Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 112 - Disposizioni generali sul giudizio di ottemperanzaDisposizioni generali sul giudizio di ottemperanza
1. I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti. 2. L'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione: a) delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato; b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo; c) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato; d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione; e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato. 3. Può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione 1. [4. Nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all'articolo 30, comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario.] 2 5. Il ricorso di cui al presente articolo può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza.
[1] Comma sostituito dall'articolo 1, comma 1, lettera cc), numero 1), del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195. [2] Comma soppresso dall'articolo 1, comma 1, lettera cc), numero 2), del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195. InquadramentoIl giudizio di ottemperanza ha costituito fino ad oggi uno degli strumenti più efficaci del processo amministrativo. Il principio costituzionale dell'effettività della tutela giurisdizionale richiede che la sentenza emanata nei confronti della parte soccombente venga portata ad esecuzione anche senza la cooperazione di quest'ultima e il giudizio di ottemperanza serve proprio a dare esecuzione alle sentenze pronunciate nei confronti della p.a., ove questa non provveda direttamente. L'ottemperanza costituisce uno strumento di coazione diretta, che consente al giudice amministrativo di dare attuazione al giudicato, anche sostituendosi all'amministrazione; in altri ordinamenti, la fase esecutiva delle pronunce del giudice nei confronti della p.a. è rimessa unicamente a strumenti di coazione indiretta, quali ad esempio il pagamento di sanzioni, ma manca uno strumento, che consente al giudice di sostituirsi all'amministrazione con l'esercizio di poteri anche di merito. Il rilievo che ha assunto il giudizio di ottemperanza contrastava però con la scarna, datata e spesso lacunosa normativa in passato vigente, che si era formata a partire dal regolamento del 1907, passando poi per il TU del consiglio di Stato del 1924 e la l. Tar del 1971. L'art. 27 del TU del Consiglio di Stato si occupava della sola ottemperanza alle sentenze del giudice ordinario, mentre lo strumento è stato poi esteso alle sentenze dello stesso giudice amministrativo. L'intervento riformatore del Codice del processo amministrativo ha, quindi, costituito l'occasione per una risistemazione di norme datate e lacunose, che tuttavia erano state fino ad oggi utilizzate in modo particolarmente efficace da parte della giurisprudenza. Il Titolo I del Libro IV è stato così dedicato al giudizio di ottemperanza, la cui disciplina è stata elaborata alla luce delle vigenti disposizioni nonché dell'elaborazione giurisprudenziale. Va rimarcato come il Libro IV sia intitolato «Ottemperanza e riti speciali» a conferma dell'autonomia del giudizio di ottemperanza rispetto ai riti cognitori di carattere speciale. In sostanza, l'inserimento nel Libro IV è stato determinato dalla specialità delle regole processuali del processo esecutivo rispetto al processo di cognizione, senza però procedere ad una assimilazione di tale processo ai riti speciali e senza alcuna introduzione di una disciplina comune di tali riti. Nella versione del Codice, approvata dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, vi era anche una disposizione, inserita nel libro I e poi eliminata dal Governo, che — nell'ambito della codificazione delle azioni — faceva espresso riferimento all'azione esecutiva. Era stata cioè seguita la classificazione tipica della dottrina processual-civilistica, secondo cui, pur nell'insufficienza di ogni criterio classificatorio, nel diritto processuale le azioni si distinguono a seconda del provvedimento che viene richiesto (della natura del provvedimento giudiziale cui l'azione tende). Mentre l'azione di cognizione fa riferimento ad un «diritto ad un provvedimento sul merito», le azioni esecutive e le azioni cautelari costituiscono strumenti di tutela giurisdizionale, che introducono processi o fasi processuali di carattere diverso, proprio perché dirette ad ottenere un provvedimento giurisdizionale di diversa natura. Era stata così inserita una norma (art. 41. Azioni esecutive), che si limitava a prevedere che «Il ricorrente può chiedere l'attuazione delle pronunce esecutive e di quelle passate in giudicato con le modalità previste dal Titolo I del Libro IV» e che «I provvedimenti emessi dal giudice amministrativo che dispongono il pagamento di somme di denaro costituiscono titolo anche per l'esecuzione nelle forme disciplinate dal Libro III del codice di procedura civile e per l'iscrizione di ipoteca» (quest'ultima disposizione è stata poi inserita nel libro IV). L'art. 112 ha chiarito che il ricorso in ottemperanza è proponibile anche per conseguire l'attuazione dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato; che è ammissibile il ricorso in ottemperanza in relazione alle decisioni rese su ricorso straordinario al Capo dello Stato e che in sede di ottemperanza può essere proposta anche la domanda di risarcimento del danno, anche in unico grado davanti al Consiglio di Stato (v. oltre anche con riferimento alle modifiche introdotte dal primo decreto correttivo). Inoltre, il ricorso in ottemperanza può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza (quindi anche dalla P.A.). Origini storiche del giudizio di ottemperanzaLe origini storiche del giudizio di ottemperanza risalgono al 1889, quando l'ottemperanza venne per la prima volta introdotta al fine di assicurare l'esecuzione delle sentenze del giudice ordinario. Il giudizio di ottemperanza per le sentenze del G.O. nasce per colmare un vuoto di tutela: al G.O. era, infatti, inibito (e, di regola, lo è tuttora) il potere di annullare o modificare l'atto amministrativo lesivo di un diritto soggettivo. L'atto poteva essere solo disapplicato. In tal caso, tuttavia, l' art. 4, comma 2, della l. n. 2248/1865 All. E stabiliva che le amministrazioni «si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso», ponendo in capo ad esse un obbligo giuridico di ottemperare al giudicato. Si trattava però di un obbligo incoercibile, perché non era accompagnato da nessuno strumento atto a garantirne l'effettiva osservanza. Nel 1889, in occasione dell'istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, si è colmato questa lacuna, introducendo, come giurisdizione di merito, il giudizio di ottemperanza, per «ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei Tribunali, che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico». La legge del 1889 non introdusse alcune forma di tutela esecutiva per la neoistituita giurisdizione amministrativa. Si pensava che la retroattività della sentenza di annullamento consentisse di prescindere dal giudizio di esecuzione. La possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza anche per le sentenze del giudice amministrativo fu il frutto di una svolta giurisprudenziale che risale agli anni venti del secolo scorso (Cons. St. IV, n. 241/1928) che estese analogicamente lo strumento all'esecuzione del giudicato amministrativo. Anche la dottrina aveva riconosciuto che la decisione del giudice amministrativo, in quanto costituisce esercizio di funzione giurisdizionale, è rivestita dell'autorità e dell'efficacia della cosa giudicata (Guicciardi, 219). Solo con la legge n. 1034/1971, il giudizio di ottemperanza riferito alle sentenze del G.A. ha avuto un riconoscimento formale sul piano legislativo (art. 37, comma 3 e 4). Oggi il Titolo I del Libro IV (artt. 112 e ss.) del Codice del processo amministrativo contiene una completa disciplina del giudizio di ottemperanza. La natura del giudizio di ottemperanzaIl giudizio di ottemperanza ha natura mista di esecuzione e di cognizione: ciò perché spesso la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita, elastica, incompleta, che spetta al giudice dell'ottemperanza completare ed esplicitare. Non a caso si è efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di merito, diretto ad arricchire, pur rimanendone condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa. Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del Giudice dell'ottemperanza dare un contenuto concreto all'obbligo della ripristinazione risolvendo i molti problemi possibili al riguardo. Non è questo, del resto, l'unico momento di cognizione del giudizio di ottemperanza: ulteriori spazi cognitori si aprono in relazione alle sopravvenienze di fatto o di diritto rispetto al giudicato e alle domande accessorie quali interessi, rivalutazione e risarcimento del danno. Sotto questo profilo, il giudizio di ottemperanza presenta senz'altro caratteristiche differenti rispetto all'esecuzione forzata disciplinata dal libro III del codice di procedura civile e connotata dall'esistenza del titolo esecutivo: come è stato bene osservato, qui la cognitio è normalmente estranea perché il titolo esecutivo pone a disposizione di chi ne è il possessore una posizione di preminenza che non soggiace più ad alcun controllo. Anche la Corte costituzionale (Corte cost. 12 dicembre 1998, n. 406) ha riconosciuto che il «il giudizio di ottemperanza, secondo l'attuale elaborazione giurisprudenziale, ricomprende una pluralità di configurazioni (in relazione alla situazione concreta, alla statuizione del giudice e alla natura dell'atto impugnato), assumendo talora (quando si tratta di sentenza di condanna al pagamento di somma di denaro esattamente quantificata e determinata nell'importo, senza che vi sia esigenza ulteriore di sostanziale contenuto cognitorio) natura di semplice giudizio esecutivo [...] e quindi qualificabile come rimedio complementare che si aggiunge al procedimento espropriativo del codice di procedura civile, rimesso alla scelta del creditore. In altri casi il giudizio di ottemperanza può essere diretto a porre in essere operazioni materiali o atti giuridici di più stretta esecuzione della sentenza; in altri ancora ha l'obiettivo di conseguire una attività provvedimentale dell'amministrazione ed anche effetti ulteriori e diversi rispetto al provvedimento originario oggetto della impugnazione; inoltre può essere utilizzato, in caso di materia attribuita alla giurisdizione amministrativa, anche in mancanza di completa individuazione del contenuto della prestazione o attività cui è tenuta l'amministrazione, laddove invece l'esecuzione forzata attribuita al giudice ordinario presuppone un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile». Il giudice amministrativo, cioè, in sede di giudizio di ottemperanza, può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l'originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera « esecuzione » ma « attuazione » in senso stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato a formazione progressiva. Ancora recentemente, la Corte Costituzionale, occupandosi della legittimità costituzionale dell' art. 91 r.d. n. 642/1907 (nella parte in cui prevede che il ricorso per ottemperanza non venga notificata ma solo comunicato al Ministero competente ad opera della segreteria del giudice adito), ha riconosciuto la natura pienamente contenziosa del giudizio di ottemperanza: occorre sgomberare il campo dalla concezione, in passato condivisa da dottrina e giurisprudenza, che riteneva il giudizio di ottemperanza come caratterizzato da sommarietà e da un tenore non pienamente contenzioso, sicché tale procedimento veniva definito «a contraddittorio attenuato». È invece oggi pacifica la sua natura di procedimento contenzioso. Il che rende imprescindibile il pieno rispetto del contraddittorio» (Corte cost. n. 441/2005). Anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 376/1999) e l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ( Cons. St. Ad. plen. , n. 7/1989) hanno ritenuto che il giudice dell'ottemperanza, in caso di sentenze del giudice amministrativo — diversamente da quanto accade in caso di sentenze rese dal giudice di un altro ordine — ha il potere di integrare il giudicato, nel quadro degli ampi poteri, tipici della giurisdizione estesa al merito (e idonei a giustificare anche l'emanazione di provvedimenti discrezionali), che in tal caso egli può esercitare ai fini dell'adeguamento della situazione al comando rimasto inevaso. I profili esecutivi del giudizio di ottemperanza concernono gli aspetti che direttamente discendono dalla sentenza e accentuano la posizione di soggezione dell'amministrazione nel processo; i profili cognitivi attengono alla possibilità del giudice dell'ottemperanza di determinare e integrare la regula iuris contenuta nella sentenza e conducono all'affermazione di un giudicato a formazione progressiva (Nigro, Giustizia , 357). Nel giudizio di ottemperanza, in altri termini, il giudice amministrativo può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi che comunque sarebbero devoluti alla sua giurisdizione. Il motivo di tale ricostruzione risiede nel fatto che la regola posta dalla sentenza amministrativa è spesso una regola elastica, che può essere completata appunto dal giudice dell'ottemperanza, cui spetta l'indicazione nel dettaglio dell'esatto contenuto dell'obbligo conformativo della p.a., anche con riguardo alla rilevanza delle sopravvenienze e di ogni altro elemento. Nella sostanza, la giurisdizione amministrativa in sede di ottemperanza ha carattere non meramente esecutivo, ma misto di cognizione e di esecuzione; ed in tale sede di