Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 76 - Modalita' della votazione

Gabriele Carlotti

Modalità della votazione

 

1. Possono essere presenti in camera di consiglio i magistrati designati per l'udienza.

2. La decisione è assunta in camera di consiglio con il voto dei soli componenti del collegio.

3. Il presidente raccoglie i voti. La decisione è presa a maggioranza di voti. Il primo a votare è il relatore, poi il secondo componente del collegio e, infine, il presidente. Nei giudizi davanti al Consiglio di Stato il primo a votare è il relatore, poi il meno anziano in ordine di ruolo, e così continuando sino al presidente.

4. Si applicano l'articolo 276, secondo, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile e l'articolo 118, quarto comma, delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile 1.

Inquadramento

La disposizione disciplina le modalità della votazione dei componenti dei collegi nei giudizi celebrati avanti al tribunale amministrativo regionale e al Consiglio di Stato. Le regole dettate dalla previsione in rassegna si applicano a ogni tipo di deliberazione, non soltanto a quella relativa alla decisione della causa.

I primi due commi recano un'importante distinzione tra magistrati (designati per l'udienza) presenti in camera di consiglio e componenti del collegio. Frequentemente infatti possono partecipare a una stessa udienza magistrati in numero sufficiente a formare più collegi decidenti. In questi casi, secondo la prassi seguita nei giudizi amministrativi, tutti i magistrati presenti in udienza possono presenziare anche alla successiva camera di consiglio, pur concorrendo essi alle deliberazioni delle sole cause assegnate al collegio giudicante del quale abbiano fatto parte. Qualora non fosse stata introdotta (o, meglio, riproposta) la distinzione normativa della quale si è dato testé conto si sarebbe potuto dubitare della legittima presenza in una stessa camera di consiglio, stante la segretezza di quest'ultima, anche dei magistrati appartenenti a differenti collegi decidenti, con il rischio conseguente dell'invalidità delle decisioni assunte (v. infra).

I due commi successivi dettano le regole sulle modalità della votazione del collegio giudicante: è indicata nel presidente (del collegio) la figura preposta alla raccolta dei voti e vengono stabiliti il principio maggioritario e l'ordine di votazione.

L'ultimo comma, in particolare, opera un rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile in materia di deliberazione e di motivazione della sentenza. Tali disposizioni, pertanto, in questo caso trovano applicazione diretta e non in quanto espressione di principi generali o nei limiti della compatibilità, secondo quanto disposto dall' art. 39 c.p.a. sul rinvio esterno.

In conseguenza di tale rinvio al codice di procedura civile, deve ritenersi che l'articolo in rassegna disponga altresì che:

- il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa;

- se intorno a una questione si prospettino più soluzioni e non si formi la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni si riducano a due, sulle quali avviene la votazione definitiva;

- una volta chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo;

- la motivazione è stesa dal relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso o affidarla ad altro magistrato del collegio;

- la scelta dell'estensore della sentenza è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che abbiano espresso voto conforme alla decisione.

Va segnalato che le regole sul contenuto, la pubblicazione e la comunicazione della sentenza, fasi conclusive del subprocedimento che conduce al perfezionamento e all'esecutività della decisione, sono contenute negli artt. 88 e 89 ai cui commenti si rinvia.

Magistrati designati per l'udienza e componenti del collegio

Si è accennato alla circostanza che i primi due commi della disposizione in commento distinguono i magistrati designati per l'udienza e i componenti del collegio. I primi costituiscono un insieme che include il secondo. In ogni caso, come analogamente stabilivano gli artt. 62 e 63, primo comma, del r.d. 17 agosto 1907, n. 642 (regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) e a quanto prevede l' art. 276, primo comma, c.p.c., la decisione è assunta con il voto dei soli componenti del singolo collegio, mentre i magistrati designati per l'udienza possono essere presenti alla camera di consiglio.

Le udienze si svolgono normalmente alla presenza di più magistrati amministrativi i quali possono essere componenti di uno o più collegi. In pratica, i magistrati designati (e quindi presenti) in udienza assistono alle discussioni di tutte le cause iscritte a ruolo e, una volta conclusa l'udienza, possono presenziare alle camere di consiglio destinate alla decisione degli affari discussi.

La possibilità di presenziare alla camera di consiglio di cause diverse da quelle della cui decisione siano investiti tuttavia non legittima i magistrati designati per l'udienza a partecipare, in qualunque modo, all'esame delle questioni né ad esprimere la loro opinione al riguardo. In ogni caso a tali magistrati non è consentito votare, atteso che tale prerogativa è riservata ai soli componenti del collegio giudicante.

Qualora l'articolo in esame non avesse disposto in tal senso, come sopra accennato, la prassi sopra descritta sarebbe risultata illegittima e avrebbe avuto ripercussioni sulla validità della votazione e, conseguentemente, della sentenza, poiché sarebbe stato violato il principio della segretezza della camera di consiglio.

Anche i magistrati designati per l'udienza che partecipino alla camera di consiglio sono ovviamente tenuti, come i componenti del collegio decidente, a rispettare il segreto d'ufficio, relativamente a tutto quanto avvenga in camera di consiglio. La violazione di tale obbligo è sanzionata anche penalmente dall' art. 326 c.p. e anche in via disciplinare.

Ed invero, la Cassazione (Cass. S.U., n. 23/1999) ha affermato che risponde disciplinarmente il magistrati che abbia rivelato che una decisione sia stata presa in maniera non unanime.

Il numero dei componenti dei collegi giudicanti è stabilito, rispettivamente, dall' art. 5 c.p.a, per i tribunali amministrativi regionali, e dall' art. 6 c.p.a., per il Consiglio di Stato (articoli ai cui commenti si rinvia). In particolare, i collegi giudicanti dei tribunali amministrativi regionali sono sempre composti da tre magistrati, mentre i collegi del Consiglio di Stato sono composti da cinque magistrati, fatta eccezione per l'Adunanza plenaria che — a seconda che sia, o no, integrata dai membri del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana — è composta da tredici o da quindici magistrati.

Il magistrato che presiede l'udienza (cioè il presidente) è componente di tutti i collegi giudicanti che si formino in occasione della stessa udienza.

Nell'originaria versione la disposizione in commento richiamava anche l' art. 114, quarto comma, disp. att. c.p.c., con la conseguenza che, se per l'udienza fossero stati chiamati magistrati in numero superiore a quello stabilito, allora del collegio, per ciascuna causa, avrebbe sempre fatto parte, oltre al relatore e al presidente, anche il magistrato più anziano (inteso come magistrato più anziano nel ruolo). La conseguenza di tale rinvio diretto all' art. 114 disp. att. c.p.c. fu un forte irrigidimento nella composizione dei collegi giudicanti, dovuto alla contemporanea e obbligatoria presenza del presidente e del magistrato più anziano. Tale previsione normativa diede luogo a significative difficoltà di carattere organizzativo specialmente nei tribunali amministrativi regionali composti da pochi magistrati, aggravando il carico di lavoro del magistrato anziano, e, soprattutto, impedì l'applicazione del principio di rotazione dei magistrati nella formazione dei collegi, stabilito dalle delibere del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, organo di autogoverno della Magistratura amministrativa. Onde superare siffatte difficoltà, il rinvio al sunnominato art. 114 disp. att. c.p.a. fu eliminato dal «secondo correttivo» al Codice e, segnatamente, dall' art. 1, comma 1, lett. i), del d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160; a seguito di tale modifica normativa, spetta ora al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa la fissazione dei criteri di composizione dei collegi.

