conseguente termine di decadenza di centottanta giorni per la proposizione e la possibilità di opporla senza limiti dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice. La nullità virtuale, riferita alla contrarietà ad una norma imperativa, che tuttavia non risulta assistita in maniera espressa dalla sanzione della nullità per il caso di sua violazione, è una ipotesi di annullabilità per violazione di legge, essendo superata la ricostruzione civilistica ex art. 1418 c.c. dalla sopravvenienza della disciplina speciale dedicata ai provvedimenti amministrativi.

Altra dottrina rileva come la novella del 2005 non si pronuncia in ordine alle conseguenze della nullità, ossia al regime effettuale del provvedimento nullo e non chiarisce i rapporti tra validità e (in)efficacia, sottolineando che l'annullabilità e la nullità sono rimedi all'invalidità, ma non sono necessariamente causa di inefficacia, che dipende invece dalla «riferibilità», che è un giudizio dei destinatari sul fatto che il provvedimento sia riconosciuto come espressione dell'ordinamento giuridico (Trimarchi, 273 e ss.).

Differenza con l'inesistenza

A seguito della codificazione dell'istituto della nullità del provvedimento amministrativo è restata priva di definizione normativa la categoria dell'inesistenza, che costituisce esclusivamente il frutto di quell'elaborazione dottrinale, secondo cui l'atto inesistente è un quid facti, giuridicamente irrilevante.

Mentre il provvedimento nullo, pur non producendo effetti, produce risultati (effetti pratici suscettibili di valutazione giuridica) e come tale rischia di essere erroneamente tradotto in realtà materiale, donde l'interesse ad agire per la dichiarazione di nullità; il provvedimento inesistente è invece un'entità giuridicamente irrilevante, incapace in radice di produrre alcun effetto materiale e relativamente al quale non è possibile neanche immaginare un interesse ad agire (Bartolini, 69).

Sotto l'aspetto funzionale, l'inesistenza è rinvenibile nella difettosa struttura del fatto, nella sua difformità rispetto alla norma, che attiva la totale indifferenza dell'ordinamento nei suoi confronti: non però una generica difformità rispetto ad una norma qualunque, bensì rispetto alla norma che attribuisce ai soggetti il potere di creare azioni giuridicamente rilevanti ed efficaci. Tale imperfezione fa sì che il comportamento resti tale, senza assurgere alla rilevanza di atto; salvo doversi stabilire se lo stesso comportamento possa giuridicamente rilevare sotto altri profili: ad esempio, come fatto illecito (Luciani).

Va detto che in passato dottrina e giurisprudenza hanno a volte considerato le due forme di invalidità assoluta della nullità e dell'inesistenza come un fenomeno unitario, utilizzando la generale e onnicomprensiva definizione di «nullità-inesistenza» dell'atto amministrativo (Cons. St. VI, n. 948/1999).

O comunque evidenziando l'unitarietà di regime di nullità e inesistenza (Mattarella, 1017).

A seguito dell'entrata in vigore dell' art. 21-septies della legge n. 241/1990 alcune delle ipotesi, che parte della dottrina aveva in passato inquadrato nella categoria dell'inesistenza sono state ricomprese dal legislatore nel concetto di nullità del provvedimento amministrativo (difetto assoluto di attribuzione, mancanza degli elementi essenziali dell'atto) e deve quindi ritenersi che la categoria dell'inesistenza sia oggi limitata a quei casi in la c.d. «inqualificazione giuridica» dell'atto sia evidente, quali ad esempio quello dell'usurpatore di pubbliche funzioni ( art. 347 c.p.) o dell'atto ioci causa o docendi causa (Villata, 819), anche se è stato ipotizzato che l'intenzione del legislatore sia stata quella di esaurire l'area dell'invalidità del provvedimento amministrativo, ripartendola tra nullità e annullabilità (Mattarella, 479). Secondo altra tesi, sarebbe inesistente il provvedimento del quale neppure sussistono gli elementi fattuali, mentre il diverso concetto di nullità è delineabile sul differente piano delle qualificazioni giuridiche di questi elementi medesimi (Romano, 805).

È stato anche evidenziato che l'esistenza giuridica di un atto è il risultato di una prima qualificazione normativa (giudizio di rilevanza) che consente allo stesso atto di essere sottoposto all'ulteriore procedimento di qualificazione normativa (giudizio di validità) e che l'elemento minimo che conferisce all'atto rilevanza di provvedimento consiste nella circostanza che quell'atto sia in qualche modo attribuibile alla sfera pubblica, sia comunque individuabile come proveniente da una amministrazione che abbia agito senza averne il potere o con modalità giuridiche gravemente viziate. La formulazione dell'art. 21-septies sembra confermare questa impostazione: anche quando l'amministrazione abbia agito in difetto assoluto del potere, il provvedimento nullo resta un atto giuridico; ciò avviene perché a quell'atto basta la semplice provenienza (anche solo apparente) da un'autorità amministrativa per superare il giudizio di rilevanza (Cerulli,Invalidità, 213, che richiama gli esempi di atto inesistente, oltre ai casi di inesistenza materiale, i casi di attività svolta da privati che hanno usurpato funzioni pubbliche, nonché le attività compiute da un pubblico agente che abbia esercitato le funzioni di cui è stato formalmente investito, ma che nell'esercizio di tali compiti « si sia posto completamente al di fuori della sua funzionale attività e abbia manifestato nel contempo una pervicace intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni per perseguire finalità vessatorie »).

Le nullità testuali

Ancor prima dell'introduzione dell'art. 21-septies, anche il legislatore aveva riconosciuto l'inadeguatezza della sanzione dell'annullabilità come risposta ai vizi più gravi del provvedimento amministrativo.

Era stata così prevista la sanzione della nullità del provvedimento in alcune specifiche ipotesi (le c.d. nullità testuali), tra cui:

a) l'assunzione nel pubblico impiego senza il filtro preventivo della procedura concorsuale ( art. 3, comma 6 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, secondo cui l'assunzione agli impieghi pubblici senza il prescritto concorso è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell'amministrazione, ferma restando la responsabilità dell'impiegato che vi ha provveduto; v. anche l' art. 4 del d.P.R. 31 marzo 1971, n. 276);

b) gli atti emessi dopo il regime di prorogatio di quarantacinque giorni (artt. 3 e 6 del d.l. 16 maggio 1994, n. 293, conv. in l. n. 444/1994: che sanzionano con la nullità gli atti adottati durante il periodo di prorogatio ma che non rientrano tra gli atti di straordinaria amministrazione, né sono caratterizzati da indifferibilità e urgenza e tutti gli atti — compresi quelli di straordinaria amministrazione, oppure urgenti o indifferibili — adottati dagli organi decaduti quando sia decorso il termine massimo di quarantacinque giorni);

c) l'assegnazione del dipendente pubblico a mansioni superiori al di fuori delle ristrette ipotesi consentite (artt. 52, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che prevede la nullità dell'assegnazione del dipendente a mansioni proprie di una qualifica superiore, effettuata al di fuori delle ipotesi consentite dal disposto del comma 2 dello stesso articolo, stabilendo che al lavoratore sia in ogni caso attribuito il trattamento economico corrispondente alla qualifica superiore, e che il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponda personalmente del maggior onere conseguente, ove abbia agito con dolo o colpa grave);

d) l'affidamento di incarichi a pubblici dipendenti in assenza di autorizzazione ( art. 53, comma 8, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che stabilisce che le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi e che il provvedimento di conferimento dell'incarico senza la previa autorizzazione è nullo di diritto);

e) l'accertamento tributario difforme dalla risposta all'interpello ( art. 11 della l. 27 luglio 2000, n. 212, che disciplina l'interpello del contribuente, ossia il diritto del contribuente di chiedere indicazioni all'amministrazione circa l'applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, prevedendo che qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta è nullo);

f) gli accordi tra privati e P.A. privi del requisito della forma scritta ( art. 11 l. n. 241/1990) e gli accordi tra amministrazioni non sottoscritti con firma digitale o con altra firma elettronica qualificata ( art. 15, l. n. 241/1990); le prescrizioni ulteriori rispetto alle condizioni di partecipazione alle procedure di scelta del contraente previste dalla legge ( art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/2016);

g) le prescrizioni delle clausole di esclusione dei bandi di gara ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge ( art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/2016; v. Maddalena, 831, con riferimento al previgente art. 46, comma 1-bis del d.lgs. n. 163/2006). Secondo Cons. St., Ad plen., n. 22/2020 si tratta di nullità parziali limitate alla clausola, da considerare non apposta, che non si estendono all’intero provvedimento, che conserva natura autoritativa).