ottemperanza, eventualmente anche mediante più giudizi successivi, il comando contenuto nella decisione da eseguire viene precisato e ove occorra, integrato, esaurendosi di volta in volta la relativa fase e determinandosi in tal modo una preclusione di ordine processuale sulla questione già trattata, fino al soddisfacimento dell'interesse azionato in sede ordinaria, nei limiti dell'ambito oggettivo della decisione (c.d. formazione progressiva del giudicato amministrativo). (Cons. St. IV, n. 535/1992; Cons. St. VI, n. 796/2008, secondo cui la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita e incompleta, che spetta al giudice dell'ottemperanza esplicitare o completare). È stato, quindi precisato che è pacifico che compete al giudice dell'ottemperanza, purché si tratti di provvedimenti emessi da organo decidente dello stesso ordine giurisdizionale, di integrare l'originario disposto della sentenza da eseguire con statuizioni che ne costituiscono non un mera «esecuzione», ma «attuazione» in senso stretto, dando così luogo al c.d. fenomeno giudicato a formulazione progressiva e risolvendo eventuali problemi di interpretazione e di integrazione che sarebbero comunque devoluti alla propria giurisdizione (Cons. St. V, n. 3871/2009; Cons. St. VI, n. 4563/2008, in cui si rimarca la differenza tra il giudizio di ottemperanza e l'esecuzione forzata disciplinata dal libro III del codice di procedura civile). Tale meccanismo è più o meno accentuato a seconda del grado di dettaglio della definizione dell'assetto degli interessi, contenuto nella decisione da eseguire. L'ottemperanza si atteggia alla stregua di una cognizione integrata, allorché, in presenza di una sentenza di annullamento inidonea a dettare una compiuta disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino sostitutiva dell'atto annullato, il giudizio di ottemperanza, ricorrendone i presupposti, è chiamato a completare la cognizione mediante l'individuazione del contenuto della prestazione o attività cui è tenuta l'amministrazione (Cons. St. II, n. 4800/2023). Nel corso dei lavori preparatori per l'approvazione del Codice si è a lungo discusso sull'utilizzo del termine «giudizio di ottemperanza» o del termine «giudizio di esecuzione». La scelta è alla fine caduta sul termine «giudizio di ottemperanza» e ciò è stato dovuto non solo al fatto che in tal modo si restava maggiormente legati all'importanza che tale termine ha avuto nella tradizione del processo amministrativo, ma soprattutto perché il termine «ottemperanza» meglio rappresenta un giudizio, in cui i poteri del giudice non sono limitati alla fase esecutiva, ma sono spesso estesi a profili di cognizione, peraltro ulteriormente arricchiti dal Codice (v. oltre sulla possibilità di proporre domande di risarcimento del danno). Tale scelta è, inoltre, coerente con l'orientamento tradizionale sulla questione della natura giuridica del giudizio di ottemperanza, tendente ad attribuire — come appena esposto — a tale giudizio una natura mista di cognizione e di esecuzione (o meglio, un processo necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione). Le decisioni eseguibili in sede di ottemperanzaIl nuovo Codice ha ricompresso nell'ambito dell'unica definizione di giudizio di ottemperanza l'azione per conseguire l'attuazione di diverse tipologie di decisioni, emesse nei confronti della p.a. e, in particolare di: a) sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato; b) sentenze esecutive e altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo; c) sentenze passate in giudicato, e altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato; d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione; e) lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato. Per quanto concerne le sentenze del giudice amministrativo viene mantenuta la distinzione tra giudicato e sentenze solo esecutive; al riguardo, si ricorda che l'art. 33 della l. T.A.R., nel testo modificato dall' art. 10 della legge n. 205 del 2000, aveva previsto che per l'esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato di cui all'articolo 27, primo comma, numero 4), Testo unico Consiglio di Stato. L'art. 112 stabilisce che il giudizio di ottemperanza può essere proposto avverso le sentenze del g.a. passate in giudicato. A norma dell' art. 324 c.p.c. — con enunciazione valida anche nel processo amministrativo ex art. 39 c.p.a. — si definisce passata in giudicato la sentenza avverso la quale non sono più ammessi mezzi impugnazione. L'art. 327 del medesimo codice, a sua volta, dispone che, prescindendo dall'ipotesi della notificazione alla controparte, la sentenza non può essere oggetto di impugnazione dopo che siano trascorsi sei mesi dalla pubblicazione (il termine di un anno è stato così ridotto dall' art. 46, comma 17, l. n. 69 del 18 giugno 2009) ( Cons. St.Ad. plen., n. 24/2012). Il ricorso in ottemperanza non è utilizzabile per l'esecuzione delle pronunce di rigetto, anche in mancanza di un'espressa regola che circoscriva l'ottemperanza alle sole decisioni di accoglimento (anche al solo fine di ottenere chiarimenti sulle modalità di tale ottemperanza), in quanto sono solo le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l'Amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza; viceversa, la pronunce di rigetto lasciano invariato l'assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio (Cons. St. VI, n. 1675/2013); sul punto v. anche oltre il par. « Segue. Ottemperanza e risarcimento del danno derivante da atti amministrativi posti in essere in esecuzione di pronunce del giudice, poi riformate; ottemperanza delle sentenze di rigetto». L'ottemperanza può essere utilizzata anche solo per dare attuazione ad una parte delle statuizioni della sentenza, come quelle relative alle spese o anche solo per ottenere il rimborso del contributo unificato (Cons. St. V, n. 3388/2018). Va escluso che sulle sentenze processuali o di rito possa formarsi il giudicato sostanziale, in quanto l'attitudine all'accertamento sostanziale del rapporto è propria ed esclusiva delle sentenze di merito ( Cons. St.Ad. plen., n. 4/1984). Segue. Ottemperanza, giudicato e suoi effetti.Al giudicato amministrativo è senz'altro riferibile la nozione di giudicato formale contenuta nell' art. 324 c.p.c. L' art. 324 c.p.c. disciplina la cosa giudicata formale, derivanti dai limiti dell'impugnazione delle sentenze con la conseguente incontrovertibilità-immutabilità della statuizione contenuta nella sentenza conclusiva del giudizio (Liebman, 272). La sentenza passa in giudicato quando contro di essa non siano esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione (appello, ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, revocazione nei casi previsti da nn. 4 e 5 dell' art. 395 c.p.c.). Tale stato di immodificabilità non è però assoluto, in quanto le sentenze passate in cosa giudicata formale possono essere impugnate con i mezzi di impugnazione straordinari (revocazione per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6, revocazione del pubblico ministero ex art. 397, opposizione di terzo); tuttavia, l'esperibilità di tali gravami straordinari non impedisce il passaggio in giudicato. Giudicato formale ( art. 324 c.p.c.) e giudicato sostanziale ( art. 2909 c.c.) costituiscono aspetti diversi dello stesso fenomeno: l'aspetto sostanziale riguarda la statuizione sul rapporto controverso, quello processuale consiste nell'affermazione della regola della non modificabilità della sentenza (eccezion fatta per il caso della sentenza inesistente e l'impiego dei mezzi di impugnazione straordinari) da parte dello stesso o di altro giudice, con conseguente divieto di sottoporre a nuovo giudizio la medesima controversia (ne bis in idem); il giudicato formale connota tutte le sentenze, a differenza di quello sostanziale. Si deve poi distinguere tra giudicato interno, formatosi all'interno del processo e giudicato esterno, formatosi in un altro processo (Di Marzio). Il giudicato sostanziale ( art. 2909 c.c.) — che, in quanto riflesso di quello formale ( art. 324 c.p.c.), fa stato ad ogni effetto fra le parti per l'accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto controverso — si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto, i quali rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico giuridico della pronuncia, spiegando, quindi, la sua autorità non solo nell'ambito della controversia e delle ragioni fatte valere dalle parti (c.d. giudicato esplicito), ma estendendosi necessariamente agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione, formandone il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico — giuridico della pronuncia. Pertanto, l'accertamento su un punto di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria della decisione divenuta definitiva, quando sia comune ad una causa introdotta posteriormente, preclude il riesame della questione, anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle del primo e a condizione che i due giudizi abbiano identici elementi costitutivi dell'azione (soggetti, «causa petendi», «petitum»), secondo l'interpretazione della decisione affidata al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 9685/2003). È stata evidenziata la maggiore complessità della questione concernente l'applicazione al giudicato amministrativo, sotto il duplice profilo oggettivo e soggettivo, della nozione di giudicato sostanziale, contemplata dall' art. 2909 c.c. (secondo cui l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa). La ragione di tale difficoltà trae origine dalla sostanziale differenza esistente tra sentenza civile e sentenza amministrativa, che discende dall'inserimento della decisione del giudice amministrativo in una più ampia vicenda procedimentale che precede il processo e si protrae oltre il giudizio (Daidone – Patroni Griffi, 1023; v. anche la ricostruzione di De Vita). La nozione di cosa giudicata e gli effetti del giudicato dipendono dal tipo di giurisdizione che esercita il giudice: nell'ambito della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo il principio processualcivilistico, secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, non è pienamente applicabile dal momento che nel giudizio d'impugnazione il giudicato si forma solo in relazione ai vizi dell'atto di cui è stata accertata la sussistenza (o l'insussistenza) sulla base dei motivi di censura articolati dal ricorrente, restando dunque salvi da un lato, qualora il ricorso sia stato respinto, la possibilità di una nuova impugnazione del medesimo atto ovvero di un suo annullamento in autotutela da parte della stessa Pubblica amministrazione per vizi diversi da quelli esclusi dal giudice e dall'altro, nell'opposta ipotesi di accoglimento del ricorso e annullamento dell'atto impugnato, la potestà della stessa Pubblica amministrazione di rideterminarsi col solo limite di non incorrere nei vizi già accertati in sede giudiziale (Cons. St. IV, n. 3475/2016); mentre nell'ambito della giurisdizione esclusiva, l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato sul rapporto controverso si estende, oltre che sulle questioni effettivamente proposte in giudizio (dedotto), anche su quelle deducibili in via di azione ed eccezione (deducibile; T.A.R. Sardegna, n. 102/2017). Del resto, le sentenze del giudice amministrativo possono contenere statuizioni di annullamento dell'atto, che eliminano l'atto anche erga omnes e ulteriori statuizioni che vincolano (conformano) il successivo riesercizio dell'attività amministrativa valide solo fra le parti del giudizio. Effetti erga omnes sono riconosciuti in caso di inscindibilità dell'atto o del rapporto (Cons. St. IV, 7 dicembre 2000 n. 6512; ad es., in caso di annullamento della delibera che istituisce una commissione di concorso, Cons. St. IV, n. 162/1994), di annullamento di atti normativi (Cons. St. VI, n. 6473/2010), di annullamento di provvedimenti tariffari (Cons. St. VI, n. 585/1993), mentre in presenza di atti a contenuto plurimo, ma scindibili (es., prescrizioni contenute in un piano regolatore) l'efficacia erga omnes non si verifica. Diverso è il potere discrezionale dell'amministrazione di estendere erga omnes gli effetti di un giudicato reso inter partes (Cons. St. V, n. 2820/2011 e Cons. St. V, n. 2951/2011). Segue. Ottemperanza e sentenze del giudice ordinarioViene mantenuta l'esperibilità del giudizio per conseguire l'esecuzione dei giudicati del giudice ordinario, nonché di quei giudici speciali per i quali non sia previsto il rimedio dell'esecuzione davanti ad essi (in realtà, la formula della lettera d) elaborata dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato era più chiara in tal senso, mentre quella poi approvata sembra riferire la mancata previsione del rimedio dell'ottemperanza al giudicato o al provvedimento equiparato, e non alla giurisdizione adita). A differenza di quel che accade per le sentenza del G.A., presupposto indispensabile per instaurare il giudizio di ottemperanza è che la sentenza del giudice ordinario sia passata in giudicato. In genere si ritiene che non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di revocazione e quello di ottemperanza, che peraltro è possibile sulla base dell'art. 112 anche per le sentenze non definitive emesse dal giudice amministrativo; il problema può porsi in termini diversi per il giudizio di ottemperanza per sentenze di altre giurisdizioni: in quanto caso l'art. 112 richiede il giudicato e la pendenza di un giudizio di revocazione straordinaria, che non impedisce il formarsi del giudicato, potrebbe essere ritenuto pregiudiziale rispetto al giudizio di ottemperanza. La Corte costituzionale ha ritenuto infatti che rientra nella discrezionalità del legislatore la mancata previsione di questo rimedio nei confronti delle