Il collegio giudicante è un collegio perfetto e, quindi, per la sua valida costituzione e, per il suo corretto funzionamento, è indispensabile la presenza di tutti i componenti.

Le modalità delle votazioni e le conseguenze della loro eventuale violazione

Il comma 3 della disposizione in commento disciplina le modalità e l'ordine da seguire nelle votazioni dei componenti del collegio giudicante. Alle votazioni, come precisa il secondo periodo del medesimo comma 3, si applica il principio della maggioranza. Oltre a prevedere che sia il presidente a raccogliere i voti, la disposizione stabilisce l'esatto ordine di votazione: il relatore è sempre il primo a votare, il presidente vota sempre per ultimo. Trattandosi di collegi perfetti, composti da un numero dispari dei componenti, il voto del presidente non ha un valore prevalente rispetto a quelli degli altri magistrati.

La differenza tra le regole sull'ordine di votazione rispettivamente dettate dal comma 3 per i tribunali amministrativi regionali e per il Consiglio di Stato trova spiegazione nella circostanza che il collegio giudicante in appello è composto, come ricordato, da cinque persone (o più, nel caso dell'Adunanza plenaria).

Va segnalato, tuttavia, che le regole di formazione della volontà collegiale sono in concreto applicate solo quando, all'esito del dibattito in camera di consiglio, siano emerse posizioni discordanti, dal momento che, nell'ipotesi dell'unanimità, non si procede nella prassi ad alcuna votazione.

Non conoscendo il nostro ordinamento l'istituto della opinione dissenziente, la pronuncia pubblicata non conterrà alcuna traccia dell'avvenuto svolgimento di una votazione e del relativo esito, a parte gli indizi desumibili dall'eventuale diversità soggettiva tra il relatore e l'estensore del provvedimento (su cui infra); sicché, quand'anche raggiunta soltanto con l'adesione di una parte dei componenti del collegio giudicante, la decisione sarà giuridicamente attribuibile a tutti i componenti del collegio medesimo (fatte salve le regole sulla responsabilità civile dei magistrati, su cui v. infra).

L'ordine di esame delle questioni, la graduazione e l'assorbimento dei motivi

Il comma 3 della disposizione in esame è dedicato unicamente alla fase della votazione, ma non disciplina anche l'ordine di esame delle questioni da sottoporre alla votazione. Di ciò si occupa, invece, il comma 4 che rinvia espressamente agli artt. 276, secondo, quarto e quinto comma, c.p.c. e all' art. 118, quarto comma, disp. att. c.p.c.

Dal rinvio diretto operato dal comma 4 alle suddette previsioni del codice di procedura civile consegue che la disposizione in commento prevede altresì che il collegio, sotto la direzione del presidente, decida gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e, quindi, il merito della causa.

Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che, ai sensi degli artt. 276, secondo comma, c.p.c. e 76 comma 4, c.p.a., una volta che il giudice abbia deciso sulla base di una questione pregiudiziale idonea a definire l'intera controversia, non deve poi pronunciarsi anche sul merito della causa, giacché in questa parte la decisione non sarebbe idonea a divenire giudicato in senso sostanziale tra le parti, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2909 c.c. (Cons. St. V, n. 2533/2017). 

Qualora su una questione si prospettino più soluzioni e non si formi la maggioranza alla prima votazione, il presidente metterà ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi metterà ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni si riducano a due, sulle quali avverrà la votazione definitiva.

Tale metodo di deliberazione, descritto dalla legge processuale, è definito dalla dottrina «formazione artificiale della maggioranza per esclusione progressiva delle soluzioni di minoranza» (Police).

Infine, una volta chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. La motivazione è quindi stesa dal relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso o affidarla all'altro giudice, scegliendolo comunque tra i componenti il collegio che abbiano espresso voto conforme alla decisione.

Non è stato, invece, richiamato l' art. 119 disp. att. c.p.c. sulle regole di redazione della sentenza. Tale scelta del Legislatore delegato va condivisa, trattandosi di previsioni in gran parte superate dal progredire della tecnologia informatica implementata nel sistema giurisdizionale e, ormai pressoché inapplicabili ai giudizi amministrativi introdotti a decorrere dal 1° gennaio 2017, stante l'avvio, in tale data, del processo amministrativo telematico.

La ragione dell'anticipazione della decisione delle questioni pregiudiziali riposa sulla considerazione, di carattere logico-giuridico, secondo cui la definizione di dette questioni può comportare l'inutilità di affrontare il merito della controversia.

In assenza di una chiara indicazione normativa si discute da tempo, senza che il dibattito sia approdato a conclusioni definitive, su quale debba essere l'esatto ordine di esame delle varie questioni pregiudiziali (presupposti processuali, condizioni dell'azione, giurisdizione e competenza), fermo restando che la decisione di esse deve precedere quella di merito.

Va detto, però, che l'eventuale violazione dell'ordine di esame delle questioni non dà luogo a un vizio della decisione, a meno che tale violazione non si sia tradotta in una pronuncia errata o contraddittoria (ad esempio, è contraddittoria, sia pur non invalida, una pronuncia che affronti il merito della lite e poi dichiari il difetto di giurisdizione).

Occorre soggiungere, peraltro, che la giurisprudenza, all'insegna dei principi della ragionevole durata dei processi e della effettività dell'esercizio della giurisdizione, si è orientata nel senso di ritenere che il giudice non sia vincolato al rispetto di un rigoroso ordine di esame delle questioni, soprattutto quando risulti evidente che una lite possa essere definita decidendo una sola questione, ancorché logicamente posposta ad altre. In tal senso si è autorevolmente espresso il Supremo Collegio (Cass.S.U., n. 9936/2014) che, con una succinta pronuncia, ha statuito, in applicazione del principio processuale della ragione più liquida (poggiante sulle disposizioni di cui agli artt. 24 e 111 Cost., interpretati nel senso che la tutela giurisdizionale deve risultare effettiva e celere per le parti in giudizio), che possa essere esaminata, in adesione alle esigenze di celerità del giudizio e di economia processuale, una questione di merito prima di una pregiudiziale (nella specie di giurisdizione, quest'ultima ritenuta assorbita dal rigetto del profilo di merito). Sulla nozione di concetto di ragione più liquida è di recente tornata la Cassazione (Cass. VI, n. 12002/2014), precisando che il relativo principio impone un approccio interpretativo al tema dell'esame delle questioni improntato alla verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e che esso consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare, con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione — anche se logicamente subordinata — senza che sia necessario esaminare previamente le altre.

A questo indirizzo ha aderito anche la giurisprudenza amministrativa ( T.A.R. Calabria (Catanzaro), n. 455/2016; Cons. St.,Ad. plen., n. 5/2015), secondo cui, in base al principio della ragione più liquida, il giudice amministrativo può prescindere dall'analisi delle diverse eccezioni prospettate se il ricorso si manifesta infondato (in tal modo derogando alla naturale rigidità dell'ordine di esame), qualora ritenga preferibile risolvere la lite rigettando il ricorso nel merito o nel rito in base ad una ben individuata ragione più liquida, fatta salva però sussistenza della giurisdizione e della competenza.