Con riferimento a tale ultima ipotesi è stato che la nullità ex art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 della clausola del disciplinare di gara che subordini l'avvalimento dell'attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell'attestazione SOA anche della stessa impresa ausiliata configura un'ipotesi di nullità parziale limitata alla clausola, da considerare non apposta, che non si estende all'intero provvedimento, il quale conserva natura autoritativa (Cons. St., Ad. plen., n. 22/2020, che ha anche evidenziato che in presenza di una nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara non sussiste l'onere per l'impresa di proporre alcun ricorso perché tale clausola – in quanto inefficace e improduttiva di effetti - si deve intendere come ‘non apposta', a tutti gli effetti di legge, salvo impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione – anche - della clausola nulla contenuta nell'atto precedente).

Anche se in origine la giurisprudenza aveva interpretato le ipotesi di nullità testuale come casi non di vera e propria nullità, ma di annullabilità (Cons. St. IV, 3 ottobre 1911), successivamente sono stati riconosciute come rientranti nella categoria della nullità (Cons. St. Ad plen., n. 2/1992).

La gravità di tali vizi dell'atto è stata ritenuta tale da non poter essere condizionata alla attivazione di un interesse di parte, come nel caso dell'azione di annullamento, né lasciata alla sola iniziativa dell'amministrazione di esercitare i propri poteri di autotutela, attivabili peraltro non in seguito al mero riscontro della sussistenza del vizio, ma previo accertamento dell'interesse pubblico alla rimozione dell'atto ed oggi anche della verifica del ragionevole tempo trascorso che comunque, per i provvedimenti autorizzatori e per quelli attributivi di vantaggi economici, non deve eccedere i diciotto mesi dalla relativa adozione ( art. 21-nonies l. n. 241/1990, come modificato dalla l. 7 agosto 2015, n. 124).

La codificazione della nullità nella riforma della legge n. 241/1990

L' art. 21-septies della l. n. 241/1990 ha, quindi, codificato l'istituto della nullità del provvedimento amministrativo, prevedendo — accanto alle c.d. nullità testuali — tre generali ipotesi di nullità.

Segue. Le nullità strutturali: la mancanza dei requisiti essenziali.

La prima di queste è la nullità del provvedimento amministrativo mancante degli elementi essenziali, che già era emersa da tempo in giurisprudenza (Cons. St. V, n. 554/1984).

Parallelamente a quanto previsto dall' art. 1418 c.c. (mancanza dei requisiti del contratto o illiceità di alcuni di essi quale causa di nullità del contratto), l'art. 21-septies stabilisce che è causa di nullità del provvedimento la mancanza di requisiti essenziali, senza pero indicarli, come fa invece l' art. 1325 c.c. (Villata-Ramajoli, 352).

Si tratta di una nullità strutturale, la cui codificazione smentisce quelle tesi pubblicistiche, secondo cui nel diritto amministrativo vi sarebbe poco spazio per il concetto di nullità strutturale (mancanza, impossibilità o illiceità di uno degli elementi o requisiti essenziali del provvedimento amministrativo), in quanto o la deficienza strutturale del provvedimento è tale da impedire di qualificarlo come esistente e si ricade quindi nella categoria dell'inesistenza dell'atto amministrativo, oppure il vizio strutturale non incide sull'esistenza del provvedimento amministrativo, ma soltanto sulla legittimità dello stesso, comportandone la semplice annullabilità. Al riguardo, è stato sottolineato che se è vero che l'art. 21-septies prevede la nullità solo per la mancanza degli elementi essenziali e non in caso di loro contrarietà a norme imperative o all'ordine pubblico o al buon costume, né in caso di mancanza dei requisiti di determinatezza, determinabilità e possibilità dell'oggetto, non si può negare che, secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico (non solo di quello privatistico), l'ipotesi della mancanza degli elementi essenziali degli atti giuridici è del tutto equivalente a quella in cui gli elementi essenziali siano indeterminati o indeterminabili o illeciti perché contrari all'ordine pubblico, al buon costume (Lamorgese).

La nullità strutturale attiene quindi al difetto dei requisiti essenziali dell'atto (soggetto, oggetto, forma, causa) e riporta alla sempre contrastata costruzione negoziale del provvedimento (De Felice).

Proprio seguendo l'ottica civilistica, sono riconducibili alla categoria della nullità strutturale le ipotesi di indeterminatezza, impossibilità ed illiceità del contenuto del provvedimento, cioè del regolamento di interessi ivi previsto; difetto o illiceità della causa dell'atto, interpretata qui come funzionalità dell'atto rispetto all'interesse pubblico, come nei casi di scuola dell'espropriazione dell'edificio distrutto o di un bene demaniale (Clarich, 215; cfr. anche Cons. St. IV, n. 2202/2016, secondo cui il difetto della causa, laddove lo si identifichi con l'insussistenza dell'interesse pubblico che esso dovrebbe perseguire, costituisce una ordinaria ipotesi di annullabilità del provvedimento).

Vi rientrano pure le patologie relative al soggetto, quali l'inesistenza o il vizio relativo all'investitura o alla costituzione del soggetto che ha adottato il provvedimento amministrativo; la mancanza della volontà della pubblica amministrazione (il caso classico è quello della violenza fisica esercitata sul funzionario) o il vizio relativo alla sua formazione; il difetto della forma essenziale del provvedimento, che ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, nelle ipotesi del difetto di sottoscrizione del provvedimento e della mancata verbalizzazione delle deliberazioni degli organi collegiali; l'inesistenza dell'oggetto, inteso sia come res sia come persone su cui si concentrano le trasformazioni giuridiche causate dall'atto (si pensi ad un provvedimento di esproprio nei confronti di un soggetto deceduto o mai esistito) (Caringella, 1451; anche secondo Cons. St., V, n. 4522/2008, in mancanza di una precisa indicazione nell'art. 21-septies, degli elementi essenziali del provvedimento amministrativo, la cui mancanza comporta la nullità dello stesso, per la loro identificazione è necessario fare riferimento alle nozioni di derivazione civilistica, concernenti il contratto e il negozio giuridico).

Facendo utilizzo delle categorie civilistiche, è stata ipotizzata la nullità del provvedimento: per assenza di volontà, oltre che nell'ipotesi del funzionario che firma il provvedimento perché costretto con la minaccia, in caso di violazione delle norme che presiedono al procedimento di formazione della volontà dell'organo così grave da rendere il procedimento nullo; per assenza di capacità per il provvedimento adottato dal dirigente il cui incarico sia stato revocato o annullato o per quello adottato dall'organo collegiale che abbia deliberato in mancanza del quorum strutturale, ossia in una palese condizione di incapacità; per il provvedimento adottato in carenza di oggetto o contenuto determinato o determinabile, come in caso di decreto di espropriazione in ordine ad un bene del quale l'amministrazione sia già divenuta proprietaria per effetto di un'occupazione acquisitiva; per l'atto mancante della forma scritta (Cavallaro).

Si tratterebbe però di casi talmente astratti da apparire spesso come ipotesi di scuola, in cui mancano i presupposti per imputare all'amministrazione una fattispecie provvedimentale (Cavallo, 301).

Secondo altra tesi, la caducazione con effetto retroattivo del titulus fa venir meno uno di quegli «elementi essenziali» del provvedimento amministrativo (consequenziale) emanato e, pertanto, gli atti adottati dal c.d. funzionario di fatto sarebbero nulli perché al soggetto pubblico non è (più) imputabile alcuna volontà — stante la frattura del rapporto organico determinata dall'annullamento ex tunc dell'investitura — per carenza, appunto, di un elemento essenziale, la volontà; mentre nell'ipotesi di funzionario di fatto tale per carenza di titolo, gli atti sarebbero nulli per difetto di attribuzione (D'Angelo).