sentenze esecutive (Corte cost. n. 122/2005 e Corte cost. n. 44/2006). In forza dell' art. 112 c.p.a., previsione già contemplata nell' art. 37, l. n. 1034 del 1971, la giurisdizione dei Tribunali Amministrativi Regionali in materia di adempimento dell'obbligo di conformarsi al giudicato per quanto riguarda le sentenze dei giudici ordinari, è limitata alle sentenze passate in giudicato e non a quelle provvisoriamente esecutive (T.A.R. Calabria (Catanzaro) II, 13 ottobre 2010, n. 2614). È ammissibile il ricorso per l'ottemperanza rispetto ad un decreto ingiuntivo, in ragione dell'assimilazione del medesimo, dichiarato esecutivo per mancata opposizione nei termini, alla sentenza passata in giudicato. Detto principio elaborato dalla giurisprudenza è ora recepito dal c.p.a. che, all'art. 112, stabilisce che l'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione anche dei provvedimenti del giudice ordinario equiparati alle sentenze passate in giudicato (T.A.R. Calabria (Catanzaro) II, 7 febbraio 2011, n. 164/2011). Nel processo amministrativo il decreto ingiuntivo non opposto, in quanto definisce la controversia al pari della sentenza passata in giudicato, essendo impugnabile solo con la revocazione o con l'opposizione di terzo nei limitati casi di cui all' art. 656 c.p.c., ha valore di cosa giudicata anche ai fini della proposizione del ricorso per l'ottemperanza previsto dagli art. 37, l. 6 dicembre 1971 n. 1034 e art. 27 n. 4 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 ed ora dell' art. 112 comma 2 lett. c), c.p.a.; ma condizione essenziale perché il ricorso per l'ottemperanza possa essere proposto anche per l'esecuzione del decreto ingiuntivo non opposto, di cui agli art. 633 e ss. c.p.c., è che lo stesso sia stato dichiarato esecutivo ai sensi dell' art. 647 c.p.c. (Cons. St. V, n. 1609/2015: Cons. St. V, n. 4987/2017, secondo cui appunto il ricorso proposto per l'ottemperanza al decreto ingiuntivo nei confronti di una P.A. deve essere dichiarato ammissibile e deve essere accolto, ove risulti che il decreto stesso sia stato reso esecutivo dal giudice, ciò integrando la fattispecie dell'art. 647, comma 1, c.p.c.). L' art. 112 c.p.a. richiede, come condizione per proporre innanzi al giudice amministrativo l'azione di ottemperanza a provvedimento giurisdizionale diverso dalla sentenza passata in giudicato, che esso sia equiparabile a quest'ultima; tale situazione non ricorre, con conseguente inammissibilità del ricorso, quando l'azione è proposta al fine di ottenere l'esecuzione dell'ordinanza emessa dal giudice ordinario e recante la condanna del soccombente al pagamento delle spese afferenti alla fase cautelare del giudizio, considerato anche che trattasi di questione la cui definizione l' art. 669-duodecies c.p.c. riserva espressamente allo stesso giudice ordinario competente per la fase cautelare (Cons. St. V, n. 7627/2010). Il giudizio di ottemperanza, ai sensi dell' art. 112, comma 2, lett. c), c.p.a., ha per oggetto le sentenze passate in giudicato e gli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrativa di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato. Si richiede pertanto un provvedimento giurisdizionale del giudice ordinario con il carattere della decisorietà e passato in giudicato, rivolto ad una pubblica amministrazione o soggetta ad essa equiparato dall'ordinamento. L'ordinanza di assegnazione del credito resa ai sensi dell' art. 553 c.p.c. nell'ambito di un processo di espropriazione presso terzi, emessa nei confronti di una pubblica amministrazione o soggetto ad essa equiparato ai sensi del c.p.a., avendo portata decisoria (dell'esistenza e ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante) e attitudine al giudicato, una volta divenuta definitiva, per decorso dei termini di impugnazione, è suscettibile di esecuzione mediante giudizio di ottemperanza ( art. 112, comma 3, lett. c), art. 7, comma 2, c.p.a.). Cons. St. Ad. plen ., n. 2/2012; stessa conclusione per l'ordinanza di assegnazione somme ex art. 530 c.p.c., emessa in forza di un decreto decisorio ex lege «Pinto» e non opposta ex art. 617 c.p.c.,: Cons. St. IV, n. 3631/2019), mentre analoga conclusione non può essere raggiunta per l'ordinanza ex art. 186 bis c.p.c., che è invece un provvedimento anticipatorio che attiene alla stessa obbligazione di base, e benché dotato di stabilità nei suoi effetti esecutivi, non è, in relazione alla predetta obbligazione, equiparabile ad un accertamento definitivo, posto che, come già anticipato non può escludersi un nuovo giudizio di cognizione vertente sulla medesima obbligazione (Cons. St. III, n. 1677/2019). Lo strumento dell'ottemperanza di sentenze del giudice ordinario presuppone sempre che vi sia la necessità di ottenere l'adempimento da parte di una pubblica amministrazione e non può essere applicato anche alle società c.d. in house; infatti, l'equiparazione dei soggetti privati alla Pubblica Amministrazione sussiste: — nelle singole ipotesi in cui sia la legge ad effettuare tale equiparazione; — nella misura in cui il soggetto privato sia preposto all'esercizio di attività amministrative ed in relazione, naturalmente, a tale attività. Nessuna norma effettua l'equiparazione in via generale tra società in house e Pubblica Amministrazione e atteso che gli atti per i quali si chiede l'ottemperanza riguardano pacificamente la gestione di incarichi e le relative conseguenze patrimoniali, rispetto alle quali non v'è dubbio che l'ente convenuto eserciti poteri e facoltà di matrice privatistici, deve essere esclusa l'esperibilità dell'azione di ottemperanza ex art. 112, comma 2, lett. c), c.p.a. nei confronti di un soggetto privato che non è in alcun modo equiparabile, per l'attività in concreto in rilievo, alla Pubblica Amministrazione (Cons. St. V, n. 502/2015). Ai sensi dell'art. 112, il giudizio di ottemperanza va ammesso in relazione a qualunque giudicato del giudice ordinario in cui sia parte una pubblica amministrazione, anche per crediti privatistici (Cons. St. Ad. plen ., n. 2/2012). La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 66, comma 2, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applichi al rilascio della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale, i quali debbano essere utilizzati per proporre l'azione di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo, in quanto tale disposizione non consente il rilascio dei provvedimenti giurisdizionali prima del pagamento della relativa imposta di registro e in tal modo preclude la possibilità di agire in sede di ottemperanza per l'attuazione delle pronunce del giudice ordinario, limitando irragionevolmente il diritto alla tutela giurisdizionale, con lesione degli artt. 3 e 24 della Costituzione (Corte cost. n. 140/2022). Segue. Ottemperanza e sentenze della Corte dei Conti.Il ricorso previsto dall'art. 27, t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 è ammissibile anche per l'esecuzione delle decisioni giurisdizionali della Corte dei conti (Cons. St. IV, n. 29/1991). La Corte dei conti difetta di competenza a conoscere della mancata esecuzione delle decisioni in materia pensionistica, in quanto l'art. 27 n. 4 del t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 riserva al Consiglio di Statola pronuncia di ottemperanza anche nei confronti delle decisioni del giudice amministrativo speciale (C. conti pens. mil., IV, 4 marzo 1994, n. 84116). Ottemperanza e lodi arbitrali.La principale novità è costituita dall'aver aggiunto la possibilità di utilizzare l'azione di ottemperanza per conseguire l'esecuzione dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. Secondo la relazione di accompagnamento, tale aggiunta è avvenuta su specifica richiesta di uno dei soggetti consultati, che va individuato nell'Associazione dei professori di diritto amministrativo. Ovviamente per l'esecuzione delle sentenze dei giudici ordinari e speciali e dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili, presupposto indispensabile è che sia stata parte del giudizio una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparato. A seguito dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, è ammissibile il ricorso per ottemperanza per l'esecuzione di un lodo arbitrale dichiarato esecutivo e divenuto inoppugnabile (Cons. St. V, n. 2542/2011). Segue. Ottemperanza delle decisioni rese sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato.Il Codice del processo amministrativo non aveva preso posizione espressa sull'ammissibilità dell'ottemperanza in relazione alle decisioni sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato, per le quali l'orientamento prevalente negava la possibilità di ottenere l'esecuzione della decisione di accoglimento nei confronti dell'amministrazione inadempiente, attraverso il giudizio amministrativo di ottemperanza. Secondo l'impostazione classica, infatti, la decisione del ricorso straordinario non è una pronuncia giurisdizionale. Il mancato rispetto di tale decisione comporta allora solo la possibilità di impugnare il provvedimento violativo/elusivo in sede giurisdizionale (in quanto viziato da eccesso di potere) o di ricorrere al rimedio del silenzio-rifiuto quando il decisum rimanga privo di qualsiasi riscontro; solo a seguito di tale ulteriore pronuncia del giudice amministrativo sarà allora possibile ricorrere al rimedio dell'ottemperanza. Il tentativo del Consiglio di Stato di superare tale vuoto di tutela, ammettendo l'esperibilità del ricorso in ottemperanza (Cons. St. IV, n. 6695/2000), si era infranto sul contrario orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che avevano annullato le decisioni del Consiglio di stato per difetto assoluto di giurisdizione ( Cass.S.U., n. 15978/2001, a cui ha aderito successivamente Cons. St. V, n. 5036/2006, anche se l'orientamento favorevole all'ammissibilità del giudizio di ottemperanza per le decisioni sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato è stato ribadito da Cons. giust. amm. Sicilia, 28 aprile 2008, n. 379). Con riguardo, all'inclusione delle menzionate decisione tra i provvedimenti che possono essere attuati in sede di ottemperanza deponeva la giurisdizionalizzazione dell'istituto, avvenuta con la stessa legge n. 69/2009. Infatti, l'art. 69 di tale legge ha completato il processo di giurisdizionalizzazione del rimedio alternativo del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, prevedendo la possibilità in tale sede di sollevare questione di costituzionalità. È inoltre modificato l' art. 14 del d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 nel senso di aver eliminato la possibilità di decidere il ricorso in difformità con il parere del Consiglio di Stato. Ciò elimina i dubbi sulla natura para-giurisdizionale, e non meramente amministrativa del rimedio. Si ricorda che in precedenza la Corte Costituzionale aveva escluso che il Consiglio di Stato, in sede di parere su un ricorso straordinario, potesse sollevare una questione di costituzionalità, ribadendo la natura amministrativa del ricorso straordinario. Secondo Corte cost. n. 254/2004, la natura amministrativa trovava conferma nel fatto che l' art. 14, primo comma, del d.P.R. n. 1199/1971 stabilisce che, ove il ministro competente intenda proporre (al Presidente della Repubblica) una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre l'affare alla deliberazione del Consiglio dei ministri, provvedimento quest'ultimo, per la natura dell'organo da cui promana, all'evidenza non giurisdizionale. Oggi tale possibilità è stata invece abrogata. Un importante passo nel senso dell'avvicinamento tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale si era avuto con la sentenza della Corte Europea di Giustizia 16 ottobre 1997 pronunciata nei procedimenti riuniti da C-69/96 a C-79/96 con cui si è riconosciuto che il Consiglio di Stato, quando emette un parere nell'ambito di un ricorso straordinario, è ‘una giurisdizione ai sensi dell'art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità europea. Con l'entrata in vigore del Codice, secondo una parte della dottrina, la tesi dell'ammissibilità del ricorso in ottemperanza trovava nuova linfa nella previsione contenuta nell'art. 112, comma 2, lett. d) che ammette l'azione di ottemperanza delle «sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione». Secondo un indirizzo interpretativo, la norma includerebbe anche le decisioni rese su ricorso straordinario trattandosi di provvedimenti equiparati alle sentenze. I dubbi sono stati definitivamente fugati dalla Cassazione che, mutando il proprio precedente orientamento, ha affermato che il giudizio di ottemperanza è ammissibile in relazione al decreto del Presidente della Regione, che abbia accolto il ricorso straordinario (Cass.S.U., n. 2065/2011). Secondo le Sezioni Unite. la decisione su ricorso straordinario è un provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, risulta suscettibile di tutela mediante il giudizio d'ottemperanza. In tema di ricorsi amministrativi, l'evoluzione del sistema normativo — di cui sono indici significativi, da un lato, l' art. 69 l. 18 giugno 2009 n. 69, laddove prevede l'incidente di costituzionalità da parte del Consiglio di Stato chiamato ad esprimere il parere sul ricorso straordinario ed abolisce la facoltà del Ministro di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato, e, dall'altro lato, l' art. 112 c.p.a., che, alla lettera b, prevede l'azione di ottemperanza per le sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del g.a. — conduce a configurare la decisione resa su ricorso straordinario come provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio di ottemperanza; tale evoluzione va estesa alla decisione resa dal Presidente della Regione siciliana, in quanto l'analogia del