In ogni caso, sul tema dell'ordine di esame delle questioni, va segnalato che l'opinione prevalente in giurisprudenza è quella ricostruita in Cons. St. VI, n. 5168/2014, secondo cui gli art. 76, comma 4, c.p.a. e 276, comma 2, c.p.c., il giudice procede secondo un ordine che antepone le definizione delle questioni di rito rispetto alle questioni di merito e, fra le prime, la priorità dell'accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali rispetto alle condizioni dell'azione; in questo senso, anche Cons. St.,Ad. plen., n. 9/2014.

Sulla necessità del prioritario esame delle questioni relative ai presupposti processuali è tornata di recente anche l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, con l'ordinanza n. 4/2017, ha ribadito, sia pure in termini problematici (v. infra), che — stante il rinvio operato dalla disposizione in commento all' art. 276, secondo comma, c.p.c. — di norma tutte le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito vanno esaminate prima di affrontare il merito della controversia e che ciò, a maggior ragione, vale per le eccezioni relative al difetto di giurisdizione le quali hanno precedenza su tutte le altre questioni anche processuali. Infatti, il punto di diritto relativo alla giurisdizione deve essere necessariamente definito con assoluta priorità rispetto ad ogni altra questione, in rito e nel merito, atteso che il potere del giudice adito di definire la controversia sottoposta al suo esame postula che su di essa egli sia munito della potestas iudicandi, imprescindibile presupposto processuale della sua determinazione (v. Cons. St. V, n. 5786/2013). Tale regola, ove applicata in secondo grado, dovrebbe portare a ritenere contraddittorio vagliare l'appello incidentale sul difetto di giurisdizione soltanto dopo aver giudicato fondato nel merito l'appello principale (poiché se il difetto di giurisdizione sussistesse veramente tutto l'esame del merito risulterebbe svolto, per l'appunto, da un giudice non titolato a farlo, in quanto privo di potestas iudicandi). Sennonché, come sopra accennato, l'Adunanza plenaria si è pronunciata sul tema in maniera problematica e interlocutoria (in attesa di una pronuncia al riguardo delle Sezioni unite della Corte di cassazione), avendo anche dato atto dell'esistenza di un differente orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale l'esame dell'appello incidentale, proposto dalla parte vittoriosa nel merito su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole, va effettuato solo se l'appello principale sia ritenuto fondato ( Cons. St. VI, n. 1596/2015).

La menzione, poco sopra, della sentenza della Plenaria n. 9/2014 introduce a un particolare profilo problematico del più generale tema dell'ordine di esame delle questioni. Si allude al rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale c.d. «paralizzante», ossia il ricorso incidentale volto a far valere il difetto o la sopravvenuta cessazione di una condizione dell'azione (ossia l'interesse oppure la legittimazione a ricorrere) dell'impugnativa proposta in via principale. L'acceso dibattito, che ha a lungo impegnato la dottrina e la giurisprudenza (specialmente con riferimento alle controversie in materia di affidamenti di contratti pubblici), ha acquisito anche una dimensione sovranazionale, tenuto conto di alcune pronunce rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea.

Onde ricostruire sinteticamente i più recenti sviluppi del dibattito è opportuno prendere le mosse dalla decisione dell'Adunanza plenaria del 10 novembre 2008 n. 11, con la quale si affermò che:

- nel caso in cui siano state ammesse a una gara almeno tre offerte, il giudice amministrativo può esaminare prima il ricorso incidentale, come avviene quando l'aggiudicatario abbia dedotto l'illegittimità dell'atto che abbia ammesso alla procedura il ricorrente principale; infatti in tale evenienza (cioè in conseguenza dell'accertamento di tale illegittimità) l'impresa, ricorrente principale, che abbia presentato l'offerta risultata illegittimamente ammessa e, quindi, da escludere, non può più essere annoverata tra i concorrenti alla gara e, pertanto, nemmeno può conseguire l'aggiudicazione e neppure la ripetizione della gara, poiché, pur se risultasse l'illegittimità dell'atto di ammissione della aggiudicataria, l'amministrazione — salvo l'esercizio del potere di autotutela — non potrebbe che prendere in considerazione l'offerta o le offerte presentate dalle altre imprese ammesse con atti divenuti inoppugnabili; il ricorso principale diventa dunque improcedibile per sopravvenuto difetto di legittimazione poiché proposto da impresa che non può ottenere alcuna utilità dalla ipotetica prosecuzione del giudizio;

- invece, nel caso di gara con due sole imprese ammesse, ciascuna delle quali abbia impugnato l'atto di ammissione dell'altra, il giudice, qualunque sia il ricorso che esamini per primo e ritenga fondato, è comunque tenuto ad esaminare anche l'altro, dando rilievo all'interesse strumentale di ciascuna impresa — sia essa ricorrente principale o incidentale — alla ripetizione della gara;

- ciò perché un'impresa ha interesse a ricorrere non solo quando miri ad ottenere l'aggiudicazione della gara cui abbia partecipato, ma anche quando, in quanto titolare di un interesse «strumentale», punti a conseguire l'annullamento di tutti gli atti, affinché la gara sia ripetuta con l'indizione di un ulteriore bando;

- in sintesi, per i principi della parità delle parti e di imparzialità, quando le due uniche imprese ammesse alla gara abbiano ciascuna impugnato l'atto di ammissione dell'altra, le scelte del giudice non possono avere rilievo decisivo sull'esito della lite, anche quando riguardino l'ordine di trattazione dei ricorsi; sicché il giudice non può statuire che la fondatezza del ricorso incidentale (se esaminato prima) precluda l'esame di quello principale, ovvero che la fondatezza del ricorso principale (se esaminato prima) impedisca l'esame di quello incidentale, poiché entrambe le imprese sono titolari dell'interesse minore e strumentale all'indizione di una ulteriore gara;

- pertanto, nell'ipotesi di sole due imprese ammesse alla gara, il giudice: a) può, per ragioni di economia processuale, esaminare con priorità il ricorso principale (quando la sua infondatezza comporti l'improcedibilità di quello incidentale) ovvero quello incidentale (la cui infondatezza comporti l'esame di quello principale); b) non può, in base ai principi di parità delle parti e di imparzialità, determinare una soccombenza anche parziale in conseguenza dei criteri logici che abbia seguito nell'ordine di trattazione delle questioni; c) qualunque sia il primo ricorso che esamini e ritenga fondato, deve tener conto dell'interesse strumentale di ciascuna impresa alla ripetizione della gara e deve esaminare anche l'altro quando la fondatezza di entrambi conduca all'annullamento di tutti gli atti di ammissione alla gara e, per illegittimità derivata, anche dell'aggiudicazione, col conseguente obbligo dell'amministrazione di indirne una ulteriore.