Tuttavia, la giurisprudenza ha evidenziato che un difetto assoluto di attribuzione o altra ipotesi di nullità non può ravvisarsi in caso di investitura formale poi caducata retroattivamente, poiché affetta da vizi di legittimità, essendo proprio questa la situazione classica in cui — per assicurare la certezza e la continuità dell'azione amministrativa — si riconosce la validità dei provvedimenti emessi prima dell'annullamento del presupposto atto di nomina (Cons. St. VI, n. 2116/2015). Nell'ambito del provvedimento nullo per mancanza degli elementi essenziali viene ricompreso anche il caso del venir meno dell'imputabilità dell'atto alla pubblica amministrazione per interruzione del rapporto organico derivante dalla commissione di reati (Cons. St. V, 890/2008, che ha ritenuto nulla una concessione edilizia nel caso in cui la volontà dell'organo che ha adottato il provvedimento si sia formata in modo non libero e spontaneo, bensì in ambiente collusivo penalmente rilevante).

Al di fuori di questi casi, i vizi di erroneità o falsità del presupposto sulla cui base l'atto è stato adottato costituiscono tipici vizi di legittimità dell'atto amministrativo che possono essere dedotti nelle forme dell'azione di annullamento, soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni (Cons. St. V, n. 3702/2014).

Segue. Il difetto assoluto di attribuzione

Causa di nullità del provvedimento amministrativo è anche il difetto assoluto di attribuzione.

L'espressione utilizzata dal legislatore non è chiara e, riecheggiando il difetto assoluto di giurisdizione, potrebbe condurre a ritenere che il legislatore abbia inteso fare riferimento a ipotesi in cui nessuna autorità amministrativa ha il potere di intervenire in una determinata materia; appare invece preferibile superare il dato letterale e ritenere che il legislatore abbia fatto riferimento all'incompetenza assoluta (Chieppa, 2005).

Il riferimento determina l'esigenza di evidenziare la differenza tra l'ipotesi di inesistenza dell'atto per usurpazione del potere e conseguente irrilevanza giuridica dell'atto e il vizio (di legittimità) dell'incompetenza relativa, sanzionato con l'annullabilità.

Nel caso dell'usurpazione manca proprio un soggetto qualificabile come P.A. e l'atto è quindi inesistente. L'atto nullo è invece adottato da un soggetto, qualificabile formalmente come amministrazione, che ha invaso settori, attribuiti ad altri poteri dello Stato e del tutto estranei alle proprie attribuzioni (incompetenza assoluta).

Sussiste il vizio ordinario di illegittimità-annullabilità quando l'atto, proveniente da ente diverso, sia stato emanato nell'esercizio di una attività riferita ad un settore amministrativo ordinato unitariamente in seno al quale i due organi svolgono compiti ripartiti secondo il sistema proprio della divisione delle competenze (De Felice).

Come detto al par. precedente, un difetto assoluto di attribuzione non può ravvisarsi in caso di investitura formale poi caducata retroattivamente (Cons. St. VI, n. 2116/2015).

Tale conclusione, che esclude l'incompetenza assoluta quando l'organo che ha adottato l'atto svolga comunque alcune funzioni nel settore in questione, determina che l'intervento di un diverso livello territoriale di governo costituirà un vizio di incompetenza soltanto relativa, sanzionato con la semplice annullabilità del provvedimento; mentre l'incompetenza assoluta, che per alcuni rientra nelle ipotesi di nullità per mancanza degli elementi essenziali, ricorre solo quando l'atto costituisce manifestazione di poteri spettanti ad organi che operano in settori del tutto diversi ovvero sia destinato a spiegare efficacia al di fuori dell'area fisica cui insiste l'ente territoriale (Cons. St. VI, n. 948/1999).

È stato evidenziato che viene così evitato che i numerosi problemi interpretativi, susseguenti alla riforma del 2001 in senso federalista del titolo V della Costituzione, possano ampliare a dismisura la categoria della nullità del provvedimento amministrativo con il rischio di creare ulteriore incertezza a causa dell'assenza del termine decadenziale per la contestazione del vizio (Cons. St. IV n. 6023/2005, secondo cui le violazioni, per quanto gravi, di norme imperative, quali sono di regola tutte quelle attinenti allo svolgimento di poteri pubblici, od anche di attribuzioni di competenza disciplinate direttamente dalla Costituzione, danno luogo a semplice invalidità degli atti amministrativi, che deve essere fatta valere dall'interessato nel prescritto termine di decadenza, in quanto la radicale nullità dell'atto, a meno che non sia espressamente ed inequivocabilmente disposta dalla norma primaria, ricorre soltanto quando l'atto costituisca manifestazione di poteri spettanti ad organi che operino in settori del tutto diversi, ovvero sia destinato a spiegare efficacia al di fuori dell'area fisica su cui insiste l'Ente territoriale di cui tali organi facciano parte).

La previsione del difetto assoluto di attribuzione come causa di nullità dell'atto richiama in modo diretto il concetto di carenza di potere (Cerulli Irelli,Principii, 235) e il fatto che il legislatore non abbia utilizzato tale ultimo termine conduce a ritenere che nel mai sopito dibattito si sia voluto fare riferimento alla carenza di potere in astratto, e non in concreto (Villata-Ramajoli, 345).

Si ricorda che le posizioni della Cassazione e del Consiglio di Stato non hanno raggiunto un punto di convergenza sulla questione.

Il Consiglio di Stato considera nullo il provvedimento adottato da un'amministrazione totalmente priva del potere, appunto, di emanarlo, o perché il potere di provvedere appartiene ad un'amministrazione radicalmente diversa — si parla in questo caso di incompetenza assoluta — oppure perché si tratta di un potere precluso ad ogni amministrazione e riservato invece ad un altro potere dello Stato, giurisdizionale o legislativo — carenza di potere in astratto (Cons. St. Ad plen., n. 4/2003).

La Corte di Cassazione ha per prima fatto riferimento al concetto di carenza di potere ai fini del riparto di giurisdizione, evidenziando come il provvedimento adottato in carenza di potere fosse inidoneo ad affievolire l'originaria consistenza del diritto, in quanto l'atto è appunto privo della potestà di degradazione dei diritti soggettivi con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, a differenza del caso di cattivo uso del potere in cui l'illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia degradatoria, con giurisdizione del giudice amministrativo (Cass.S.U., n. 1657/1949, in Foro it., 1949, I, 926, richiamata da Romano, 822, il quale ne evidenzia l'attualità anche ai fini del riparto di giurisdizione, in quanto pone al centro dell'attenzione il potere amministrativo, rispetto al quale la posizione del privato è di interesse legittimo se viene contestato il suo esercizio, che è regolato da norme di minore rilievo rispetto a quelle che delimitano il potere e la cui violazione lede posizioni di diritto soggettivo).

Sempre la Cassazione ha poi fatto rientrare nel concetto di carenza di potere non solo la figura originaria di carenza per inesistenza del potere (carenza in astratto), ma anche l'ipotesi della c.d. carenza in concreto, in cui il potere amministrativo, pur essendo in astratto attribuito all'amministrazione, non può in concreto essere esercitato a causa di una preclusione legislativa, quale esempio la scadenza dei termini della procedura espropriativa ( Cass.S.U., n. 36/2001; anche se va evidenziato come — di recente — proprio con riguardo ad una delle fattispecie più problematiche la Cassazione ha riconosciuto che il decreto di espropriazione adottato fuori termine non è atto nullo adottato in carenza di potere e quindi «viziato da difetto assoluto di attribuzione», ma è solamente annullabile — Cass.S.U., n. 11002/2009; cfr. in senso analogo anche Cass.S.U., n. 15667/2016).

La questione potrebbe oggi porsi anche in relazione al regime di invalidità dell'atto di autotutela adottato, per i provvedimenti autorizzatori e per quelli attributivi di vantaggi economici, oltre il termine di diciotto mesi previsto dall' art. 21-nonies l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 124/2015, su cui v. infraDeodato, che non ritiene ascrivibile alla fattispecie della nullità il vizio della violazione del suddetto termine per l'esercizio del potere di autotutela.

La tesi della carenza di potere in concreto è stata definita come tesi strumentale ad una soluzione in punto di riparto di giurisdizione e per questo ampiamente criticata (Morbidelli, 663, che tuttavia riconosce il merito di aver posto in evidenza come il provvedimento nullo possa essere produttivo di effetti giuridici).