procedimento che lo regola sottende un'identità di natura e di funzione con il ricorso straordinario al Capo dello Stato (v. anche Cass.S.U., n. 9183/2012; in senso conforme Cons. St.Ad. plen., n. 18/2012; Cons. St. Ad. plen., n. 9/2013). La ritenuta ammissibilità dell'ottemperanza delle decisioni rese sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato completa il processo di assimilazione dell'istituto al ricorso giurisdizionale e colma un vuoto (o comunque una difficoltà) di tutela. Il principio è applicabile retroattivamente ad eccezione delle ipotesi, oggi non più possibili, di decisioni di ricorso straordinario rese su una controversia conoscibile dal giudice civile e da questi disapplicabili (Cass. III, n. 20054/2013). Premessa l'ammissibilità del ricorso in ottemperanza per le decisioni rese su ricorso straordinario al Capo dello Stato, era stato posto il problema se la fattispecie va sussunta nell'art. 112, c. 2, lett. b), come sembra affermare la Cassazione o nella lett. d), come sembra indicare il dato letterale (altri provvedimenti equiparati alle sentenze); la questione rileva ai fini della competenza ex art. 113 c.p.a.: nel primo caso la competenza è del Consiglio di Stato, nel secondo è del Tar. La tesi della Cassazione poteva non sembrare coerente con il dato letterale, in quanto la lett. «b» del comma 2 dell' art. 112 c.p.a. non menziona affatto (nemmeno mediatamente) i decreti sui ricorsi straordinari: che non possono essere assimilati ai provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo. Se il fondamento normativo per l'esperibilità del rimedio dell'ottemperanza sui ricorsi straordinari, è individuato nella successiva lett. d del medesimo comma 2 dell'art. 112, che riguarda propriamente l'esecuzione «delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza....», la competenza sarebbe spettata spetta — ai sensi dell' art. 113, comma 2, c.p.a. — al T.A.R. La questione è stata risolta nel senso della competenza del Consiglio di Stato, in base alla considerazione secondo cui il decreto presidenziale che recepisce il parere del Consiglio di Stato, pur non essendo, in ragione della natura dell'organo e della forma dell'atto, un atto formalmente e soggettivamente amministrativo, sia estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell'intangibilità, propria del giudicato, all'esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti e rientra nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lett. b) dell'art. 112, comma 2, ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1 dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si «identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta ( Cons. St.Ad plen. n. 9/2013). L'inadempimento della P.A.Primo presupposto del giudizio di ottemperanza è l'esistenza di una decisione da eseguire (v. par. precedenti) e il secondo presupposto è l'inadempimento della P.A. Si deve considerare che il soggetto cui compete dare esecuzione alle decisioni del giudice amministrativo è la stessa pubblica amministrazione, nei cui confronti viene infatti rivolto l'ordine, contenuto in tutte le sentenze del g.a.: «Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa». Solo nel caso in cui l'amministrazione non dia esecuzione, o non dia corretta esecuzione, o non dia completa esecuzione alla sentenza, scatta la necessità di attivare il giudizio di ottemperanza. L'inadempimento, quindi, non consiste necessariamente in un comportamento omissivo, ma può essere integrato anche da un comportamento commissivo, non conforme al giudicato. È oggi prevalsa la tesi maggiormente in linea con il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale, secondo cui tutti gli atti di violazione o elusione del giudicato devono essere contestati innanzi al giudice dell'ottemperanza. Va precisato che l'inadempimento dell'amministrazione va valutato in modo diverso per le sentenze di annullamento di provvedimenti che incidono su interessi legittimi oppositivi e per le sentenze di annullamento relative a provvedimenti di diniego (interessi legittimi pretesivi). Per le prime l'effetto caducatorio o demolitorio, consistente nella eliminazione dell'atto impugnato, è a volte auto-esecutivo e non necessita di ulteriori attività della p.a., mentre altre volte è accompagnato dal c.d. effetto ripristinatorio (cancellazione delle modificazioni della realtà, giuridica e di fatto, intervenute per effetto dell'atto annullato) e quello c.d. conformativo. Per il secondo tipo di pronunce è più forte proprio l'effetto conformativo, che vincola la successiva attività dell'Amministrazione di riesercizio del potere (v., quanto detto in precedenza riguardo la mancata introduzione dell'azione di adempimento). Costituiscono inadempimento: oltre all'inerzia e al rifiuto esplicito di provvedere (Cons. St. VI, n. 469/1991), l'adempimento parziale, l'emanazione di atti preparatori o meramente istruttori o semplicemente non necessari, non seguiti da concreti provvedimenti di tipo satisfattivo, l'inizio di ottemperanza non portata a compimento ( Cons. St.Ad. plen., n. 2/1980; Cons. St. VI, n. 125/1990; in particolare, per l'irrilevanza ai fini dell'adempimento del compimento di atti strumentali necessari per il pagamento del debito: Cons. St. IV, n. 5354/2003). Ai fini dell'ammissibilità del giudizio di ottemperanza, « la mancanza totale, l'adempimento incompleto e l'adempimento inesatto vanno equiparati, così come vanno equiparati l'inadempimento obiettivo e l'inadempimento fraudolento » (Nigro, Giustizia, 336); Segue. Ottemperanza, giudicato e riesercizio della discrezionalitàL'esercizio del potere discrezionale da parte della p.a. è possibile anche dopo il passaggio in giudicato di una decisione del g.a. che, pur annullando l'atto impugnato, lasci residui margini di discrezionalità all'amministrazione; basti pensare ad un annullamento per difetto di motivazione o di istruttoria, che non preclude alla p.a. di riesercitare il potere sempre nel senso contrario alla posizione del privato ricorrente per ragioni diverse dall'originario diniego e non esaminate con il giudicato (altrimenti il nuovo provvedimento violativo o elusivo del giudicato sarebbe nullo). In sostanza, l'annullamento della valutazione da parte del giudice amministrativo non preclude in via di principio la riedizione del potere amministrativo a meno che il giudice non abbia condannato l'amministrazione all'adozione di uno specifico atto, ma la nuova valutazione non può porre in discussione l'accertamento del giudice circa la sussistenza dei presupposti relativi alla pretesa del ricorrente e comunque deve dimostrarsi il frutto della constatazione della erroneità del giudizio precedente ( Cons. St. Ad. Plen. , n. 2/2013). Ciò comporta che non rientra nell'ambito dell'ottemperanza tutto il sindacato sulla riedizione del potere (Travi, 1021); perché tale attrazione si compia, « vi dev'essere un nesso... sì da potersi configurare un difetto di svolgimento degli effetti diretti o indiretti del giudicato. Ove l'azione amministrativa si possa considerare totalmente nuova », la via da percorrere sarà l'ordinario giudizio di legittimità (Nigro, Giustizia amministrativa, 337). La sede per sindacare la legittimità dell'atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (e che non integrano l'ambito della deducibilità) non può, pertanto, che essere il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza. Pertanto, ove il medesimo fatto sia stato scrutinato mediante una diversa valutazione elusiva rispetto a quella indicata dalla sentenza da eseguire, la controversia è devoluta alla cognizione del giudice dell'ottemperanza; laddove, invece, vi sia una diversa motivazione su un fatto diverso, si tratta di riesercizio del potere da scrutinare in sede di legittimità del provvedimento (T.A.R. Sicilia (Catania), IV, n. 2493/2016). Tuttavia, ciò potrebbe aprire alla possibilità per la p.a. di pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del «nuovo» provvedimento fatti o elementi «nuovi» (in quanto non precedentemente esaminati), vanificando in tal modo l'effettività della tutela giurisdizionale. Tra le contrapposte esigenze di garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e della portata cogente del giudicato, il punto di equilibrio è stato individuato in via empirica dalla giurisprudenza, imponendo all'amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (Cons. St. IV, n. 1018/2014, che richiama Cons. St. V, n. 134/1999). Tale regola può avere una limitata eccezione unicamente in relazione a rilevanti fatti sopravvenuti o che non sono stati esaminati in precedenza per motivi indipendenti dalla volontà dell'Amministrazione ovvero in relazione ad una nuova normativa (purché essa non persegua il fine di incidere sull'esercizio della funzione giurisdizionale, poiché altrimenti si dovrebbe dubitare della compatibilità costituzionale della stessa). Nell'ordinamento italiano quindi, per costante elaborazione pretoria non trova riconoscimento la teoria c.d. del one shot (viceversa ammessa in altri ordinamenti e che prevede che l'amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all'accoglimento della istanza del privato), ma vige il principio che accorda alla p.a. due chances: al diniego di atto ampliativo vittoriosamente gravato in sede giurisdizionale, non consegue sempre e comunque l'obbligo per l'Amministrazione rimasta soccombente di rilasciare il titolo ampliativo medesimo, potendo essa, quantomeno in sede di prima riedizione del potere, evidenziare ulteriori elementi preclusivi (una sola volta, però). Va tuttavia segnalato che a seguito delle modifiche dell'art. 10-bis della legge n. 241/90, apportate dal d.l. 16 luglio 2020 n. 76 - d.l. semplificazioni - è oggi più difficile per le p.a. riesercitare il potere in senso negativo al privato nei procedimenti ad iniziativa di parte, in quanto ogni possibile ragione ostativa all'accoglimento della istanza del privato deve essere rappresentata dall'amministrazione nel corso del procedimento e non può essere addotta per la prima volta dopo l'annullamento in giudizio dell'atto. In materia di concorsi universitari è stato precisato che la “riduzione” della discrezionalità amministrativa (anche tecnica) può essere l'effetto, sul piano “processuale”, dei meccanismi giudiziari che, sollecitando l'amministrazione resistente a compiere ogni valutazione rimanente sulla materia controversa, consentono di focalizzare l'accertamento, attraverso successive approssimazioni, sull'intera vicenda di potere (si pensi alla combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l'atto di riesercizio del potere, ma anche alle preclusioni istruttorie e alla regola di giudizio fondata sull'onere della prova), concentrando in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza. Ciò in quanto la consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell'affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all'amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell'amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati. In alcuni casi, può accadere che la pervicacia degli organi amministrativi a reiterare le statuizioni annullate integri una elusione (palese o occulta) del giudicato: in tal caso deve ammettersi la possibilità, per il giudice dell'ottemperanza, di sindacare anche su aspetti non pregiudicati dalla sentenza (Cons. St. VI, n. 1321/2019). Segue. Ottemperanza e sopravvenienze.Un delicato problema è il rapporto tra giudicato e sopravvenienze. Poiché l'attuazione della regola posta dal giudice avviene in una realtà in movimento, accanto al problema del potere che « residua » all'amministrazione, sorge un altro problema più direttamente e strutturalmente collegato al decorso del tempo e ai mutamenti dello stato di fatto e di diritto successivi alla formazione del giudicato: è il tema delle « sopravvenienze ». Questo riguarda due aspetti che è opportuno tenere distinti: le sopravvenienze di fatto, tra cui rientrano sia l'impossibilità materiale di esecuzione, sia il maturarsi di situazioni di fatto solitamente concernenti terzi; le sopravvenienze di diritto, consistenti in una normativa successiva al giudicato che disciplina la fattispecie in maniera diversa da quella vigente al momento dell'emanazione del provvedimento impugnato e quindi in maniera di- versa dalla regola giudiziale posta dal giudicato che abbia annullato quel provvedimento (Daidone – Patroni Griffi, 1043). L'impossibilità di eseguire il giudicato a causa di sopravvenienze di fatto può determinare che la tutela avvenga per equivalente attraverso il risarcimento del danno (v. oltre). Il problema della incidenza delle sopravvenienze sulla esecuzione della sentenza amministrativa è stato inquadrato, a ragione, nella più ampia tematica dei limiti cronologici del giudicato. Infatti, il vincolo discendente dalla res iudicata si ricollega, necessariamente, ad un determinato momento storico, trascorso il quale è possibile che eventi sopravvenuti modifichino la fattispecie con significative ricadute sugli effetti futuri della sentenza (Pepe, 70, il quale evidenzia anche che con il termine sopravvenienza si è indicato il mutamento delle circostanze, successivo all'emanazione della sentenza ancorché non definitiva, idoneo ad influenzarne l'efficacia nel tempo. Tale mutamento, ove rilevante, può determinare una ridefinizione dei limiti cronologici del giudicato, incidendo in senso limitativo o preclusivo sui relativi effetti, specie futuri. Del resto, ad ogni previsione della sentenza la realtà può opporre un imprevisto, fattuale o giuridico). L'esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e di diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile, con la conseguenza che la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell'interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto, ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica anche per le situazioni istantanee, però, la retroattività dell'esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico), nel sopravvenuto mutamento della realtà — fattuale o giuridica — tale da non consentire l'integrale ripristino dello status quo ante (come esplicitato dai risalenti brocardi factum infectum fieri nequit e ad impossibilia nemo tenetur) che semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall' art. 112, comma 3, c.p.a. ( Cons. St. Ad. plen ., n. 11/2016). Aspetti peculiari riguardano il caso delle le sopravvenienze di diritto. Secondo la giurisprudenza si deve distinguere le fattispecie in cui il G.A. riesce a spingersi ad accertare la fondatezza delle pretesa dedotta da quelle che non consentono il raggiungimento di tale obiettivo; nel primo caso l'eventuale giudizio di ottemperanza ha natura di sola esecuzione, in quanto il giudice deve esclusivamente verificare se l'amministrazione abbia correttamente posto in essere l'azione che la sentenza di cognizione ha prefigurato in tutti i suoi contenuti e il principio generale — derogabile in ragione della peculiarità di singole fattispecie e dei valori ad esse sottese — è quello della prevalenza del giudicato sulla normativa sopravvenuta. In presenza di fattispecie in relazione alle quali il sindacato del giudice amministrativo non può estendersi all'intero rapporto controverso dovendo, in ossequio al principio costituzionale di separazione dei poteri, rispettare le sfere di valutazione di esclusiva spettanza della pubblica amministrazione, l'azione di cognizione conduce alla formazione di un giudicato che contiene una regola incompleta su cui può incidere la normativa sopravvenuta quanto meno per la parte di attività amministrativa non vincolata dalla sentenza da eseguire (Cons. St. VI, n. 3569/2012). Tuttavia, è stato anche evidenziato che il giudicato rivela nitidamente una efficacia rebus sic stantibus ossia una efficacia condizionata al permanere invariato delle circostanze su cui si fonda la sentenza (Clarich, 257); viceversa, un loro significativo mutamento può determinare la cessazione o la ridefinizione degli effetti dell'accertamento giudiziale. In definitiva, il giudicato amministrativo non può considerarsi un dato irreversibile ed immutabile della realtà giuridica, in virtù della sua naturale esposizione alla influenza di eventi sopravvenuti successivi alla emanazione della sentenza (Pepe, 71). Non sembra essere una sopravvenienza il fatto che il debito sia stato già pagato ancor prima della formazione del titolo rispetto al quale è chiesta l'ottemperanza e, al riguardo, non condivisibile appare la decisione secondo cui nonostante un giudicato formatosi su un decreto ingiuntivo l'amministrazione possa eccepire in sede di ottemperanza l'avvenuto pagamento prima del decreto ingiuntivo (Cons. St. III, n. 10960/2022); la richiamata esigenza di evitare un abuso del processo appare porsi in contrasto con le regole del processo che impongono di eccepire nel processo (in sede di opposizione al decreto ingiuntivo) l'eventuale avvenuto pagamento. La mancata comunicazione al difensore costituito dell'avviso di fissazione della udienza stabilita per la trattazione della causa non costituisce errore di fatto rilevante ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., laddove concorrano le seguenti condizioni: a) la fissazione dell'udienza di trattazione sia avvenuta in conformità all'art. 71 comma 3, essendo stato l'adempimento posto in essere dopo la scadenza del termine di cui all'art. 46 comma 1 ivi richiamato; b) la relativa comunicazione sia avvenuta nel rispetto dell'art. 71 comma 5, che individua i destinatari nelle “parti costituite”, da ritenersi quelle individuabili come tali al momento della comunicazione (Cons. St. V, n. 2049/2023; caso in cui la parte si era costituita successivamente alla comunicazione e tardivamente rispetto ai termini stabiliti dall'art. 46 comma 1 c.p.a.). Segue. Giudicato e leggi provvedimento.Un problema particolare sorge quando la normativa sopravvenuta è qualificabile come «legge provvedimento». Con tale termine si intende indicare un atto avente valore e forza di legge che sul piano sostanziale agisce e incide, come un provvedimento, su casi specifici e su destinatari determinati. Vi possono essere leggi che sono approvate in sostituzione di un provvedimento e che hanno quindi il contenuto proprio di un provvedimento ed altre leggi, che approvano un atto amministrativo preesistente, operando un concorso tra volontà amministrativa e volontà legislativa. Rispetto alla legge generale, la legge-provvedimento si distingue con riguardo ai destinatari (personalità delle leggi-provvedimento contrapposta alla generalità delle leggi generali), al contenuto (concretezza delle leggi-provvedimento contrapposta all'astrattezza delle leggi generali) ed agli effetti (eccezionalità delle leggi-provvedimento contrapposta alla stabilità o al carattere ordinario delle leggi generali). In relazione alle leggi provvedimento è stata ormai esclusa la loro inammissibilità sulla base del principio (ritenuto invece insussistente) della riserva di amministrazione e la Corte Costituzionale ha affermato la legittimità di leggi aventi un contenuto concreto e particolare con destinatari ben determinati (c.d. leggi-provvedimento), pur riservandosi sulle stesse uno stretto controllo di costituzionalità per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio (Corte cost. n. 205/1996; Corte cost. n. 2/1997; Corte cost. n. 153/1997; Corte cost. n. 231/2014). Nella sostanza, alcune leggi provvedimento hanno superato sia le obiezioni di fondo collegate al principio di separazione dei poteri sia quelle legate al sistema di garanzie, in quanto — si è detto — il diritto di difesa del cittadino non viene annullato, ma si connota secondo il regime tipico dell'atto legislativo adottato, trasferendosi dall'ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale; tuttavia, il sindacato di costituzionalità sotto il profilo della non-arbitrarietà e ragionevolezza delle scelte deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata è la natura provvedimentale dell'atto legislativo sottoposto a controllo. Si deve anche tenere conto che sinora la legge-provvedimento, ritenuta costituzionalmente legittima, non è mai giunta al punto da incidere su un numero determinato e limitato di persone, ma ha riguardato: un piano territoriale di coordinamento (Corte cost. n. 226/1999), un piano urbanistico territoriale (Corte cost. n. 529 del 1995) o provinciale (Corte cost. n. 143/1989); il territorio perimetrato a fini faunistici (Corte cost. n. 248/1995), la classificazione di un territorio regionale come area di bonifica (Corte cost. n. 66/1992); la copertura legislativa ad atti dei procedimenti espropriativi e la realizzazione di una pluralità di opere pubbliche in « particolari condizioni di urgenza » (Corte cost. n. 62/1993). Al contrario, in applicazione dei limiti specifici di ammissibilità delle leggi provvedimento (rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso) e dei limiti generali (principio di ragionevolezza e non arbitrarietà), è stata dichiarata l'incostituzionalità di una disposizione, con cui due specifici beni erano stati con legge individuati e sottratti ad una procedura di vendita, da ritenersi ormai conclusa a seguito di una (preesistente rispetto alla legge) pronuncia giurisdizionale ( Corte cost. n. 267/2007). Deve, quindi, ritenersi che la formazione del giudicato paralizza un intervento legislativo contrastante con ildictumgiurisdizionale e che comunque l'intervento di una legge provvedimento chiaramente diretto a incidere sull'esercizio (in corso) della tutela giurisdizionale, pur non essendo in assoluto precluso in assenza di un giudicato, deve essere vagliato con particolare attenzione dal giudice delle leggi. Tale limite vale anche per il giudicato costituzionale, come ha chiarito il giudice delle leggi, che ha dichiarato l'incostituzionalità di una disciplina della regione Puglia, con cui erano stati fatti salvi gli effetti dell'applicazione di disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 373 del 2002 (illegittimità costituzionale della previsione di una riserva al personale interno della totalità dei posti messi a concorso dalla pubblica amministrazione), evidenziando che una siffatta norma costituisce una legge provvedimento che illegittimamente incide sugli effetti di un giudicato e interferisce con l'esercizio della funzione giurisdizionale, determinando una violazione anche degli artt. 24 e 113 Cost. (Corte cost. n. 354/2010). La Corte ha, quindi, mostrato di voler esercitare un più penetrante controllo sulle leggi provvedimento e qualora il legislatore ponga in essere un'attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare i criteri ai quali sono ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione (Corte cost. n. 137/2009, con cui è stata ritenuta illegittima una legge che disponeva il concorso di una Regione alle iniziative sociali, culturali e sportive di carattere locale, attraverso la diretta previsione tanto dei soggetti destinatari di contributi quanto, con riferimento a ciascun beneficiario, dell'importo del contributo assegnato). Si può, quindi, affermare che le leggi provvedimento devono essere sottoposte ad un intenso controllo di costituzionalità sia sotto il profilo generale del rispetto del principio di ragionevolezza e di arbitrarietà, sia con riguardo al limite specifico del rispetto della funzione giurisdizionale (Corte cost. n. 289/2010). Problema diverso è quello dell'adozione di leggi provvedimento in deroga all'ordinario assetto delle competenze amministrative, come delineato anche in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione, che ha valorizzato la posizione costituzionale dei livelli di governo locali e regionale. Va, infine, segnalato come un ulteriore forma di tutela avverso le leggi provvedimento è oggi garantita anche dall'ordinamento dell'Unione europea. La Corte di Giustizia ha, infatti, affermato che una legge provvedimento, che in concreto ostacoli l'accesso alla giustizia in materia ambientale, si pone in diretta violazione delle direttive comunitarie e può essere disapplicata dal giudice interno (Corte giustizia UE, 18 ottobre 2011, C-128-131 e 134- 135/09). In definitiva, in presenza di una legge provvedimento violativa del diritto dell'Unione europea (anche a causa della sua stessa natura), il sindacato può essere esercitato in maniera diffusa dai giudici comuni attraverso il collaudato istituto della disapplicazione, mentre quando la questione è puramente interna, in caso di approvazione con legge di un atto amministrativo lesivo, i diritti di difesa del soggetto leso non vengono ablati, ma si trasferiscono dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale (come confermato da Cons. St. IV, n. 1349/2012, secondo cui è comunque necessario che siano impugnati in giudizio gli atti amministrativi attuativi della legge provvedimento, in quel caso sopravvenuta nel corso del giudizio). Segue. Ottemperanza e limiti esterni della giurisdizione.In sede di ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione estesa al merito e, quindi, l'eccezionale estensione al merito del sindacato comporta che la Cassazione non può censurare sotto il profilo della violazione dei limiti esterni della giurisdizione l'esercizio di tale forma di sindacato prevista dalla legge. Tuttavia, in alcuni casi non sempre è stato chiaro il limite della sindacabilità con ricorso per Cassazione di sentenze del g.a. rese in sede di ottemperanza. È stato, ad esempio, ritenuto che una sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su un ricorso per l'ottemperanza ad un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento da parte del Csm di pubbliche funzioni a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, ordina alla competente amministrazione di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento («ora per allora»), al solo fine di determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in altra sede e nei confronti di altra amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetto, pertanto, al sindacato della Corte di Cassazione in punto di giurisdizione – Cass. S.U., n. 23302/2011; per questo tipo di contenzioso; v. anche il commento all'art. 110 e all'art. 114 e, in particolare, il par. «Ottemperanza e limiti esterni della giurisdizione amministrativa (gli atti del Csm). Con particolare riferimento ai limiti esterni nel giudizio di ottemperanza, è stato precisato che è necessario stabilire se quel che viene in questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal giudice amministrativo, attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione (non sindacabili dalla Cassazione), oppure il fatto stesso che un tal potere a detto giudice non spettava; in particolare, quando l'ottemperanza sia stata invocata denunciando comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso, afferiscono ai limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo nell'individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della successiva attività dell'amministrazione e nella valutazione di non conformità di questa agli obblighi derivanti dal giudicato; trattandosi, invece, dei limiti esterni di detta giurisdizione quando è posta in discussione la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla giurisdizione di ottemperanza attraverso doglianze che pongano in discussione il fatto che nel caso concreto un tal potere, con la peculiare estensione che lo caratterizza, spettasse o meno a detto giudice (Cass. S.U., n. 15047/2019; Cass. S.U., n. 