Tale articolato quadro di principi fu, però, alterato dalla sentenza dell'Adunanza plenaria 7 aprile 2011, n. 4, con la quale si affermò che:

- il ricorso incidentale, con il quale si contesti la legittimazione del ricorrente principale mediante la deduzione di censure in ordine alla ammissione di quest'ultimo alla procedura di gara, deve essere sempre esaminato prioritariamente anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l'interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura e a prescindere dal numero dei partecipanti e dai requisiti di partecipazione alla gara che si assumono violati;

- l'esigenza di tale esame prioritario discende dalla circostanza che, con il ricorso incidentale il controinteressato pone una questione pregiudiziale di rito, che, se fondata, si riflette nella preclusione dell'esame del ricorso principale per difetto di legittimazione ad agire;

- invero, nella disamina della controversia, il giudice deve sempre dare priorità alla definizione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito e, fra le prime, all'accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali rispetto alle condizioni dell'azione;

- tuttavia, la facoltà del giudice amministrativo di esaminare prioritariamente il ricorso principale per ragioni di economia processuale non deve essere negata a priori qualora sia evidente la sua infondatezza, inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità.

Tali assunti furono, a loro volta, fortemente intaccati da una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea X, 4 luglio 2013, in causa C-100/2012 (caso «Fastweb»). Con tale decisione — pronunciata nell'ambito dell'azione intrapresa da una compagnia telefonica avverso la decisione di aggiudicazione di un appalto ad un'altra impresa, la quale, a sua volta, con un ricorso incidentale, aveva chiesto al giudice amministrativo, di dichiarare inammissibile quello principale – il Giudice di Lussemburgo statuì che l' art. 1, par. 3, della dir. 89/665/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto e proposto ricorso incidentale solleva un'eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell'offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l'offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall'autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell'esame preliminare di detta eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla conformità con le suddette specifiche tecniche sia dell'offerta dell'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto, sia di quella dell'offerente che ha proposto il ricorso principale.

Tale arresto del Giudice europeo determinò un parziale revirementdell'Adunanza Plenaria che, con le sentenze 30 gennaio 2014, n. 7 e 25 febbraio 2014, n. 9, stabilì che:

- la necessità che il ricorso incidentale sia esaminato prima di quello principale, quando con esso siano state denunciate carenze oggettive dell'offerta della impresa non aggiudicataria, sussiste nel caso di proposizione, nel ricorso incidentale, di censure che colpiscono la mancata esclusione, da parte della stazione appaltante, del ricorrente principale ovvero della sua offerta, a causa dell'illegittima partecipazione dello stesso alla gara o della illegittimità della sua offerta, ma a condizione che tale situazione sia l'effetto della violazione di doveri o obblighi sanzionati a pena di inammissibilità, di decadenza, di esclusione;

- la situazione di contrasto fra la condotta dell'impresa, che partecipa alla selezione, e la «legge di gara», rilevante per stabilire la priorità dell'esame del ricorso incidentale, è quella che produce, come conseguenza ineluttabile, la non ammissione ab origine alla gara del concorrente non vincitore, ovvero l'estromissione successivamente deliberata in fasi appositamente deputate all'accertamento della regolare partecipazione del concorrente;

- di conseguenza, nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, solo il ricorso incidentale escludente — ossia che sollevi un'eccezione di carenza di legittimazione del ricorrente principale non aggiudicatario in quanto soggetto che non ha mai partecipato alla gara, o che vi ha partecipato ma è stato correttamente escluso ovvero che avrebbe dovuto essere escluso, ma non lo è stato per un errore dell'Amministrazione — deve essere esaminato prioritariamente rispetto al ricorso principale, ma tale evenienza non si verifica allorquando il ricorso incidentale censuri valutazioni e operazioni di gara svolte dall'Amministrazione nel presupposto della regolare partecipazione alla procedura del ricorrente principale; sicché va esaminato dopo il ricorso principale, se censuri valutazioni e operazioni di gara nel presupposto della regolare partecipazione del ricorrente principale;

- però il concorrente escluso ha legittimazione a ricorrere contro l'aggiudicazione disposta a favore del solo concorrente rimasto in gara, solamente quando le due offerte siano affette da vizio afferente la medesima fase procedimentale;

- devono ritenersi afferenti alla medesima fase i vizi ricompresi esclusivamente all'interno delle seguenti tre, alternative, categorie: a) tempestività della domanda ed integrità dei plichi (trattandosi in ordine cronologico e logico dei primi parametri di validazione del titolo di ammissione alla gara); b) requisiti soggettivi generali e speciali di partecipazione dell'impresa (comprensivi dei requisiti economici, finanziari, tecnici, organizzativi e di qualificazione); c) carenza di elementi essenziali dell'offerta previsti a pena di esclusione (comprensiva delle ipotesi di incertezza assoluta del contenuto dell'offerta o della sua provenienza);

- solo i vizi che afferiscono alla medesima categoria consentono, dunque, l'esame incrociato e l'eventuale accoglimento di entrambi i ricorsi (principale ed incidentale), con la consequenziale esclusione dalla gara degli unici due contendenti.

Parte della dottrina (Bertonazzi) ha fortemente criticato i principi enunciati dalla Plenaria nel 2014 lì dove negano che vi debba essere un esame prioritario del ricorso incidentale non escludente. Secondo tale dottrina sarebbe errata anche la sentenza «Fastweb» della Corte di Giustizia (peraltro, in asserito contrasto immotivato con il precedente della stessa Corte nel caso «Hackermuller» del 19 giugno 2003, in causa C-249/01) e non riuscito il tentativo della Plenaria di conciliare tale sentenza del Giudice europeo con il principio, di diritto interno, dell'esame prioritario del ricorso incidentale escludente, posto che non sussisterebbe alcuna ragione — al di fuori del carattere vincolante delle sentenze della Corte di Giustizia — per la quale il ricorso incidentale escludente debba perdere la sua attitudine paralizzante a fronte della sola, neutra e accidentale circostanza dell'identità/comunanza delle censure escludenti incrociate dedotte dai due unici concorrenti in gara.

Del tema si occupò, recependo i nuovi arresti della Plenaria, anche la Corte di cassazione le cui Sezioni Unite civili, con la pronuncia del 6 febbraio 2015, n. 2242, affermarono l'inerenza alla questione di giurisdizione, con conseguente sindacato della Corte, delle impugnazioni delle sentenze del Consiglio di Stato che — in presenza di due soli partecipanti alla procedura di gara che propongano reciprocamente censure escludenti attinenti entrambe alla medesima fase procedimentale, in violazione di quanto disposto da Corte giust. 4 luglio 2013, causa C-100/12 — dispongano l'accoglimento del ricorso incidentale senza il contemporaneo esame delle censure contenute nel ricorso principale.

Sennonché, anche tale parziale «passo indietro» del Consiglio di Stato, incentrato sulla valorizzazione della attinenza dei ricorsi alla medesima fase procedimentale, fu attinto da una pronuncia della Corte di giustizia(Grande Camera, 5 aprile 2016, in causa C-689/13, caso«Puligienica»), con la quale, oltre a «depotenziare» l'obbligo stabilito dall' art. 99, comma 3, c.p.a. (sul punto si rinvia al commento dell' art. 6 c.p.a.), fu di nuovo affrontato il tema tormentato del rapporto tra ricorso incidentale e principale nelle controversie in materia di appalti. In particolare, il Giudice europeo ha affermato al riguardo il principio secondo cui l'art. 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, deve essere interpretato sempre nel senso che esso osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l'esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l'esame prioritario del ricorso incidentale presentato dall'altro offerente.