Al riguardo è stato sostenuto che oggi è preferibile ritenere che sussista il vizio di nullità in caso della carenza di potere in astratto, nella quale si ha violazione della norma attributiva del potere, mentre il provvedimento è solo annullabile in caso di carenza di potere in concreto, nella quale non si viola la norma attributiva del potere, che esiste, ma solo delle norme che ne limitano l'esercizio e lo condizionano (cosiddetto cattivo esercizio del potere) (Villata, 821; per la tesi contraria, minoritaria, in dottrina, v. Lamorgese; anche Immordino-Cavallaro sostengono che la carenza di potere in concreto continua ad avere cittadinanza nel nostro sistema tra le cause di nullità del provvedimento amministrativo, in quanto, espunta dalla categoria del « difetto assoluto di attribuzione », si potrebbe configurare come ipotesi di nullità per mancanza di uno degli elementi essenziali: se le norme individuano dei «presupposti» quali condizioni fondamentali per l'attribuzione in concreto del potere, sicché la loro presenza ne condiziona l'esistenza in concreto e il suo esercizio, la loro mancanza può ben farsi confluire nell'ipotesi di mancanza di un elemento essenziale del provvedimento).

Sotto altro profilo, viene evidenziato che le ipotesi di carenza di potere in concreto sono sempre collegate a comportamenti esecutivi in materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e che, una volta riconosciuta la sussistenza di tale giurisdizione, la carenza di potere in concreto potrebbe essere più serenamente ricompresa tra le ipotesi di nullità, con maggiori garanzie per il privato, che potrebbe — ad esempio — agire con maggiore facilità in via restitutoria o risarcitoria (Maddalena, 586).

La giurisprudenza amministrativa continua a ritenere che la nullità dell'atto amministrativo per difetto di attribuzione vada circoscritta ai soli casi di incompetenza assoluta o di carenza di potere in astratto, ossia al caso in cui manchi del tutto una norma che attribuisca all'amministrazione il potere in fatto esercitato (Cons. St. IV, n. 5671/2014) e che nel caso in cui l'Amministrazione è resa dalla legge effettiva titolare del potere, ma questo viene esercitato in assenza dei suoi concreti presupposti, non si è in presenza di un difetto assoluto di attribuzione, con la conseguenza che dove è l'esercizio del potere ad essere viziato, ma non si pone questione di sua esistenza, il provvedimento sarà annullabile, non già nullo, quindi in grado di «degradare» la posizione del privato, dal che consegue la sussistenza della giurisdizione amministrativa (Cons. St. VI, 372/2012; Cons. St. VI, n. 3618/2016).

Tale orientamento sembra essere stato fatto proprio anche dalla Cassazione che, proprio prendendo spunto dall'art. 21-septies della legge n. 241/1990 e dal riferimento al solo difetto assoluto di attribuzione, ha affermato che nell'area della nullità rientra l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo (c.d. "carenza in astratto del potere"), rientrando nell'area della annullabilità i casi della c.d. "carenza del potere in concreto", ossia del potere, pur astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di legge». In sostanza, quando mancano, nel caso concreto, i requisiti fissati dalle norme per l'esercizio del potere formalmente attribuito alla Pubblica Amministrazione, ricorre una violazione di legge che mette in discussione la legittimità dell'atto e il corretto esercizio del potere amministrativo (Cass. S.U., n. 5097/2018).

Segue. La nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato

Con riguardo agli atti adottati in violazione o elusione del giudicato, la giurisprudenza aveva da tempo ritenuto che gli stessi dovessero essere considerati tamquam non essent con ammissibilità del ricorso in ottemperanza in tutti i casi in cui il «petitum» sostanziale del ricorso attenga all'oggetto proprio del giudizio d'ottemperanza, miri cioè a far valere non già la difformità dell'atto sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale (in tal caso occorrendo esperire l'ordinaria azione d'annullamento), bensì la difformità specifica dell'atto stesso rispetto all'obbligo (processuale) di attenersi esattamente all'accertamento contenuto nella sentenza da eseguire (v., fra tutte, Cons.St.Ad. plen. n.6/1984, Cons. St. IV, n. 304/1992, Cons. St. V, n. 1329/1999; Cons.St. VI, n. 664/1984).

Ovviamente, la radicale nullità dell'atto elusivo del giudicato sussiste solo nell'ambito esattamente definito dal giudicato, posto che solo in quest'ambito è prospettabile un obbligo monodirezionale della P.A. di provvedere, con la conseguente carenza del potere di provvedere diversamente e, pertanto, quando invece residui all'amministrazione un potere discrezionale, l'atto deve essere valutato nel contesto decisionale in cui si colloca, a seguito di autonoma impugnazione sottoposta ai termini di decadenza.

Ciò avviene perché la statuizione del giudice amministrativo prevale sul provvedimento emanato dalla P.A. soccombente in elusione (non importa se consapevole, o no) del giudicato, nel senso che l'atto elusivo diventa irrilevante e tamquam non esset, ancorché emanato tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e quella della decisione d'appello che la confermi, in quanto il provvedimento elusivo ha sì il carattere autoritativo suo proprio secondo i principi generali, ma lo perde, per il principio della prevalenza della funzione giurisdizionale, quando, a seguito della formazione del giudicato, si evince che esso contiene statuizioni in contrasto con quelle del giudice, divenute ormai immutabili (Cons. St. IV, n. 1001/2000; Cons. St. V, n. 1231/1996). Inoltre, il principio secondo cui l'atto amministrativo è affetto da nullità ove si ponga in contrasto con un precedente giudicato amministrativo, opera quando l'anzidetto contrasto è integrale, ma non anche nell'ipotesi in cui il nuovo provvedimento si fondi su una pluralità di motivi, non oggetto di pronuncia giudiziale né dalla stessa esclusi (Cons. St. V, n. 494/1993).

Non sono affetti da nullità, né devono ritenersi emanati in assenza di potere gli atti posti in essere dalla amministrazione in sede di esecuzione del giudicato solo perché emanati una volta scaduto il termine per provvedere assegnato dal giudice della ottemperanza con sentenza che abbia peraltro disposto contestualmente la nomina del commissario ad acta; la nomina del commissario ad acta e la scadenza del termine assegnato per l'esecuzione della statuizione dell'autorità giudiziaria non comportano, infatti, il venire meno del potere-dovere dell'amministrazione di provvedere nell'ambito delle attribuzioni riconosciute per legge (Cons. St. IV, n. 1947/2006).

In sostanza, l'annullamento della valutazione da parte del giudice amministrativo non preclude in via di principio la riedizione del potere amministrativo, ma la nuova valutazione, per non ricadere nel vizio di nullità, non può porre in discussione l'accertamento del giudice circa la sussistenza dei presupposti relativi alla pretesa del ricorrente e comunque deve dimostrarsi il frutto della constatazione della erroneità del giudizio precedente ( Cons. St.Ad. plen., n. 2/2013).

Tuttavia, ciò potrebbe aprire alla possibilità per la P.A. di pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del «nuovo» provvedimento fatti o elementi «nuovi» (in quanto non precedentemente esaminati), vanificando in tal modo l'effettività della tutela giurisdizionale.

Tra le contrapposte esigenze di garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e della portata cogente del giudicato, il punto di equilibrio è stato individuato in via empirica dalla giurisprudenza, imponendo all'amministrazione — dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo — di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (Cons. St. IV, n. 1018/2014, che richiama Cons. St. V, n. 134/1999).

Tale regola può avere una limitata eccezione unicamente in relazione a rilevanti fatti sopravvenuti o che non sono stati esaminati in precedenza per motivi indipendenti dalla volontà dell'Amministrazione ovvero in relazione ad una nuova normativa (purché essa non persegua il fine di incidere sull'esercizio della funzione giurisdizionale, ché altrimenti si dovrebbe dubitare della compatibilità costituzionale della stessa). Nell'ordinamento italiano quindi, per costante elaborazione pretoria non trova riconoscimento la teoria c.d. del «one shot» (viceversa ammessa in altri ordinamenti e che prevede che l'amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all'accoglimento della istanza del privato), ma vige il principio che accorda alla P.A. duechances: al diniego di atto ampliativo vittoriosamente gravato in sede giurisdizionale, non consegue sempre e comunque l'obbligo per l'Amministrazione rimasta soccombente di rilasciare il titolo ampliativo medesimo, potendo essa, quantomeno in sede di prima riedizione del potere, evidenziare ulteriori elementi preclusivi (una sola volta, però con la conseguenza che eventuali ulteriori dinieghi sono affetti dal vizio della nullità per violazione del giudicato).