5058/2017, che ha anche scansionato le fasi logiche del giudizio di ottemperanza: a) interpretazione del giudicato al fine di individuare il comportamento doveroso per la pubblica amministrazione in sede di esecuzione; b) accertamento del comportamento in effetti tenuto dalla medesima amministrazione; c) valutazione della conformità del comportamento tenuto dall'amministrazione rispetto a quello imposto dal giudicato). Vedi anche il commento agli artt. 110 e 114. Segue. Ottemperanza, giudicato e diritto dell'Unione europea.Il giudizio di ottemperanza costituisce un efficace strumento per garantire l'effettitività della tutela giurisdizionale, specie in questi casi in cui la controversia è definita con un giudicato. Tuttavia, il principio del giudicato è stato messo in discussione nei casi in cui sussiste la diversa esigenza di garantire il rispetto del diritto comunitario. La più decisa presa di posizione della Corte di giustizia a favore della natura recessiva del giudicato nazionale si trova nella famosa sentenza Lucchini (Corte giustizia UE 18 luglio 2007, C-119/05). In tale arresto, occupandosi specificamente di una fattispecie concernente un contributo pubblico erogato ad un'impresa privata in esecuzione di giudicato nazionale formatosi in violazione delle norme del diritto dell'Unione in materia di aiuti di Stato (violazione accertata da una decisione della Commissione europea anteriore al giudicato stesso), la Corte ha affermato che il diritto comunitario osta all'applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l' art. 2909 del c.c. italiano, volta a sancire il principio dell'autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l'applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva. Successivamente, tuttavia, la Corte di Giustizia (Corte giustizia CE, II, 3 settembre 2009, Fallimento Omniclub) ha attenuato la portata della decisioni Lucchini, affermando che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione. Ciò in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l'esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte giustizia CE, 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler). Ciò premesso, tuttavia, la sentenza Omniclub contiene alcune affermazioni che vanno comunque ad attenuare la c.d. efficacia esterna del giudicato, cioè l'efficacia del giudicato in un diverso processo, pendente sempre tra le stesse parti (Chieppa – Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, 2016, 24). Secondo la nostra giurisprudenza nazionale (formatasi soprattutto in materia tributaria), infatti, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo. Principio che si ritiene non trova deroga anche in ordine ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscono il contenuto, sui quali il giudice pronuncia con accertamento su una fattispecie attuale, ma con conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, sicché l'autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione su quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale, pertanto, esplica la sua efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l'unico limite di una sopravvenienza di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento (cfr. ad es. Cass. n. 16959/2003; Cass. n. 9685/2003; Cass. n. 19426/2003; Cass. n. 15931/2004 e da ultimo Cass.S.U., n. 13916/2006). Nella sentenza Omniclub, la Corte di Giustizia ha imposto il superamento di questo principio, affermando che il giudicato in contrasto con il diritto comunitario, pur non potendo essere rimesso in discussione in ordine al rapporto su cui si è pronunciato, non può, tuttavia, spiegare effetti esterni (essere cioè ritenuto vincolanti in altri giudizi, tra le stesse pari in cui venga dedotto lo stesso rapporto di durata). La tesi del c.d. giudicato esterno (fino ad allora accolta dalla giurisprudenza nazionale) determinerebbe la conseguenza inaccettabile che, laddove la decisione giurisdizionale divenuta irrevocabile sia fondata su un'interpretazione contrastante con il diritto comunitario, «la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe con riferimento a ciascun nuovo [periodo], senza che sa possibile correggere tale erronea interpretazione». Sicché, in definitiva, deve ritenersi, ad avviso della Corte di giustizia, che, seppure in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell'autorità di cosa giudicata rientrino nell'ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell'autonomia procedurale di cui gli stessi godono, nondimeno le stesse «non possono essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario » (principio di effettività). I rapporti tra giudicato nazionale e primato del diritto euro-unitario sono stati recentemente ribaditi dalla Corte di Giustizia nella sentenza pregiudiziale interpretativa 10 luglio 2014, C-213/03 (pronunciata su una questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato con ordinanza della Quinta Sezione, 10 aprile 2013, n. 1962), con cui sono stati ribaditi i seguenti principi: a) al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l'esaurimento dei mezzi di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (sentenze Kapferer, C-234/04, punto 20; Commissione/Lussemburgo, C-526/08, punto 26, e ThyssenKrupp Nirosta/Commissione, C-352/09 punto 123); b) pertanto, il diritto dell'Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto (v., in tal senso, sentenze Eco Swiss, C-126/97, punti 46 e 47; Kapferer, punti 20 e 21; Fallimento Olimpiclub, punti 22 e 23; Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, punti da 35 a 37, nonché Commissione/Slovacchia, C-507/08, punti 59 e 60); c) il diritto dell'Unione non esige, dunque, che, per tener conto dell'interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto offerta dalla Corte posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, quest'ultimo ritorni necessariamente su tale decisione. d) La sentenza Lucchini (C-119/05), non è atta a rimettere in discussione l'analisi sopra svolta. Infatti, è stato in una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l'Unione europea in materia di aiuti di Stato, che la Corte ha statuito, in sostanza, che il diritto dell'Unione osta all'applicazione di una disposizione nazionale, come l' articolo 2909 del codice civile italiano, che mira a consacrare il principio dell'intangibilità del giudicato, nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto dell'Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva. e) Qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata, conformemente ai principi di equivalenza e di effettività, e sempre che dette condizioni siano soddisfatte, per ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell'Unione in materia di appalti pubblici di lavori. La giurisprudenza nazionale in alcuni casi ha evidenziato come sia già, invece, presente nel nostro ordinamento il principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario o, più in generale, contrastante con norme di rango sovranazionale cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione. In particolare, è stata posta la questione se l'interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell'Unione Europea (e senza procedere al rinvio pregiudiziale), secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dia luogo alla violazione di un «limite esterno» della giurisdizione, rientrando in uno di quei «casi estremi» in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l'esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno. La Cassazione si è espressa in senso affermativo in quei casi in cui la violazione rileva sotto il profilo dell'indebito diniego di accesso alla giustizia, mantenendo fermo l'orientamento tradizionale negativo negli altri casi; in sostanza, il controllo del limite esterno della giurisdizione — che l' art. 111, ottavo comma, Cost., affida alla Corte di cassazione — non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori «in iudicando» o «in procedendo» per contrasto con il diritto dell'Unione europea, salva l'ipotesi, «estrema», in cui l'errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l'accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo» (Cass.S.U., n. 2242/2015; Cass.S.U., n. 3915/2016; Cass.S.U., n.14043/2016; Cass.S.U., n. 6891/2016, che richiama in motivazione gli analoghi principi precedentemente espressi da Cass.S.U., n. 2403/2015 ; Cass. S.U., n. 31226/2017, che annulla con rinvio una sentenza del Consiglio di Stato sui rapporti tra ricorso avverso l’esclusione da una gara di appalto e contestazione dell’ammissione del concorrente). In questi «casi estremi» continuano le Sezioni Unite si impone la cassazione della sentenza amministrativa «indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l'ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l'attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria» (riscontro di vizi che riguardano l'essenza della funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio). Recentemente l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St.Ad. Plen., n. 11/2016), occupandosi dei rapporti tra giudicato a formazione progressiva e diritto comunitario, ha precisato che la preminente esigenza di conformità al diritto comunitario rileva anche in sede di ottemperanza, essendo dovere del giudice dell'ottemperanza interpretare la sentenza portata ad esecuzione e delinearne la portata dispositiva e conformativa evitando di desumere da essa regole contrastanti con il diritto dell'Unione. Secondo l'Adunanza plenaria, «la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell'ottemperanza nell'ambito di quell'attività in cui si sostanzia l'istituto del giudicato a formazione progressiva non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni «integrative», ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale». «Il giudizio di ottemperanza può rappresentate in quest'ottica una opportunità ulteriore offerta dal sistema processuale anche per evitare che dal giudicato possano trarsi conseguenze anticomunitarie che darebbero vita a quei «casi estremi» in cui, richiamando gli insegnamenti delle Sezioni Unite, la sentenza diventa «abnorme» e supera i limiti esterni del potere giurisdizionale». Sempre sui rapporti tra diritto comunitario e giudicato, va segnalata anche la giurisprudenza comunitaria secondo cui la P.A. ha l'obbligo di riesaminare un atto amministrativo adottato in violazione del diritto comunitario, anche quando esista ormai un giudicato che abbia escluso l'illegittimità del provvedimento medesimo. Si fa riferimento, anzitutto, alla sentenza Corte giustizia CE, 13 gennaio 2004, n. 453 Kuhne & Heitz, in cui la Corte di giustizia afferma che il principio di cooperazione derivante dall'art. 10 CE impone ad un organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell'interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora: — disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; — la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; — tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un'interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale; — l'interessato si sia rivolto all'organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza. Nella successiva sentenza della Corte 1° febbraio 2008, C-2/06, Kempter la Corte ha ulteriormente precisato, attenuando la portata restrittiva delle condizioni fissate dalla precedente decisione, che: 1) nell'ambito di un procedimento dinanzi ad un organo amministrativo diretto al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva in virtù di una sentenza pronunciata da un giudice di ultima istanza, la quale, alla luce di una giurisprudenza successiva della Corte, risulta basata su un'interpretazione erronea del diritto comunitario, tale diritto non richiede che il ricorrente nella causa principale abbia invocato il diritto comunitario nell'ambito del ricorso giurisdizionale di diritto interno da esso proposto contro tale decisione; 2) il diritto comunitario non impone alcun limite temporale per presentare una domanda diretta al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli Stati membri rimangono tuttavia liberi di fissare termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai principi comunitari di effettività e di equivalenza. V. anche il commento all’art. 1. Ottemperanza, giudicato, revocazione e CeduLa questione della stabilità del giudicato si è posta, sia pure in termini parzialmente diversi, anche per il giudicato nazionale contrastante con laCedu (in particolare con la sentenze della Corte Edu che, esauriti i mezzi di ricorso interni contro la sentenza, ravvisano nel giudicato nazionale una violazione della Convenzione). La questione è stata affrontata dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (ordinanza 4 marzo 2015, n. 2), la quale ha sollevato questione di legittimità di costituzionalità degli artt. 106 del Codice del processo amministrativo e 395 e 396 del Codice processuale civile, in relazione agli artt. 117 comma 1, 111 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell' art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo. Nel caso di specie, la questione riguardava la revocazione della sentenza dell'Adunanza plenaria ( Cons. St.Ad. plen., n. 4/2007) che aveva ritenuto applicabile al ricorso proposto dai c.d. medici gettonati per il riconoscimento del diritto al versamento dei contributi previdenziali l' art. 45, comma 17 del D.lgs n. 80/1998 (poi confluito nell'attuale art. 69, comma 7. del T.U. n. 165/2001) il quale disponeva per le liti relative al pubblico impiego «privatizzato» che «le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000». Alcuni dei ricorrenti soccombenti nel giudizio di appello definito con la detta Ad. Plen. n. 4/2007 ricorrevano alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. I giudici europei, con due sentenze CorteEdu4 febbraio 2014 (Staibano c. Italia e Mottola c. Italia) riconoscevano sussistere una violazione degli obblighi convenzionali commessa dallo Stato italiano. In sintesi, la Corte di Strasburgo rilevava una duplice violazione dei diritti dei ricorrenti. In primo luogo, veniva accertata la violazione dell'art. 6 par. 1 della Convenzione relativamente al diritto di accesso ad un tribunale. In secondo luogo, la Corte di Strasburgo rilevava una violazione dell'art 1 del protocollo n. 1 della Convenzione in quanto secondo la Corte gli interessati (a causa del termine di decadenza previsto dalla norma nazionale) hanno dovuto dunque sopportare un onere eccessivo ed esorbitante» risultando, de facto, privati di ogni possibilità di far valere il proprio diritto di credito relativo al trattamento pensionistico». Sul vicenda dei c.d. medici gettonati si segnala, peraltro, sempre in seguito alle sentenze della Corte Edu, Staibano e Mottola,- Cass.S.U., ord. n. 6891/2016, citata supra, che ha sollevato questione di costituzionalità dell' art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, in relazione all' art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo quando siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000. La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell' art. 106 del Codice e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell' art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. n. 123/2017). In un precedente la Consulta aveva preso una decisione diversa in una fattispecie avente ad oggetto la possibile revisione di un processo penale a seguito di una pronuncia della Corte Edu, dichiarando costituzionalmente illegittimo, per violazione dell' art. 117, comma 1, Cost. in relazione all' art. 46, par. 1,Cedu, l' art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo» (Corte cost. n. 113/2011). I principi affermati in ambito penalistico erano stati comunque limitati ai casi in cui i soggetti interessati, una volta esauriti i ricorsi interni, si erano rivolti al sistema di giustizia della Cedu e non erano stati estesi a coloro che, al contrario, non si erano avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale» (Corte cost. n. 210/2013). L'ampliamento dei casi di revocazione civile ed amministrativa è escluso, in quanto nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale e non vi è quindi un obbligo di riapertura del processo. Per completare il quadro sul rapporto tra ottemperanza e revocazione, v. il commento all'art. 106, anche con riferimento all'inammissibilità della revocazione in caso di contrasto della sentenza di ottemperanza con la sentenza di cognizione e con altre precedenti sentenze di ottemperanza intervenute nel medesimo giudizio (Cons. St.Ad. plen., n. 1/2017). Tornando al giudizio di ottemperanza, resta fermo che le pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo non figurano tra i titoli per la cui esecuzione può essere proposta, ai sensi dell' art. 112 c.p.a., l'azione di ottemperanza e ciò non solo perché non può dedursi un ampliamento della nozione evincibile dalla lettera d) del comma 2 del suddetto articolo solo per ragioni storiche e sistematiche, ma soprattutto perché gli strumenti di adeguamento a decisioni di giudici non nazionali trovano compiuta regolamentazione in altri settori dell'ordinamento (e in generale dalla l. n. 218/1995, recante «Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato» che, all'art. 2, fa rinvio ai modi di applicazione delle diverse convenzioni internazionali; Cons. St. IV, n. 2866/2015). V. anche il commento all’art. 1. Ottemperanza e nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato (rinvio)Con riguardo agli atti adottati in violazione o elusione del giudicato, la giurisprudenza aveva ritenuto che gli stessi dovessero essere considerati tamquam non esset con ammissibilità del ricorso in ottemperanza anche prima della loro espressa qualificazione in termini di nullità avvenuta con l'entrata in vigore dell' art. 21-septies della legge n. 241/90. In questi casi l'oggetto proprio del giudizio d'ottemperanza non è la difformità dell'atto sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale (in tal caso occorrendo esperire l'ordinaria azione d'annullamento), bensì la difformità specifica dell'atto stesso rispetto all'obbligo (processuale) di attenersi esattamente all'accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. Nei confronti di atti amministrativi adottati in seguito a una sentenza di annullamento, è consentito proporre in un unico ricorso, diretto al giudice dell'ottemperanza, domande tipologicamente distinte, le une proprie di un giudizio di cognizione e le altre di un giudizio di ottemperanza ( Cons. St.Ad. plen., n, 2/2013, secondo cui il giudice dell'ottemperanza, se respinge le domande di nullità o inefficacia degli atti, ove il ricorso sia stato proposto nel rispetto dei termini per l'azione di annullamento, dispone la conversione dell'azione per la riassunzione del giudizio avanti al giudice competente per la cognizione; la conversione dell'azione può essere disposta dal giudice dell'ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli art. 21-septies l. 7 agosto 1990 n. 241 e 114, comma 4, lett. b), c.p.a., è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall'amministrazione per l'adeguamento dell'attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l'accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti). Per un maggiore approfondimento sull'azione di nullità e sulla nozione di atto nullo si rinvia al commento all'art. 31, comma 4. Ottemperanza e risarcimento del dannoNel processo amministrativo, la fase dell'esecuzione della pronuncia del giudice si pone in un momento anteriore rispetto a quello del risarcimento e, in particolare del risarcimento per equivalente. Molto spesso, l'azione di risarcimento svolge tendenzialmente un ruolo di completamento della tutela risultante dal giudicato amministrativo demolitorio, quando sopravviene un ostacolo insuperabile alla soddisfazione dell'interesse del ricorrente e il ruolo di completamento presuppone che sia certo il modo in cui l'amministrazione si è conformata alla decisione. Mentre in taluni casi è ben possibile che, già al momento della pronuncia della sentenza di annullamento, risulti chiaramente che non è più utile per il ricorrente il riesercizio conforme a diritto della funzione, potendo il giudice amministrativo immediatamente accogliere la domanda di risarcimento del danno per equivalente, in molti altri casi il giudice della cognizione non è in grado di prevedere già all'atto dell'annullamento se ed in che misura l'ottemperanza che eventualmente verrà assicurata dall'amministrazione alla sentenza potrà effettivamente ripristinare la situazione soggettiva lesa. In presenza di interessi legittimi pretesivi, quasi sempre la pretesa risarcitoria ha ad oggetto proprio il pregiudizio connesso alla mancata attribuzione del bene finale e, quando l'esito del giudizio di annullamento non contiene l'accertamento della spettanza di tale bene, ai fini dell'esame della domanda risarcitoria si dovrà attendere se il riesercizio del potere da parte della P.A. conduca, o meno, all'attribuzione al privato del bene richiesto e in questo caso si potrebbe prospettare il riconoscimento del danno per il ritardo nel conseguimento dell'utilità finale. L'attribuzione del bene della vita costituisce un aspetto esecutivo del giudicato, che si colloca anteriormente rispetto alla domanda di risarcimento del danno, consistente nella mancata attribuzione del medesimo bene. In tutti quei casi in cui la domanda del privato è diretta a conseguire il bene della vita, molto spesso la possibilità e i limiti entro cui attribuire il bene dipendono dal momento in cui l'amministrazione esegue il giudicato. Ad esempio, in materia di appalti, se l'annullamento in sede giurisdizionale dell'aggiudicazione interviene nell'immediatezza dei fatti, consente al ricorrente di stipulare il contratto con la P.A.; al contrario se interviene quando il contratto con l'originario aggiudicatario è stato non solo stipulato ma in parte eseguito, l'esecuzione della pronuncia (e, quindi, l'attribuzione del bene della vita, l'appalto) è possibile solo parzialmente per la parte residua non eseguita, mentre per la prima parte la tutela non può che avvenire attraverso i risarcimento per equivalente; se il rapporto è interamente eseguito, l'unica forma di tutela è il risarcimento, sempre per equivalente. La rapidità del giudizio e una tempestiva ottemperanza da parte dell'amministrazione al contenuto della sentenza, elide o riduce significativamente l'area del danno risarcibile. Sulla base delle precedenti considerazioni è chiaro che solo all'esito dell'ottemperanza di un giudicato di annullamento è possibile accertare e quantificare il danno risarcibile per equivalente. Laddove non risulta più satisfattiva la pronuncia di annullamento, supplisce la tutela risarcitoria e il momento in cui emerge con chiarezza lo spazio per l'esecuzione del giudicato e per il risarcimento del danno è proprio quello dell'ottemperanza. Segue. I limiti alla proponibilità delle domande risarcitorie in sede di ottemperanza prima del CodiceCiò ha condotto parte della giurisprudenza ad allargare nel passato le «maglie» del giudizio di ottemperanza, ammettendo la proponibilità in tale sede di domande risarcitorie in considerazione del fatto che il rapporto tra ottemperanza e risarcimento del danno per equivalente deve essere riconsiderato, non più in termini di incompatibilità, ma di coordinamento. Era stata, in particolare, posta l'attenzione sull'elemento unificante, costituito dal medesimo episodio di vita, che fa da legame e da sfondo unitario tra il momento cassatorio-conformativo e quello — eventuale — di riparazione in forma specifica o per equivalente, per pervenire alla conclusione della insussistenza di cause di incompatibilità tra domanda di ottemperanza e domanda di condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, traendo entrambe le pretese origine (ancorché attraverso il tramite di diverse fattispecie) dalla stessa lesione di una posizione soggettiva tutelata in relazione a un determinato bene della vita. L'orientamento tradizionale tendeva a ritenere inammissibile una domanda risarcitoria proposta in sede di ottemperanza, attesa la necessità di una cognizione piena sull'an della pretesa risarcitoria. Le divergenze introdotte dal legislatore rispetto al giudizio risarcitorio civile (consistenti nella possibilità che il giudice, in sede di cognizione si limiti a stabilire i criteri sulla cui base dovrà poi essere liquidato il danno risarcibile) non possono giungere fino al punto di comportare la traslazione in sede di ottemperanza di tutto il giudizio risarcitorio, indifferentemente per l'an e per il quantum. La domanda risarcitoria compete funzionalmente al giudice della cognizione, nell'ambito di un giudizio ordinario articolato sul doppio grado ed a cognizione piena sull'an nonché, se possibile, sul quantum delle pretese risarcitorie del danneggiato) (Cons. St. IV, n. 396/2001). Seguendo una posizione intermedia, era stato ritenuto ammissibile un ricorso cumulativo, proposto in primo grado, contenente sia la richiesta di esecuzione del giudicato sia la domanda risarcitoria a condizione che, in applicazione del principio di conservazione e di conversione degli atti processuali, sussistano i presupposti di contenuto e forma previsti per un'ordinaria azione cognitoria, quale quella risarcitoria (nel senso di verificare il rispetto per entrambe le domande, nella forma e nella sostanza, delle disposizioni processuali di riferimento), fermo restando che il rispetto del principio del doppio grado del giudizio costituisce un limite invalicabile con la conseguenza che deve confermarsi l'inammissibilità di una domanda risarcitoria proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza di una decisione del Consiglio di Stato e quindi in un unico grado di giudizio. La tesi presuppone che un ricorso cumulativo contenente la domanda di esecuzione del giudicato e la domanda risarcitoria sia ammissibile, non in quanto l'azione risarcitoria possa essere ordinariamente proposta in sede di ottemperanza, ma in quanto si deve ritenere ammissibile il cumulo delle due domande a condizione che sussistano i presupposti di contenuto e forma previsti per un'ordinaria azione cognitoria, anche alla luce del principio di conservazione e conversione degli atti processuali; l'esame della domanda risarcitoria deve ritenersi subordinato al previo esame della richiesta di esecuzione, il cui accoglimento può in alcuni casi elidere del tutto l'area del danno risarcibile (Cons. St. VI, n. 3332/2002). Era stato poi chiarito che una domanda di risarcimento dei danni, inammissibile se proposta per la prima volta in appello, è proponibile in sede di ottemperanza solo per i danni da violazione di giudicato ossia per i danni maturatisi dopo l'annullamento, mentre, quanto ai danni già subiti (per perdita di chance) per effetto dell'attività amministrativa oggetto del giudizio di annullamento, non può dubitarsi circa la necessità di un apposita domanda da spiegarsi nel processo di primo grado (Cons. St. V, n. 849/2008). Successivamente, si erano registrate da un lato alcune nuove aperture in favore dell'ammissibilità della domanda risarcitoria, proposta in sede di ottemperanza (Cons. St. V, n. 2360/2008), e dall'altro lato nuove conferme del più tradizionale indirizzo negativo (Cons. St. V, n. 4276/2008). Era stato evidenziato che certamente, il fatto che — secondo la Corte costituzionale — il risarcimento del danno non sia una materia ma uno strumento di tutela dovrebbe