In altre parole, se l'Adunanza plenaria n. 9/2014 aveva circoscritto l'obbligo di scrutinare entrambi i ricorsi alle sole condizioni che gli operatori rimasti in gara fossero solo due e che i vizi dedotti riguardassero la medesima fase procedimentale (c.d. «simmetria invalidante»), la Corte di Giustizia ha ribaltato tale impianto, affermando che l'obbligo del giudice di esaminare entrambe le impugnative sussiste a prescindere dal numero di imprese rimaste in gara e dalla natura dei vizi censurati.

Posto che il riferito orientamento della Corte di Giustizia ha comportato uno slittamento del giudizio amministrativo nella direzione di un processo di diritto obiettivo, il Consiglio di Stato ha tentato di arginare siffatta tendenza offrendo una particolare interpretazione dell'arresto del Giudice europeo. In particolare, questo sforzo è stato compiuto da Cons. St. III, 26 agosto 2016 n. 3708, secondo cui è necessario chiarire l'effettiva portata applicativa del principio enunciato dalla sentenza della Corte di giustizia in tema di ordine di esame dei ricorsi reciprocamente escludenti, principale e incidentale, nelle controversie relative all'aggiudicazione di appalti pubblici. Al riguardo, il Consiglio di Stato ha affermato che l'esegesi del suddetto principio, per quanto formulato in termini generali e con un lessico che non sembra ammettere eccezioni, dev'essere condotta tenendo conto della fattispecie esaminata. Deve, pertanto, escludersi che la Corte di giustizia abbia inteso prescrivere l'esame del ricorso principale anche nelle situazioni in cui dal suo accoglimento il ricorrente principale non ritrarrebbe, con assoluta certezza, alcun vantaggio, neanche in via strumentale.

In tal senso si è orientato anche Cons. St., IV, n. 4180/2016, secondo cui è da ritenersi inammissibile per difetto di legittimazione l'impugnativa dell'impresa che non abbia partecipato, ovvero sia stata legittimamente esclusa da una gara, atteso che tale impresa, per effetto dell'esclusione, è priva del titolo a partecipare alla gara e anche a contestarne gli esiti, posto che, al ricorrere di tale ipotesi, l'interesse fatto valere è di mero fatto e non differisce, dunque, da quello di un qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo a impugnare gli atti.

Va d'altronde segnalato che, dopo la sentenza «Puligienica», la Corte di giustizia è tornata sul tema dell'ordine di esame dei ricorsi, stemperando in parte i rigorosi principi in precedenza enunciati e valorizzando indirettamente l'assenza di un interesse strumentale in capo a un'impresa ricorrente (sebbene il Giudice europeo abbia motivato tale parziale revirement argomentando sulla base della diversità tra le due fattispecie in concreto esaminate). Più in dettaglio, nella sentenza della sez. VIII del 21 dicembre 2016, in causa C-355/15, caso«GesmbH», la Corte ha affermato che l' art. 1, par. 3, della direttiva 89/665/Cee del Consiglio del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell'amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l'accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell'appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l'offerente escluso e l'aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l'offerta dell'aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa.

Nella motivazione della pronuncia la Corte si è preoccupata di distinguere il caso esaminato da quello deciso con la sentenza «Fastweb» e ha rilevato come, nel caso «Fastweb», non vi era stata l'esclusione dell'offerente che invocava la legittimazione a ricorrere e che ciascuno degli offerenti aveva contestato la regolarità dell'offerta dell'altro nell'ambito di un solo e unico procedimento di ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell'appalto. Diversamente, nella vicenda «GesmbH», l'offerente aveva dapprima impugnato l'esclusione e solo successivamente aveva contestato l'irregolarità dell'offerta dell'aggiudicataria; sicché, non avendo tempestivamente impugnato l'esclusione, il ricorrente doveva essere considerato come un offerente definitivamente escluso ossia alla stregua di un soggetto che ab imis non aveva preso parte alla procedura competitiva. In tal modo, come sopra osservato, la Corte di giustizia ha attenuato l'obbligo, per i giudici degli Stati membri, di esaminare entrambi i ricorsi, principale ed incidentale, proposti dalle imprese offerenti, atteso che tale obbligo è stato escluso nel caso in cui l'offerta di parte ricorrente – e quindi non aggiudicataria – sia stata esclusa con un provvedimento consolidatosi perché non tempestivamente impugnato.

Il Consiglio di Stato si è adeguato a tale orientamento della Corte di Giustizia e vi ha dato seguito, tra le altre, con le sentenze V, 25 giugno 2018, n. 3923 e V, n. 1849/2018. Nella sentenza Cons. St. V, n. 5958/2018, si è poi distinto i casi in cui si applica la giurisprudenza «GesmbH» (secondo cui il concorrente definitivamente escluso non è legittimato a ricorrere avverso gli atti di aggiudicaziobe conclusivi della procedura) da quelli in cui si applica la giurisprudenza «Archus» (Corte di giustizia UE, 11 maggio 2017, in causa C-131/16), in base alla quale l’impresa esclusa puà impugnare anche l’aggiudicazione della gara se la stessa impresa abbia impugnato anche la sua esclusione.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è, tuttavia, in seguito tornata sul tema del rapporto tra il ricorso principale e quello incidentale, con l’ordinanza n. 6/2018, con la quale ha effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sottoponendo al Giudice di bruxelles i seguenti quesiti: «Sulla base di quanto sino ad ora osservato il Collegio formula il seguente quesito interpretativo: se l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2007, possa essere interpretato nel senso che esso consente che allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell’interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell’ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell’interesse affermato (art. 2697 c.c.), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 c.c.).».

La Corte di Giustizia UE ha rsposto alla Plenaria l’anno successivo, con la sentenza, sez. X, 5 settembre 2019, in causa C-33/18, caso «Lombardi», statuendo che: «(l)’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un ricorso principale, proposto da un offerente che abbia interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono quest’ultimo, ed inteso ad ottenere l’esclusione di un altro offerente, venga dichiarato irricevibile in applicazione delle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali disciplinanti il trattamento dei ricorsi intesi alla reciproca esclusione, quali che siano il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto e il numero di quelli che hanno presentato ricorsi».

Secondo i commentatori della sentenza, la Corte di Giustizia nel caso «Lombardi» avrebbe posto una “pietra tombale” (Cacciari), sul ricorso incidentale escludente nel contenzioso sugli appalti pubblici, precludendo in via definitiva al giudice di dichiarare inammissibile il ricorso principale per difetto di interesse, così confermando e rafforzando, in senso oggettivo, i precedenti rappresentati dai casi «Fastweb» e «Puligienica».

Una volta chiuso il lungo excursus sul rapporto tra il ricorso principale e quello incidentale nel contezioso sugli appalti e tornando al commento della disposizione in rassegna, va osservato che né essa né l' art. 276 c.p.c. chiariscono quale debba essere l'ordine di esame e di decisione delle questioni di merito, ossia di quelle relative alla fondatezza, o no, del ricorso.