L' art. 21-septies della l. n. 241/1990equipara gli atti elusivi agli atti adottati in violazione del giudicato, superando quindi la contrapposizione tra i due concetti e le difficoltà di distinzione (Villata-Ramajoli, 372).

Mentre la violazione del giudicato ricorre quando il nuovo atto emanato dalla P.A. riproduce i medesimi vizi già in tale sede censurati, o comunque si pone in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla pregressa statuizione del giudice, l'elusione sussiste nei casi in cui l'amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione ai precetti rivenienti dal giudicato, tende in realtà a perseguire l'obiettivo di aggirarli sul piano sostanziale, in modo da pervenire surrettiziamente al medesimo esito già ritenuto illegittimo; il vizio de quo sussiste, quindi, laddove l'Amministrazione, piuttosto che riesercitare la propria potestà discrezionale in conclamato contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo, cerca di realizzare il medesimo risultato con un'azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l'esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa, in palese carenza dei presupposti che la giustificano (Cons. St. V, n. 2348/2012).

Il nuovo art. 21-septies, oltre a prevedere la nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato, sanciva nel secondo comma che le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato erano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, confermando così che si tratta di una nullità speciale, di cui è difficile immaginare possano avvalersi parti diverse da quelle cui il giudicato si riferisce (Falcon, 145).

Il comma 2 è stato ora abrogato e l' art. 133, comma 1, lett. a) n. 5), del Codice del processo amministrativo riproduce la disposizione e devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di «nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato».

È stato fatto notare che l'attrazione della violazione e dell'elusione del giudicato nell'area della giurisdizione esclusiva, senza l'ulteriore precisazione dell'estensione della cognizione anche al merito dell'azione amministrativa, potrebbe far pensare che si sia voluto accentuare la natura cognitoria di questa fase processuale a scapito di quella tipicamente esecutiva che trova nel vaglio del merito dell'azione amministrativa uno strumento molto efficace per la tutela delle posizioni contrapposte (Aiello).

Tuttavia, appare ragionevole ritenere che il legislatore non abbia determinato una deminutio per la tutela del cittadino e che quindi la disposizione, pur non coordinata con la disciplina del giudizio di ottemperanza, non abbia in alcun modo scalfito i poteri anche di merito che il giudice amministrativo ha in tale sede (Montedoro).

La giurisdizione esclusiva è in questi casi la prosecuzione di quella già attribuita allo stesso giudice in materia di giudicato, ragion per cui l'esplicita previsione della nullità del provvedimento serve solo a sottolineare che la sua adozione lascia inalterato il potere del giudice amministrativo di potersi pronunziare anche nel merito, una volta riscontrata tale forma di invalidità che inficia il provvedimento dell'amministrazione (Varrone).

Tale conclusione è confermata dall' art. 114 del Codice del processo amministrativo, che include tra i poteri del giudice dell'ottemperanza quello di dichiarare nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato e conferma che la previsione della giurisdizione esclusiva non ha in alcun modo inciso sull'estensione al merito della giurisdizione che il g.a. esercita in sede di ottemperanza (Mari).

Va anche segnalato che, per l'ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, lo stesso art. 114 del Codice prevede che il giudice debba considerare inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione.

L'utilizzo del termine «inefficaci» per gli atti emessi in violazione o elusione della sentenza esecutiva, in luogo del termine «nulli» utilizzato in relazione al giudicato, si giustifica proprio con il diverso grado di stabilità della sentenza (Chieppa, 2010).

L'ottemperanza di sentenze esecutive, ma non passate in giudicato può, infatti, comportare qualche problema legato alla necessità di non determinare, in sede di esecuzione, effetti irreversibili, che potrebbero poi essere travolti da un diverso esito del giudizio. Il giudice deve allora tenere conto «degli effetti che ne derivano», proprio per evitare effetti irreversibili o comunque regolare tale situazione.

Segue. Il vizio del contrasto con il diritto dell'Unione Europea (rinvio)

Si rinvia al commento all'art. 29.

Atto nullo e tutela del privato

Una delle questioni ancora poco esplorate dalla giurisprudenza è quella della tutela del privato nei confronti dell'atto nullo; con ciò non si fa riferimento solo all'ipotesdi del privato che ha interesse a far accertare la nullità dell'atto, ma anche a quella del privato che è beneficiario di un atto nullo a lui favorevole e ha interesse a non subire l'incertezza di aver ricevuto il c.d. bene della vita con un atto nullo, il cui vizio può essere accertato anche a maggiore distanza di tempo rispetto all'atto annullabile.

Segue. Nullità del provvedimento e riparto di giurisdizione

La previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo per una ipotesi di nullità dell'atto amministrativo (elusione o violazione del giudicato) pone il problema del riparto di giurisdizione in presenza degli altri casi di nullità del provvedimento.

È stato sostenuto che la giurisdizione non può mutare a seconda della invalidità che viene denunziata, in quanto essa si determina sulla base della situazione soggettiva conformata dal provvedimento amministrativo; il baricentro è costituito dalla situazione soggettiva che viene in rilievo ai fini della individuazione della giurisdizione del giudice amministrativo (Varrone).

Va quindi respinta l'affermazione che esista una sorta di «giudice naturale» della nullità (per lo più identificato con il giudice ordinario). Al contrario, in questa stessa prospettiva, la soluzione più convincente è che la giurisdizione si determini in ragione delle situazioni giuridiche soggettive, rispetto alle quali l'azione di nullità è destinata ad operare in termini di certezza. Se tali situazioni sono diritti soggettivi, l'azione andrà quindi proposta davanti al giudice ordinario, mentre andrà proposta davanti al giudice amministrativo se la situazione giuridica soggettiva di base è qualificabile come interesse legittimo, ovvero se si versa in una materia oggetto di giurisdizione esclusiva (Romano Tassone;Cons. St. VI, n. 1247/2010).

In presenza di interessi pretensivi e quindi di soli interessi legittimi non può che sussistere la generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, in quanto un determinato comportamento della amministrazione (viziato gravemente, perché l'atto è nullo) non è comunque in grado di produrre da solo, l'effetto ampliativo facendo sorgere ex novo una situazione di diritto prima inesistente (D'Orsogna, 369; Cerulli Irelli, 2005, 237; in questo senso anche Cass., S.U., n. 8046/2018, che ha affermato che la domanda di accertamento della nullità o inefficacia di un atto di cessione di aree all'ente comunale rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo allorquando faccia parte di un procedimento amministrativo volto al rilascio di un provvedimento di tipo ampliativo in materia edilizia). 

Risulta, pertanto, minoritaria la tesi che trae dall'espressa attribuzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per i provvedimenti nulli per violazione o elusione del giudicato il corollario che negli altri casi la regola di riparto sarebbe la cognizione degli atti nulli da parte del giudice ordinario (Lamorgese).

Inoltre, la dottrina ha posto in risalto che la giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo si ha tanto se agisce in giudizio il titolare di un interesse pretensivo, che si ritenga leso dal provvedimento di diniego adottato nei suoi confronti, sia quando la lesione viene lamentata da chi si duole del provvedimento positivo a favore del controinteressato. In entrambi i casi il conflitto intersoggettivo scaturisce dal provvedimento adottato dall'amministrazione: se tale provvedimento è di contenuto negativo, il conflitto è tra P.A. e titolare dell'interesse pretensivo, mentre se è favorevole a costui, vede su posizioni contrapposte non P.A. e destinatario del provvedimento, come nel primo caso, ma il ricorrente da un lato e le altre due parti, sia quella pubblica, che quella privata, dall'altro. Le situazioni soggettive che vengono all'esame del giudice amministrativo sono perciò la proiezione e solo la proiezione di quelle che sono state oggetto di esame in sede amministrativa. Se in questa sede la posizione del destinatario del provvedimento è di natura pretensiva, il controllo giurisdizionale sul provvedimento amministrativo che ha proceduto alla sua conformazione spetta sempre al giudice amministrativo, a prescindere da chi ha proposto il ricorso e dal vizio dedotto (nullità o annullabilità) (Varrone).

Sussiste invece la giurisdizione del giudice ordinario, ad eccezione delle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in ipotesi di interessi oppositivi, aggrediti da un atto nullo e quindi inidoneo a produrre l'effetto degradatorio sul diritto soggettivo (Chieppa, 2005); nelle materie di giurisdizione esclusiva, resterebbero esclusi da tale giurisdizione solo i comportamenti di mero fatto o esecutivi di provvedimenti radicalmente nulli per carenza di potere in astratto (Maddalena, 585).

Appartiene anche alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la legittimità di deliberazioni comunali recanti la dichiarazione di nullità, resa in sede di autotutela, della precedente deliberazione di giunta e delle determinazioni dirigenziali poste a base di contratti per operazioni su strumenti finanziari stipulati in base a trattativa privata da un comune con una banca, in quanto tale declaratoria di nullità, con cui l'amministrazione unilateralmente afferma la radicale inidoneità dei medesimi atti a produrre effetti vincolanti, al contrario di quanto accade per l'annullamento in autotutela, non costituisce esercizio di poteri autoritativi, né di poteri discrezionali di apprezzamento del pubblico interesse, e deve perciò misurarsi con gli eventuali diritti soggettivi che i terzi possano aver al riguardo acquisito, trattandosi, nella specie, di accertare se sia o meno intrinsecamente nulla una manifestazione di volontà negoziale, ovvero se da essa sia o meno scaturito un rapporto contrattuale impegnativo per le parti ( Cass.S.U., n. 12110/2013).

È stato anche evidenziato che l'individuazione del giudice competente a conoscere della nullità del provvedimento amministrativo obbliga a uno sforzo interpretativo più ampio della mera sussunzione in una delle due possibili alternative «secche» e impone l'utilizzazione di questa categoria, e della corrispondente tecnica di tutela, da parte di entrambi i giudici. Questa soluzione, che propone di acquisire a ciascuno dei due ambiti di giurisdizione la possibilità di conoscere della nullità dell'atto amministrativo, può restituire continuità alle due giurisdizioni e risulta tra l'altro la più coerente con la formulazione dell'art. 21-septies che, se non prende posizione sul giudice competente a conoscere della nullità, nondimeno stabilisce espressamente che vi è un'unica ipotesi nella quale deve ritenersi riconosciuta o attribuita una giurisdizione esclusiva (Chirulli).

In realtà, i maggiori contrasti tra la giurisprudenza civile e quella amministrativa si sono registrati in materia espropriativa, con riguardo alle fattispecie della mancata o incompleta indicazione dei termini di inizio o fine lavori, di scadenza del termine di inizio delle opere e del decreto di espropriazione adottato fuori termine.

Il contrasto, che sembrava riproporre il dibattito sulla questione carenza di potere in astratto/carenza di potere in concreto descritta in precedenza, è oggi in gran parte venuto meno a seguito del riconoscimento della giurisdizione amministrativa nelle ipotesi di mancata fissazione dei termini (Cass.S.U., n. 2765/2008, che ha affermato che la giurisdizione ordinaria è invocabile soltanto quando l'amministrazione espropriante abbia agito nell'assoluto difetto di una potestà ablativa, intesa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto).

Anche per il caso del decreto di espropriazione adottato fuori termine, è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto dopo una valida dichiarazione di pubblica utilità e una tempestiva occupazione, il decreto di espropriazione adottato, benché a dichiarazione di pubblica utilità ormai scaduta, non risulta certo adottato in carenza di potere e quindi «viziato da difetto assoluto di attribuzione», secondo la definizione che del provvedimento nullo di cui all' art. 21-septies della l. n. 241/1990, ma è solamente annullabile (Cass.S.U., n. 11002/2009).

Segue. L'azione di nullità nel Codice del processo amministrativo: legittimazione, termini e poteri del giudice

La distinzione, ai fini del riparto di giurisdizione, tra atti nulli adottati in relazione a situazioni di interesse legittimo e atti nulli aventi la (sola) pretesa di incidere su diritti soggettivi comporta la necessità di alcune precisazioni in ordine alla questione delle modalità e dei termini per far valere la nullità dell'atto.

Deve essere escluso che se il provvedimento nullo incide su un interesse legittimo, valga la regola generale per cui gli atti amministrativi vanno impugnati nel termine di decadenza, previsto per l'azione di annullamento, anche ove si intenda farne valere la nullità (Chieppa-Giovagnoli, 613).

Appare evidente come non sia ragionevole l'estensione del termine decadenziale ad un provvedimento che ab origine è improduttivo di effetti, non ponendosi in alcun il problema della stabilità dell'atto, per l'intrinseca ed originaria inefficacia dello stesso.

Non operando il termine breve di decadenza, in precedenza si riteneva applicabile la regola generale della imprescrittibilità, anche se va ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha fino ad oggi ritenuto che l'actio iudicati non sia imprescrittibile, come potrebbe far ritenere la sussistenza di un vizio di nullità, ma che vada comunque proposta nel termine decennale di prescrizione ordinaria (Cons. St. VI, n. 59/1992).

Non sussistono ostacoli alla rilevabilità d'ufficio da parte del giudice del vizio di nullità dell'atto, a condizione che si tratti di questione di cui il giudice sia comunque investito per effetto della domanda di una parte (Cons. St. IV, 6 novembre 1996 n. 1190).

Ci si è chiesti (Caringella, 1469) se sia estensibile al giudizio amministrativo l'insegnamento della Cassazione secondo cui la nullità può essere rilevata d'ufficio solo in caso di giudizio instaurato a seguito di domanda di esecuzione di un contratto e non già in caso di richiesta di annullamento; e ciò al fine di non attribuire all'attore, in violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, un'utilità (declaratoria di nullità invece della sentenza di annullamento), superiore a quella rivendicata (in giurisprudenza v. Cass. II, n. 2398/1988; Cass. n. 123/2000 e Cass. n. 13628/2001).

Si è al riguardo rilevato che tale principio non avrebbe senso in una giurisdizione di legittimità nella quale, di regola, si agisce proprio per l'annullamento e nella quale, proprio a seguito della novella, può non essere chiaro fino in fondo, al ricorrente che agisce, se il vizio lamentato sia ascrivibile alla nullità o alla annullabilità (De Felice). Tale ultimo orientamento appare in ogni caso superato da Cass.S.U.,n. 26242/2014e Cass.S.U., 25243/2014, che affermano, con riguardo a tutte le azioni di impugnativa negoziale, la rilevabilità d'ufficio della nullità (a prescindere dalla domanda introdotta) senza distinzioni tra azioni di risoluzione e azioni cd. demolitore del vincolo contrattuale, concludendo che “[o]gni ipotesi di limitazione posta alla rilevabilità officiosa della nullità deve, pertanto, essere definitivamente espunta dall'attuale sistema processuale”. Prima dell'entrata in vigore dell'art. 21-septies era stato precisato che la nullità in senso tecnico, intesa come «illegittimità forte», risponde alla esigenza di tutela della legalità, con spostamento della garanzia dal polo privatistico a quello pubblicistico, nei casi in cui il provvedimento non conforme a legge favorisce il singolo, attribuendogli utilità che non gli spettano e lede, con effetti continuativi, principalmente interessi pubblici, con la conseguenza che, stante tale situazione, la qualificazione di illegittimità, sia per la presumibile mancanza di soggetti legittimati alla impugnazione sia per l'improbabile esercizio da parte dell'amministrazione dei poteri di autotutela, non sarebbe idonea alla tutela della legalità. Ne consegue che tale nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed anche essere rilevata di ufficio dal giudice ( ex art. 1421 c.c.), in quest'ultima ipotesi solo se sia in contestazione l'applicazione e l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda, stante il divieto di pronunce ultra petita ( Cons. St.Ad. plen.n. 2/1992; Cons. St. IV, n. 1190/1996)

Successivamente il G.A. si è espresso nel senso della obbligatorietà per il giudice di procedere alla rilevazione d'ufficio del vizio di nullità. Infatti, al pari di ogni altra rilevabilità ope iudicis (per esempio quella dell'incompetenza) costituisce una potestà (c.d. potere-dovere), il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, come corollario del ruolo di imparziale garante dell'esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato. A ciò consegue che il giudice che rilevi una nullità – e, quantomeno, nei casi di c.d. nullità testuale, ossia espressamente comminata dalla legge che vi riconnetta il potere di rilievo giudiziale ufficioso – è sempre tenuto a dichiararla d'ufficio, statuendo in conformità. Né vi può essere luogo ad alcun temperamento tra l' art. 31, comma 4, c.p.a. – nonché, dalla stessa parte, tra le singole norme che testualmente comminano, in modo espresso, una nullità rilevabile d'ufficio – e, dall'altra parte, il c.d. principio della domanda (o dell'interesse della parte istante) che, nel processo civile, ha costituito un limite interpretativo alla generale applicazione del principio della rilevabilità d'ufficio della nullità (C.G.A.R. Sicilia, n. 721/2012 e Cons. St., IV, n. 52/2015).