L'unico motivo che, secondo un orientamento consolidato, meriterebbe sempre scrutinio prioritario è, nell'ambito delle liti rientranti nella giurisdizione di legittimità, quello con cui sia stato dedotto un vizio di incompetenza all'adozione dell'atto impugnato. In passato, siffatta soluzione trovava fondamento normativo nel secondo comma dell'ormai abrogato art. 26 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, in base al quale il giudice, qualora avesse accolto il ricorso per motivi di incompetenza, avrebbe dovuto annullare l'atto e rimettere l'affare all'autorità competente. La regola, sebbene non riprodotta nel Codice, risponde tuttavia all'esigenza logico-giuridica di scongiurare la celebrazione di giudizi aventi per oggetto un'attività amministrativa necessariamente da rinnovare (da parte dell'autorità amministrativa ritenuta competente) e, quindi, destinanti a risolversi in un inammissibile sindacato anticipato sui futuri provvedimenti dell'organo riconosciuto competente. In un certo senso, pertanto, può ritenersi che la regola in questione sia ora implicata dalla norma contenuta nell' art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a., secondo cui in nessun caso il giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati.

Tale considerazione si trova affermata in Cons. St., Ad. plen., n. 5/2015, secondo cui i poteri cui si riferisce l' art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a. sono anche quelli non esercitati dall'autorità competente. L' art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a. è, infatti, espressione del fondamentale principio costituzionale di separazione dei poteri (e di riserva di amministrazione); pertanto, in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio o valutazione tecnica si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus. Infatti, tale tipologia di vizi è talmente radicale e assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte.

In generale, in assenza di una graduazione di motivi proposta dalla parte, si ritiene che il giudice debba scrutinare le censure che, in ordine decrescente, assicurino un maggior grado di soddisfazione della pretesa fatta valere dal ricorrente. In altri termini, qualora siano state dedotte censure il cui accoglimento determinerebbe una soddisfazione soltanto parziale dell'interesse perseguito dalla parte e altre doglianze le quali, invece, laddove ritenute fondate, garantirebbero una piena e completa tutela, il giudice deve sicuramente optare per l'esame preferenziale di queste seconde, all'insegna di un effettivo esercizio della giurisdizione. A titolo di esempio, nel caso in cui – nell'esercizio di un'azione di annullamento — siano stati dedotti dalla parte più domande o più motivi di legittimità, il giudice adito dovrebbe procedere preliminarmente all'esame di quelle domande o di quei motivi che evidenziano in astratto una più radicale illegittimità del provvedimento impugnato, per passare poi, soltanto in caso di rigetto di tali censure, all'esame degli altri motivi che, pur idonei a determinare l'annullamento dell'atto gravato, lascino affiorare profili meno radicali d'illegittimità.

Il tema dell'ordine di esame delle doglianze intercetta quello, finitimo, della rilevanza da attribuire a una specifica graduazione delle censure eventualmente contenuta negli atti di parte, ossia se da una tale graduazione derivi, o no, un vincolo per il giudice. Ed invero, la graduazione delle doglianze è un ordine dato dalla parte ai vizi-motivi dedotti (o alle domande di annullamento), in funzione del proprio interesse e serve a segnalare che l'esame e l'accoglimento di alcuni motivi (o domande di annullamento) ha, per la parte, importanza prioritaria, e che i motivi (o le domande) indicati come subordinati o graduati per ultimi, hanno minore importanza e se ne chiede l'esame esclusivamente in caso di mancato accoglimento di quelli prioritari. La graduazione impedisce, pertanto, al giudice di passare all'esame dei vizi-motivi subordinati perché tale volizione equivale ad una dichiarazione di carenza di interesse alla loro coltivazione una volta accolta una o più delle preminenti doglianze. La possibilità, per la parte, di operare una graduazione del genere descritto discende dal principio di parità delle parti e dal principio dispositivo.

Secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, tale graduazione della parte non sarebbe stata mai vincolante per il giudice amministrativo al quale sarebbe sempre spettato il compito di individuare l'ordine di esame dei motivi dedotti dal ricorrente, sulla base della loro consistenza oggettiva, e del rapporto fra gli stessi esistente sul piano logico giuridico. Sennonché la questione che ha a lungo impegnato la dottrina e la giurisprudenza ha trovato un assetto maggiormente stabilizzato grazie a una recente sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Si allude alla già citata Cons. St., Ad. plen., n. 5/2015, con la quale sono stati affermati i seguenti principi: a.) nel processo amministrativo di primo grado, in mancanza di rituale graduazione dei motivi e delle domande di annullamento, il giudice amministrativo — in base al principio dispositivo e di corrispondenza fra chiesto e pronunciato — è obbligato ad esaminare tutte le censure, salvo che non ricorrano i presupposti per un assorbimento o per legge o per pregiudizialità necessaria o per ragioni di economia; b.) nel processo amministrativo di primo grado, la parte può graduare, in modo vincolante per il giudice, i motivi e le domande di annullamento, fatta eccezione per i casi di cui all' art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a., ma la graduazione non si identifica con il mero ordine di proposizione dei motivi o delle domande di annullamento e, dunque, deve essere formulata in modo esplicito.

Un altro acceso dibattito, non ancora sopito, ha riguardato il cd. «assorbimento dei motivi», figura alla quale si è poco sopra accennato.

In passato, infatti, la tesi che riconosceva al giudice il pieno potere di decidere quale fosse l'ordine di esame dei motivi dedotti consentì la formazione della prassi, che era anche una tecnica decisoria, dell'assorbimento, consistente nel decidere la lite sulla sola base di una censura (tra le plurime formulate con l'impugnativa) qualora fondata e di non esaminare conseguentemente («assorbendole», per l'appunto) le altre. Il ricorso a tale tecnica favoriva, però, le pronunce fondate sull'accoglimento di motivi recanti la denuncia di violazioni formali (ovviamente più facili da scrutinare), in assenza dunque di un effettivo esercizio della giurisdizione (sulle questioni sostanziali).

La prassi dell'assorbimento dei motivi fu, pertanto, giustamente sottoposta a critiche, poiché conduceva alla riduzione dell'effetto conformativo delle sentenze, incentivando, viepiù, i comportamenti abusivi delle amministrazioni intesi a reiterare i vizi dichiari «assorbiti» in sede di riedizione del potere.

Sotto questo profilo la dottrina (Patroni Griffi) ha messo in dubbio la stessa giustificazione teorica della tecnica dell'assorbimento, ravvisata nell'esigenza di economia dei giudizi, dal momento che il mancato esame di questioni sostanziali, in luogo di agevolare la rapida definizione delle liti finiva per dar luogo, al contrario, una proliferazione di impugnative per le medesime ragioni non approfondite in precedenti processi.

La pratica dell'assorbimento si è, però, ridimensionata con il riconoscimento della natura sostanziale e della conseguente risarcibilità dell'interesse legittimo, dalla quale è derivato, a norma dell' art. 34, comma 3, c.p.a., il riconoscimento legislativo della permanenza dell'interesse a ricorrere anche nel caso di sopravvenuta impossibilità di disporre l'annullamento dell'atto impugnato. Ha contribuito a tale ridimensionamento anche la maturata consapevolezza della necessaria effettività della giurisdizione amministrativa.

La dottrina (Travi) distingue tradizionalmente tra «assorbimento proprio» e «assorbimento improprio». Il primo si verifica quando la soluzione data a una questione renda superfluo, dal punto di vista logico, l'esame di un'altra questione, del parti dedotta; il secondo caso, invece, è il mancato esame di motivi dovuto a esigenze di economia processuale.

Il tema dell'assorbimento è stato approfonditamente esaminato dal Consiglio di Stato nella citata decisione dell'Adunanza plenaria n. 5/2015. In particolare, il Consiglio di Stato, pur avendo affermato che l'assorbimento (improprio) dei motivi deve ritenersi, in linea di principio vietato, ha nondimeno riconosciuto che il divieto conosca tre tipi di deroghe (assorbimento in senso proprio), rispettivamente, a) nel caso in cui l'assorbimento sia previsto da un'espressa disposizione di legge che lo ammetta, anche implicitamente (si pensi al caso della sentenza semplificata ex art. 74 o all'ipotesi prevista dall'art. 49, comma 2); b) quando sia giustificato da evidenti e ineludibili ragioni di ordine logico – pregiudiziale (ad esempio, quando siano fondate e accolte censure di rito oppure censure qualificate come alternative e prioritarie rispetto ad altre); c) in presenza di ragioni di economia processuale, se comunque non risulti lesa l'effettività della tutela dell'interesse legittimo e della funzione pubblica. In quest'ultima categoria rientrerebbero il rigetto della domanda sulla base della ragione più liquida (v. supra), l'assorbimento dei motivi meramente ripetitivi di altri già esaminati e respinti, il rigetto dei motivi diretti soltanto contro una delle autonome ragioni sulle quali poggi l'atto controverso.

La giurisprudenza successiva del Consiglio di Stato si è sostanzialmente allineata alle indicazioni della Plenaria, chiarendo, ad esempio, che l’assorbimento dei motivi dovrebbe essere limitato alle sentenze di accoglimento, giacché, in genere, in tal caso non si ledono gli interessi delle parti (Cons. St. III, n. 2439/2022). Analogamente si è ricordato che comporta logicamente l’assorbimento dei motivi l’accoglimento di una censura relativa al difetto di competenza (Cons. St. IV, n. 6461/2021). Si dà luogo all’assorbimento dei motivi (Cons. Stato II, n. 657/2021) anche nel caso di un provvedimento amministrativo basato su di una motivazione plurima, allorquando il giudice ritenga infondata la censura indirizzata verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso idoneo di per sé a sostenerne e comprovarne la legittimità: sulla sola base di tale rilievo, infatti, il giudice può assorbire le censure dedotte avverso gli altri capi del provvedimento, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze. Allo stesso modo, il Giudice di appello (Cons. Stato IV, n. 706/2018) ha statuito che la conferma di un capo autonomo della sentenza gravata, capace di sostenere la statuizione di annullamento del provvedimento impugnato in primo grado, consente l'assorbimento, per ragioni di economia processuale, degli ulteriori motivi di gravame.

La dottrina (Vaiano) ha apprezzato solo in parte la riferita pronuncia della Plenaria. Per un verso, infatti, si è valutato favorevolmente il superamento — in ossequio al fondamentale principio della domanda — del precedente indirizzo, ritenuto espressione di una concezione del processo amministrativo come giudizio di diritto oggettivo, secondo cui il giudice amministrativo doveva in ogni caso garantire la legalità dell'azione pubblica, con il conseguente obbligo di analizzare in via prioritaria le censure relative a vizi radicali delle funzioni sottoposte al vaglio giurisdizionale. Per altro verso, invece, la decisione è stata criticata nella parte in cui si è stabilito che, in mancanza di una graduazione esplicita delle doglianze ad opera della parte, il giudice debba seguire un ordine di trattazione dei motivi sulla base della loro consistenza oggettiva, posto che tale assunto farebbe riemergere, in modo contraddittorio, la concezione del giudice amministrativo come «co-tutore» dell'interesse pubblico nell'ambito di un processo di tipo oggettivo.

Rispetto alla riferita decisione della Plenaria n. 5/2015, della quale si è dato conto, in materia di assorbimento è anche intervenuto, di recente, l'art. 13-terdell'Allegato 2, norme di attuazione, del d.lg. 2 luglio 2010, n. 104, rubricato «criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte», introdotto dall' art. 7, comma 2, lett e), del d.l. 31 agosto 2016, n. 168. Ebbene, con tale previsione si è generalizzato un meccanismo, originariamente contenuto soltanto nell' art. 120 c.p.a., volto a dare attuazione al principio di sinteticità, enunciato in via generale dall'art. 3, comma 2, c.p.a. In base a detta disposizione, onde consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i princìpi di sinteticità e chiarezza, le parti devono redigere il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con un decreto del presidente del Consiglio di Stato (adottato il 22 dicembre 2016). Per il profilo che qui interessa, va segnalato che, a norma del comma 5 del suddetto art. 13-ter, il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. La previsione di tale obbligo del giudice bilancia la regola, fissata dal medesimo comma 5, secondo cui l'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione. Sebbene, dunque, la legge consenta al giudice di non esaminare le questioni trattate nelle pagine eccedenti i suddetti limiti, nondimeno la stessa disposizione, nell'ambito delle questioni esaminabili (perché contenute nei ridetti limiti), è precluso al giudice il ricorso alla tecnica dell'assorbimento, se non nelle tassative ipotesi di assorbimento in senso proprio individuate dalla Plenaria.

La dottrina (Nunziata) ha fortemente criticato tale soluzione normativa sotto vari profili. Innanzitutto sono state ravvisate criticità in ordine alla fonte individuata per dare attuazione al precetto normativo, cioè un decreto del presidente del Consiglio di Stato, destinato a realizzare una anomala delegazione normativa del tutto svincolata dal circuito ordinario riconducibile alla l. n. 400/1988; inoltre si è censurato il bilanciamento operato dal Legislatore tra i valori costituzionali dell'inviolabilità delle difesa e della ragionevole durata del giudizio (facendo impropriamente prevalere il secondo). Ancora, si è ritenuto che la previsione normativa non vieti in modo assoluto l'assorbimento dei motivi, posto che essa impone unicamente al giudice di esaminare le censure dedotte nel numero di pagine consentito, ma non anche di pronunciarsi su di esse; perplessità in tal senso susciterebbe anche la circostanza che l'assorbimento è favorito dalla forte promozione, da parte di molte disposizioni processuali, delle sentenze c.d. «brevi».

Va distinto dall'assorbimento l'accorpamento dei motivi che si ha quando il giudice esamina e decida contestualmente due o più doglianze che si presentino strettamente connesse (ricorre frequentemente l'accorpamento nel caso in cui, ad esempio, sia stata denunciata sotto plurimi profili il difetto di motivazione del provvedimento impugnato). Tale tecnica motivazionale e redazionale è sicuramente ammissibile, dal momento che, seppure attraverso un esame congiunto, il giudice comunque compie uno scrutinio di tutte le censure dedotte.