Verificato che in diversi casi la nullità del provvedimento può essere fatta valere davanti al giudice amministrativo, ci si era chiesti se sia ammissibile, davanti al giudice amministrativo, un'azione dichiarativa della nullità.

È stato già evidenziato che l'atto nullo, pur essendo improduttivo di effetti, può essere in concreto stato portato ad esecuzione, sussistendo quindi l'interesse per gli interessati a farne dichiarare la nullità (Villata-Ramajoli, 349).

Certamente la nullità dell'atto può, anzi deve, essere accertata dal giudice amministrativo nelle controversie devolute alla sua giurisdizione.

La forma della pronuncia può essere quella sentenza di accertamento dichiarativa della nullità dell'atto e l'impostazione più tradizionale del giudizio amministrativo, favorevole ad una pronuncia di inammissibilità per difetto di interesse ad impugnare un atto nullo, è ora esclusa dall' art. 31, comma 4, del Codice del processo amministrativo (su cui v. oltre).

Era stato fatto notare che la decisione di inammissibilità per carenza di interesse, da una parte esclude la possibilità di un accertamento in via principale della nullità dell'atto, ma dall'altra finisce per soddisfare l'interessato, attribuendo all'accertamento incidentale la forza del giudicato, da «spendere» nei confronti dell'amministrazione, la quale non può più assumere quell'atto a fondamento della propria azione successiva. Questo singolare orientamento del giudice amministrativo, nel quale si attribuisce sostanzialmente valore di «pronuncia principale» alle statuizioni formalmente incidentali, manifesta un utilizzo «atipico» della sentenza di inammissibilità, la quale maschera assai da vicino una sentenza di accertamento (Luciani, secondo cui, come ogni sentenza dichiarativa dell'obbligo di provvedere, anche quella che abbia accertato la nullità dell'atto — come presupposto per la statuizione — vincola l'amministrazione in ordine ai futuri assetti del rapporto giuridico con la parte privata, conformandone i contenuti dell'attività secondo la direzione accertata dal giudicato). Già in passato era stato affermato il superamento dell'annoso problema relativo alla non proponibilità di azioni dichiarative davanti al giudice amministrativo, che stava progressivamente perdendo la veste di giudice di puro annullamento, assumendo il ruolo di «giudice naturale» di interessi legittimi che sembrano richiedere una tutela non più esclusivamente costitutiva (Romano Tassone).

È interessante notare come su di un piano generale l'ammissione di un'azione di accertamento anche rispetto all'interesse legittimo venga da più parti sostenuta sulla base dei principi di effettività, e soprattutto atipicità, della tutela, valevoli anche per il processo amministrativo. In tale contesto, poi, proprio il giudizio riguardante la nullità del provvedimento ai sensi dell' art. 21-septies l. n. 241/1990 ha portato a ritenere ormai superato il tradizionale orientamento che negava l'ammissibilità dell'azione di accertamento a tutela di interessi legittimi (Tropea).

L'ammissibilità dell'azione di accertamento relativa a interessi legittimi è già stata riconosciuta da Cons. St. n. 717/2009).

Tuttavia, è stato anche evidenziato che l'azione di nullità non può risolversi sul piano processuale in una pronuncia meramente dichiarativa; la stessa pronuncia deve rappresentare anche un accertamento costitutivo sull'assetto di interessi a venire, idoneo (appunto in senso costitutivo) a impedire modifiche non giustificate dall'ordinamento, ma soprattutto a rimuovere le modificazioni «atipiche» già intervenute, nonostante la nullità del provvedimento amministrativo (T.A.R. Puglia (Bari) III, n. 4581/2005, che ha ammesso che, di fronte alla proposizione di un'azione di nullità, lo stesso giudice — accanto all'accertamento — può «emettere una statuizione di annullamento», venendo incontro all'esigenza che «l'atto venga eliminato anche sul piano formale»).

Nel Codice del processo amministrativo non è stata accolta la proposta della Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato di inserire un articolo sull'azione di accertamento ed è stata codificata la sola azione di nullità, assoggettata a termine di decadenza di 180 giorni, con un comma inspiegabilmente inserito nell'articolo dell'azione avverso il silenzio (art. 31, comma 4, che precisa che il termine di decadenza di centottanta giorni non si applica al vizio di nullità della violazione o elusione del giudicato).

Tale nullità non può inoltre essere rilevata d'ufficio dal giudice, come chiarito da Cons. St. VI, n. 4267/2014).

Il Codice prevede, dunque, che la domanda volta all'accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni, aggiungendo tuttavia che la nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice.

Quindi, se il privato ricorrente chiede l'accertamento della nullità di un atto deve rispettare il termine di decadenza di centottanta giorni, ma se l'accertamento della nullità viene chiesto dalla parte resistente (che in genere è l'amministrazione) tale limite temporale non si applica, come non si applica se il giudice rileva d'ufficio la nullità.

Il sistema non è chiaro e non sembra essere simmetrico: l'atto nullo è inefficace di diritto, ma in questo caso l'invalidità non può essere fatta valere da chi ha interesse a contestare l'atto, decorsi 180 giorni; tuttavia se la stessa nullità viene invocata — ad esempio — dall'amministrazione per sottrarsi dall'applicazione di un atto nullo favorevole ad un privato, non vi è alcun termine di decadenza per far valere il vizio. Si tratta di un regime che, in relazione a particolari controversie, potrebbe porre anche problemi di costituzionalità, laddove emergesse una disparità tra amministrazione e privato nel far valere o non valere la nullità di un provvedimento (Chieppa — Giovagnoli, 2016, 613).

Va anche rilevato che il termine «nullità previste dalla legge» non è preciso e sembra riferirsi anche a nullità diverse da quelle provvedimentali, che possono essere conosciute dal giudice amministrativo nelle materie di giurisdizione esclusiva.

Ancora più oscura è la compatibilità della rilevabilità d'ufficio della nullità con il termine di decadenza: il ricorrente non può chiedere l'accertamento della nullità di un atto decorso il termine di decadenza, ma se riesce a introdurre altra controversia che coinvolge l'atto nullo, può sperare che il giudice rilevi la nullità d'ufficio (da tale disciplina è stato tenuto fuori il vizio di nullità per elusione o violazione del giudicato, per il quale resta ferma la disciplina dell'ottemperanza e, quindi, il termine di prescrizione decennale dell'azione di esecuzione del giudicato).

Il Codice non incide sulla categoria sostanziale della nullità del provvedimento amministrativo, che resta disciplinata dall' art. 21-septies della l. n. 241/1990, ma crea un regime processuale che rischia di fare della nullità una super-annullabilità di incerti contorni, introducendo un termine di decadenza di 180 giorni, che assomiglia di più al termine di decadenza per l'azione di annullamento, che non ai tre anni previsti per l'azione di nullità delle delibere societarie dall' art. 2379 c.c. (Chieppa-Giovagnoli, 613).

L'assoggettamento a termini di decadenza della contestazione di provvedimenti nulli incidenti su diritti soggettivi (nelle ipotesi in cui sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) potrebbe porre problemi di costituzionalità e sarebbe, quindi, preferibile ritenere che l'azione di nullità abbia termini di proposizione variabili in ragione della dimensione temporale di azionabilità dell'interesse cui essa è asservita (Romano Tassone, secondo cui vale il termine decennale di prescrizione dell'actio iudicati per l'azione di nullità per violazione del giudicato; si applicano i termini del diritto fatto valere in caso di azione di nullità posta a garanzia di diritti soggettivi; mentre per l'azione inerente interessi legittimi, la soluzione è più problematica e dipende dall'individuazione dei termini entro cui il privato può agire per la tutela dell'interesse materiale di base, che per l'atto nullo incidente su interessi pretensivi viene individuato nel de corso di un anno dalla formazione del silenzio-inadempimento, previsto dall' art. 2 l. n. 241/1990).