Le disposizioni della legge sulla responsabilità civile dei magistrati

Si è sopra accennato che, nel nostro ordinamento processuale, non trova ingresso l'istituto dell'opinione dissenziente di uno dei componenti del collegio giudicante. Una parziale eccezione a tale principio è contenuta nell' art. 131, terzo comma, c.p.c., aggiunto dall' art. 16, secondo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile dei magistrati, secondo cui dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia espresso su ciascuna delle questioni decise. Tale verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio. Si è dunque al cospetto di una dissenting opinion destinata tuttavia a rimanere segreta, a meno che essa non venga in rilievo in un giudizio successivamente instaurato da una parte soccombente per far eventualmente valere la responsabilità civile dei magistrati componenti il collegio che ebbe ad assumere la decisione ritenuta illecitamente lesiva (e al solo scopo di escludere, se del caso, la responsabilità del magistrato dissenziente).

Occorre considerare, però, che il sunnominato art. 16 della l. n. 117/1988 è stato dichiarato incostituzionale per violazione dell' art. 97 Cost. con sentenza della Corte cost. 18 gennaio 1989, n. 18. In particolare, il Giudice delle leggi ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 16, nella parte in cui disponeva che «è compilato sommario processo verbale», anziché «può, se uno dei componenti dell'organo collegiale lo richieda, essere compilato sommario processo verbale». Deve, pertanto, ritenersi che la richiesta della compilazione del processo verbale sia oggetto di una facoltà, e non un obbligo, di ogni componente del collegio.

Il dispositivo

L' art. 276, quinto comma, c.p.c., richiamato dall'articolo in commento, prevede che, dopo la chiusura della votazione, il presidente scriva e sottoscriva il dispositivo. Al riguardo va osservato che, come nel processo civile, anche nel giudizio amministrativo il dispositivo è di norma (ossia fatta eccezione per i casi di pubblicazione anticipata di esso; v. infra) un atto interno (perché non ne è prevista la pubblicazione) e modificabile qualora il collegio ritenga di doversi nuovamente riunire in camera di consiglio per rivedere la decisione già assunta al fine di un nuovo esame delle questioni controverse o quando intervenga, tra la decisione e la pubblicazione, uno ius superveniens che imponga tale revisione.

Delle eventuali plurime camere di consiglio dedicate alla decisione del ricorso si darà atto nella sentenza nella parte relativa all'indicazione del luogo e della data della decisione (in tal l'art. 88, comma 2, lett. g), c.p.a. prevede che la sentenza indichi, tra l'altro, la data in cui essa sia stata pronunciata).

Va segnalato che, nella prassi delle corti amministrative, non è sottoscritto dal presidente un distinto dispositivo per ogni causa decisa, ma viene invece annotato sul c.d. «ruolo» dell'udienza (ossia il testo stampato delle cause discusse o trattate in occasione di una udienza pubblica o di una camera di consiglio) l'esito delle singole deliberazioni relative a ciascuna controversia. Il «ruolo», così formato, assume il valore di un verbale e viene poi sottoscritto, in fine, dal presidente ed è soggetto al medesimo regime di segretezza valevole per le sentenze, prima della loro pubblicazione.

È rilevante indicare la data, o le date, delle camere di consiglio in cui la causa sia stata decisa perché da tale data (o dall'ultima di dette date) decorrerà il termine per la redazione e il deposito in segreteria (pubblicazione) della sentenza medesima. Il termine per la redazione della sentenza è fissato, in via generale, d all' art. 89, comma 1, c.p.a. in 45 giorni dalla decisione. Il predetto termine subisce delle abbreviazioni per i riti accelerati i cui termini processuali siano ridotti (come previsto, ad esempio, dagli artt. 119, comma 2, 120, comma 9, 129, comma 6, 130, comma 7, c.p.a.) o quando la causa sia decisa immediatamente in sede cautelare. Nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 120, comma 9 e 11, e 129, comma 6, c.p.a. il termine per la redazione della sentenza decorre dalla data dell'udienza pubblica (o dalla camera di consiglio) in cui il ricorso sia stato discusso.

Il dispositivo, in alcuni riti, assume anche un'autonoma rilevanza esterna e costituisce un atto diverso dalla sentenza e soggetto ad anticipata pubblicazione. In questi casi, peraltro, il dispositivo è sottoscritto dal presidente e dall'estensore. In particolare, prevedono l'anticipata pubblicazione del dispositivo a richiesta delle parti gli artt. 119, comma 5, e 120, commi 9 e 11. Tali previsioni sono funzionali (anche) alla possibilità, per la parte, di richiedere eventualmente al Consiglio di Stato la sospensione dell'esecutività del dispositivo ( art. 119, comma 6, c.p.a.).

Il Codice contempla poi un'ipotesi in cui il dispositivo è pubblicato in via anticipata a seguito di un'autonoma scelta in tal senso del giudice e, segnatamente, il caso è previsto dall' art. 130, comma 7, secondo periodo, c.p.a., quando venga decisa una causa elettorale di particolare complessità che non consenta la pubblicazione della sentenza il giorno successivo alla decisione della causa.

Una volta pubblicato, il dispositivo non è più modificabile e, pertanto, si produce il medesimo effetto di irritrattabilità della decisione che il citato art. 89, comma 2, c.p.a., collega alla sottoscrizione della sentenza. Saranno, pertanto, irrilevanti le modifiche normative intervenute dopo detta pubblicazione.

La scelta dell'estensore, la redazione e la sottoscrizione della sentenza

Il quinto comma dell' art. 276 c.p.c. prevede che, dopo la formazione del dispositivo, il relatore deve stendere la motivazione della sentenza, a meno che non sia lo stesso presidente o altro giudice a redigerla. Il comma 4 dell' art. 118 disp. att. c.p.c. stabilisce che, al ricorrere di quest'ultima ipotesi, il presidente debba scegliere l'estensore tra i componenti del collegio che abbiano espresso voto conforme alla decisione. Tale regola, la cui ratio riposa sulla necessità di evitare la redazione di motivazioni c.d. «suicide» e di rispettare l'autonomia valutativa dei singoli componenti del collegio giudicante, implica che il relatore messo in minoranza nel corso della votazione possa chiedere al presidente di essere esonerato dall'obbligo di redigere la motivazione.

Dalla sentenza può desumersi se il presidente abbia scelto di affidare la redazione della motivazione a un magistrato differente dal relatore, dal momento che saranno differenti le indicazioni nominative del magistrato relatore (contenuta nell'intestazione della sentenza) e di quello estensore (la cui sottoscrizione compare in calce alla sentenza, insieme alla sottoscrizione del presidente, allorché quest'ultimo non sia anche l'estensore). Si è dunque in presenza di un indice formale che può rivelare all'esterno il prodursi di un dissenso tra i componenti del collegio giudicante in sede di deliberazione.

Come accennato, la sentenza, a differenza del dispositivo (o, almeno, di quello non soggetto a pubblicazione anticipata), deve essere sottoscritta dal presidente e dall'estensore (art. 88, comma 2, lett. h), c.p.a.). La mancata sottoscrizione della sentenza da parte del presidente o dell'estensore (a meno che non si dia il caso, sopra ricordato, della sentenza redatta dallo stesso presidente) o di entrambi determina la nullità insanabile della pronuncia.

L'art. 88, comma 4, prevede però – riproducendo il contenuto dell'ultimo comma dell' art. 132 c.p.c. — che, se il presidente non può sottoscrivere per morte o altro impedimento, allora la sentenza è sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l'impedimento; se, invece, è l'estensore a non poter sottoscrivere la sentenza per morte o altro impedimento, è sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l'impedimento.

Bibliografia

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