La previsione di un termine per far valere la nullità di un provvedimento amministrativo è coerente con quella dottrina che aveva in precedenza ipotizzato che il legislatore potesse decidere che oltre un certo limite temporale fosse preferibile consolidare l'essere anziché ripristinare il dover essere; fosse preferibile cioè puntare alla stabilità dell'azione amministrativa (ancorché nulla) ed all'effettività dei risultati da essa comunque prodotti; la fissazione di un termine per l'esercizio dell'azione di nullità dell'atto amministrativo era stato ritenuto coerente con quanto avvenuto in materia di delibere societarie ( art. 2379 ss. c.c.), dove è stabilito che, oltre un certo termine (tre anni), la nullità non può più essere fatta valere dagli interessati, salva la possibilità di questi di agire in sede risarcitoria, che nel caso di provvedimento amministrativo nullo non incontrerebbe i limiti derivanti dalla c.d. pregiudiziale amministrativa (Luciani).

Secondo alcuni l'art. 31, comma 4 non tocca i profili di ordine sostanziale del regime della nullità del provvedimento amministrativo. Esso si limita ai profili processuali, e su questo versante riguarda i soli casi in cui la questione di nullità concerna la tutela di interessi legittimi, investendo l'atto amministrativo in sé. In questo limitato ambito l'apposizione di un termine decadenziale per l'esperimento dell'azione pare giustificabile tanto più che la previsione relativa alla opponibilità e alla rilevabilità di ufficio da parte del giudice in ogni tempo assicura adeguata copertura rispetto a pretese fondate sull'atto nullo, confermandone la generale improduttività di effetti (Corpaci, 687).

Con riguardo a tale ultimo profilo va segnalato che il superamento della c.d. pregiudizialità nel Codice del processo amministrativo e l'introduzione di una azione risarcitoria autonoma hanno risvolti limitati in presenza di danni derivanti da un provvedimento nullo, rispetto al quale non può essere imputato al danneggiato — neanche ai sensi dell' art. 1227 c.c. — la mancata tempestiva impugnazione dell'atto nullo e tenuto conto che l'eventuale termine di decadenza per l'esercizio dell'azione risarcitoria riguarda solo i provvedimenti nulli incidenti su interessi legittimi, e non anche quelli inerenti diritti soggettivi, per i quali si applica il termine di prescrizione.

Un ulteriore profilo riguarda la legittimazione all'azione di nullità: è stato evidenziato che nel diritto amministrativo appare davvero difficile rinvenire una differenza tra nullità e annullabilità sotto il profilo della legittimazione, dal momento che la legittimazione nel processo amministrativo è già ampia quanto quella massima che la giurisprudenza civile riconosce per l'azione di nullità (Ramajoli).

In favore di una maggiore legittimazione, è stata proposta la tesi per cui il regime della nullità del provvedimento amministrativo si possa porre anche a tutela dell'interesse pubblico, conformando la vocazione essenzialmente oggettiva della nullità e dei suoi caratteri nel processo amministrativo (Tropea).

Problema del tutto inesplorato è quello della tutela dei terzi che hanno fatto affidamento sugli effetti dell'atto, di cui successivamente è stata accertata la nullità: ci si chiede se l'accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo (ad esempio, permesso di costruire) possa travolgere la posizione del terzo che in buona fede ha acquistato l'immobile (Varrone, che critica al riguardo le lacune dell'art. 21-septies).

Problema diverso è quello della tutela avverso gli atti adottati dal commissarioad acta nominato in sede di ottemperanza; premesso che il nuovo termine di decadenza non riguarda gli atti nulli adottati in violazione o elusione del giudicato e che il ricorso in ottemperanza può quindi essere proposto nel termine prescrizionale (decennale) dell'actio iudicati, con le modifiche al codice del processo amministrativo, introdotte con il d.lgs. n. 195/2011, è stato previsto che le parti nei cui confronti si è formato il giudicato possono proporre, dinanzi al giudice dell'ottemperanza, reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nel termine di sessanta giorni, mentre i terzi possono contestare gli atti del commissario con un ricorso ordinario.

I poteri della P.A. sull'atto nullo

L'atto nullo è inidoneo a produrre conseguenze sul piano giuridico, in quanto, dal punto di vista dell'ordinamento, esso manca della necessaria forza causale per operare in tale realtà, vale a dire per modificare la realtà giuridica preesistente. Tale inidoneità consegue al fatto che esso manca di uno o più degli elementi la cui presenza è ritenuta dal legislatore essenziale per dare ad esso rilevanza su questo terreno (Varrone).

Di conseguenza, se il provvedimento amministrativo, anche illegittimo, è in grado di modificare, in senso positivo o negativo, l'altrui sfera giuridica, tale idoneità non assiste invece il provvedimento nullo.

Tuttavia, il provvedimento nullo può essere comunque portato ad esecuzione e ciò pone l'ulteriore problema se sia ammissibile l'esercizio degli ordinari poteri di autotutela della P.A. o la sanatoria o conversione dell'atto.

Pur desumendosi dall' art. 1423 c.c. la generale regola della inammissibilità della convalida è stato correttamente osservato che l'amministrazione, per la quale vale il principio di continuità della azione e di permanenza della medesima potestà, può rimuovere, in via postuma, i vizi dell'atto con valenza ex nunc e che deve ritenersi ammissibile la conversione, che tradizionalmente si manifesta in una operazione conservativa di tipo interpretativo-riduttivo, che modifica legalmente l'atto rispettandone lo scopo sostanziale (Villata-Ramajoli, 336; favorevole, anche Aiello, secondo cui nel giudizio amministrativo la conversione non potrà esser dichiarata d'ufficio ma potrà essere disposta in accoglimento della eccezione riconvenzionale spiegata dall'amministrazione resistente per contrastare l'azione di nullità; Caringella, 1469, ritiene possibile ipotizzare casi di nullità parziale).

Proprio la possibilità di un affidamento su un atto nullo dovrebbe costituire ragione per ritenere che l'amministrazione, pur non dovendo esercitare un vero e proprio potere di autotutela, possa essa stessa accertare la nullità dell'atto o sostituendolo con altro valido o eliminandolo anche formalmente dall'ordinamento onde evitare che si possano creare affidamenti.

Deve ritenersi che l'amministrazione abbia in ogni caso il potere di dichiarare la nullità dei propri provvedimenti, e che tale potere sia esercitabile pressoché sempre, o che, comunque, il «termine ragionevole» entro cui il potere stesso vada esercitato debba essere interpretato, nei casi di nullità, con estrema latitudine (Romano Tassone, che aggiunge che la proposizione dell'azione di nullità da parte dell'amministrazione — analogamente a quanto si ritiene per il ricorso incidentale — potrebbe addirittura esser considerata del tutto inammissibile, tranne là dove la P.A. interessata non abbia in concreto il potere di intervenire in autotutela, perché, ad esempio, il provvedimento nullo promana da altra amministrazione).

Tali conclusioni dovrebbero restare ferme anche a seguito dell'introduzione del termine di decadenza per l'azione di nullità.

Lo stesso privato destinatario di un atto nullo, a lui favorevole, potrebbe avere interesse all'accertamento della nullità al fine di evitare di restare esposto ad una azione di nullità, che travolgerebbe gli effetti in concreto derivati dall'atto nullo (si pensi sempre ad un permesso di costruire nullo e all'interesse ad avere un provvedimento valido prima di iniziare in concreto i lavori di edificazione).

Inoltre, in caso di illegittimità il destinatario del provvedimento a lui favorevole può confidare nel decorso del temine decadenziale per porsi al riparo da contestazioni di terzi, rimanendo però esposto all'eventuale esercizio del potere di autotutela della P.A. «entro un termine ragionevole», oggi comunque per gli atti ampliativi non superiore a diciotto mesi ( art. 21-nonies l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 124/2015; cfr. anche art. 2, comma 4, d.lgs. n. 222/2016, che ha individuato il dies a quo per l'annullamento d'ufficio della Scia nella data di scadenza del termine previsto dalla legge per l'esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell'amministrazione; Strazza, 76); mentre in caso di nullità, il decorso del tempo non mette in alcun modo al riparo l'interessato, potendo la nullità essere eccepita dalle parti resistenti anche oltre il termine di decadenza di centottanta giorni.

È ritenuta non convincente l'interpretazione che considera «costitutiva» l'azione avverso il provvedimento amministrativo nullo e che esclude il potere dell'amministrazione di rilevare il vizio in autotutela (Lazzara).

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