indurre a facilitare l'esercizio di tale strumento in modo congiunto al ricorso in ottemperanza, che in molti casi assume carattere pregiudiziale (in senso logico) rispetto alla risarcibilità del danno; ma che restava, tuttavia, l'ostacolo del doppio grado di giudizio, che mancherebbe nelle domande in ottemperanza proposte direttamente al Consiglio di Stato: Pur essendo stato evidenziato che l'assenza del doppio grado non pone problemi di costituzionalità, si era rilevato che sarebbe comunque necessaria quantomeno una espressa disposizione di legge che consentisse la proposizione della domanda risarcitoria in sede di ottemperanza e soprattutto di concentrare la cognizione di tale domanda in unico grado (R. Chieppa-R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, 960). Segue. Le domande risarcitorie in sede di ottemperanza ai sensi dell'originaria versione dell'art. 112 del Codice.Il principale argomento ostativo all'ammissibilità senza alcun limite dell'azione di risarcimento nel giudizio di ottemperanza era, quindi, costituito dalla assenza di una espressa previsione legislativa che consentisse il cumulo tra le due azioni, soprattutto in caso di competenza in unico grado del Consiglio di Stato. Tale disposizione è stata poi introdotta con il Codice del processo amministrativo. Il riferimento non andava tanto all'art. 112, comma 3, che ha recepito principi già affermati dalla giurisprudenza richiamati in precedenza per i danni successivi al giudicato. La novità era costituita dal (poi abrogato) art. 112, comma 4, in base al quale «Nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all'articolo 30, comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme e nei termini del processo ordinario». L'art. 30, comma 5, prevede che nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza». Con tale disposizione si è voluto evitare che la caduta della c.d. pregiudiziale amministrativa e l'introduzione della possibilità di proporre una domanda di risarcimento autonoma entro un termine di decadenza potesse limitare la strategia processuale della parte, che può preferire aspettare l'esito del giudizio di annullamento prima di proporre la domanda di risarcimento (in assenza della disposizione la domanda di risarcimento avrebbe dovuto comunque essere proposta entro il termine di decadenza, anche in caso di pendenza del giudizio di annullamento). Con l'entrata in vigore del c.p.a. la domanda di risarcimento può essere proposta anche in sede di ottemperanza, se connessa con quest'ultima: si tratta nella sostanza della possibilità di cumulare due azioni di esecuzione e di risarcimento, che spesso possono essere tra loro alternative e, proprio perché alternative, vi è un vantaggio a poterle proporle insieme. La novità della disposizione rispetto alla precedente disciplina è stata subito evidenziata da Cons. St. V, n. 8142/2010. Del resto, la novità è coerente con la previsione di ammissibilità del cumulo di domande connesse, previsto in via generale dall'art. 32 e che oggi consente anche il cumulo tra domanda di annullamento e domanda di ottemperanza seguendo, a pena di nullità, il rito della udienza pubblica (Cons. St. IV, n. 8446/2021; v. anche art. 32 e che oggi consente anche il cumulo tra domanda di annullamento e domanda di ottemperanza seguendo, a pena di nullità, il rito della udienza pubblica (Cons. St. IV, n. 8446/2021;v. anche art. 32 ). Sulla base dell'art. 112, comma 4, il cumulo tra domanda di ottemperanza e di risarcimento determinava solo che il giudizio venisse trattato in udienza pubblica con modalità e termini del rito ordinario. Il richiamo all'udienza pubblica e a modalità e termini del rito ordinario era stato inteso come riferito alle modalità di svolgimento del giudizio. Ciò comportava che nel caso di competenza in unico grado del Consiglio di Stato, l'opzione del ricorrente in favore del cumulo delle due azioni potesse privare le altri parti di un grado di giudizio ed era stato osservato come tale interpretazione non poneva problemi di costituzionalità, in virtù del già richiamato principio dell'assenza di copertura costituzionale per il doppio grado di giudizio (Chieppa, Il Codice del processo amministrativo, 484). In sede di prima applicazione del citato art. 112, comma 4, è stata, tuttavia, prospettata una altra tesi, secondo cui il riferimento ai modi e ai termini del rito ordinario andrebbe riferito anche al rispetto delle regole di competenza del giudizio ordinario e imporrebbe sempre il doppio grado di giudizio. Secondo parte della giurisprudenza, ai sensi dell' art. 112, commi 3 e 4, c.p.a., la domanda risarcitoria è proponibile nel processo di ottemperanza sia per i danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, sia per quelli derivanti dall'originario illegittimo esercizio della funzione pubblica; in quest'ultimo caso, tuttavia, la legge impone il rispetto delle forme, dei modi e dei termini del processo ordinario e dunque anche del principio del doppio grado di giudizio, sicché siffatta domanda può essere avanzata in sede di ottemperanza solo nei giudizi innanzi ai Tar e non in quelli concernenti un giudicato formatosi su sentenza del Consiglio di Stato (Cons. St. V, n. 2031/2011; in senso conforme Cons. St. III, n. 2693/2011). La tesi veniva fondata sulle seguenti argomentazioni: a) in un contesto normativo complessivamente attentissimo alla definizione delle regole sulla competenza, una deroga al riparto T.A.R. — Consiglio di Stato avrebbe dovuto esprimersi in modo chiaro ed esplicito; b) l'azione risarcitoria «isolata», proposta dopo il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, vuoi per i danni direttamente discendenti dal cattivo esercizio della funzione pubblica, vuoi per i danni derivanti dalla mancata esecuzione del giudicato, appartiene sempre alla cognizione del T.A.R., nella logica propria del doppio grado; c) allorquando il codice ha inteso consentire, in materia di ottemperanza, in deroga agli ordinari criteri di distribuzione della competenza in senso verticale, che sia portata all'attenzione diretta del Consiglio di Stato la domanda risarcitoria (quella collegata all'inesecuzione del giudicato ex art. 112, comma 3), lo ha fatto senza richiamarsi ai limiti, alle forme ed ai modi dell'ordinario processo di cognizione. Tale tesi non era del tutto convincente se si tiene conto che la competenza del giudice dell'ottemperanza è disciplinata dall' art. 113 c.p.a., che prevede appunto anche ipotesi di competenza del Consiglio di Stato in unico grado, non potendo il criterio di distribuzione tra più giudici della potestas judicandi variare a seconda che venga proposta una ulteriore domanda (di risarcimento). Inoltre, la già ricordata ammissibilità del cumulo di domande ex art. 32 rendeva superflua la disposizione del comma 4 dell'art. 112, se limitata nel senso della richiamata giurisprudenza. Segue. Le novità introdotte dal decreto correttivo.Il dubbio interpretativo circa l'esatta interpretazione dell'art. 112, comma 4, e il rischio che la tesi fatta propria dalla giurisprudenza citata potesse vanificare la novità della possibilità di proporre domande di risarcimento in sede di ottemperanza hanno fatto sì che la questione sia stata oggetto di valutazione in sede di primo correttivo al Codice. Da un lato, è stata rappresentata l'esigenza di consentire al ricorrente una semplificazione nella propria tutela proprio nei casi in cui ottemperanza e risarcimento sono legati da uno stretto legame, espresso a volte in termini di complementarietà, altre volte di alternatività; sotto altro profilo, è stato prospettato il rischio di ampliare eccessivamente la proponibilità in sede di ottemperanza di domande a contenuto cognitorio, quale quella di risarcimento, in deroga alla regola del doppio grado di giudizio. La soluzione prevalsa è stata quella di abrogare l'intero comma 4 dell'art. 112, che aveva creato i problemi interpretativi e, contestualmente, di ampliare l'ambito di applicazione del comma 3, chiarendo che quando la domanda di risarcimento è proponibile in sede di ottemperanza viene rispettata la competenza del giudice dell'ottemperanza, anche in deroga al doppio grado di giudizio. La nuova formulazione del comma 3 dell'art. 112 prevede che «3. Può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione.». La novità risiede nell'ultimo periodo dove viene ammessa, in sede di ottemperanza, l'azione di risarcimento dei «danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione», in luogo della precedente e più restrittiva formula dei «danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato». Il risultato è che in sede di ottemperanza non è più proponibile una qualsiasi domanda risarcitoria, purché connessa con l'ottemperanza, ma la sola domanda di risarcimento dei danni «connessi» alla mancata esecuzione o impossibilità di esecuzione del giudicato (totali o parziali), oltre che alla violazione o elusione sempre del giudicato. La sostituzione del termine «danni derivanti» con «danni connessi» estende l'ambito di applicazione della disposizione oltre i meri danni maturatisi dopo il giudicato di annullamento, ricomprendendo i danni connessi anche alla impossibilità, totale o parziale, di dare esecuzione al giudicato. Un ulteriore limite alla proposizione di domande di risarcimento in sede di ottemperanza è costituito dal rispetto del principio del ne bis in idem, tenuto conto che la parte, la quale in sede di decisione giurisdizionale non abbia ottenuto dal giudice adito il risarcimento del danno richiesto, non può riproporre con un giudizio di ottemperanza il petitum che gli era stato espressamente negato dalla sentenza ottemperanda, ostandovi appunto il principio del ne bis in idem e anche i confini propri del giudizio di ottemperanza (Cons. St. VI, n. 12/2018). Le descritte modifiche apportate dal correttivo al Codice all'art. 112 rendono più chiari i limiti per la proposizione della domanda di risarcimento in sede di ottemperanza, anche se può residuare qualche profilo problematico. È già stato evidenziato come l'utilizzo del termine «connessi» in luogo di «derivanti» consente di proporre in sede di ottemperanza domande di risarcimento di danni già subiti per effetto dell'attività amministrativa oggetto del giudizio di annullamento. Rispetto alla disciplina antecedente il c.p.a. possono, quindi, essere chiesti in sede di ottemperanza non solo i danni successivi al giudicato, ma anche quelli antecedenti, mentre rispetto al primo testo del c.p.a. entrato in vigore non è sufficiente una semplice connessione tra risarcimento e ottemperanza, ma è necessario che la connessione sia riferita alla impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione. Le locuzioni «totale e parziale» vanno riferite sia alla mancata esecuzione che alla impossibilità [di esecuzione] del giudicato e, di conseguenza, la domanda di risarcimento può essere sia alternativa alla esecuzione del giudicato, sia complementare alla stessa quando l'esecuzione è possibile solo in parte. La giurisprudenza ha subito affermato che è ammissibile la richiesta di risarcimento del danno per equivalente derivante dalla mancata esecuzione del giudicato proposta direttamente in sede di ottemperanza davanti al Consiglio di Stato. Non si viola il principio del doppio grado di giudizio di cui all' art. 125 Cost., poiché quest'ultimo comporta soltanto l'impossibilità di attribuire al Tar competenze giurisdizionali in unico grado, non potendo l' art. 125 Cost. comportare l'inverso, perché nessun'altra norma della Costituzione indica il Consiglio di Stato come giudice solo di secondo grado (Cons. St. V, n. 661/2012, che ha comunque ritenuto che la modifica all' art. 112 c.p.a. apportata dal correttivo sia applicabile d'ufficio in ogni stato e grado di giudizio). Riprendendo l'esempio in materia di appalti, senza approfondire in questa sede le complesse questioni inerenti la domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto, il ricorrente può chiedere in sede di ottemperanza sia l'esecuzione del giudicato di annullamento, sia il risarcimento; se l'esecuzione è divenuta impossibile, la (alternativa) azione di risarcimento rappresenterà l'unica forma di tutela, mentre se l'esecuzione in forma specifica è possibile solo in parte, la (complementare) azione di risarcimento integrerà la tutela. In sede di ottemperanza è ammissibile la domanda di risarcimento in forma specifica con cui il soggetto secondo graduato, dopo aver ottenuto da parte del g.a. la pronuncia di annullamento dell'aggiudicazione, chiede al giudice dell'esecuzione l'aggiudicazione in suo favore della gara, previo accertamento della inefficacia dell'originario contratto. Deve essere accolta la domanda di reintegrazione in forma specifica avanzata in sede di esecuzione del giudicato formatosi su una sentenza che ha annullato l'aggiudicazione precedente, nel caso in cui: a) sussistano i presupposti per la dichiarazione di inefficacia del contrattoex art. 122 (non rientrando la fattispecie nell'ipotesi di annullamento dell'aggiudicazione per gravi violazioni ex art. 121, comma 1); b) il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo per la stazione appaltante di rinnovare la gara, ma solo lo scorrimento della graduatoria, nella quale la ricorrente si è classificata seconda, con offerta peraltro successivamente valutata come non anomala dall'Amministrazione; c) a tale dichiarazione non ostino né la natura dell'appalto (nella specie, di servizi, nel quale classicamente un appaltatore può sostituirsi all'altro nella esecuzione delle prestazioni di capitolato senza particolari disfunzioni), né lo stato di esecuzione del contratto (Cons. St. III, n. 6638/2011). In questi casi, l'azione di risarcimento è possibile anche in unico grado davanti al Consiglio di Stato e ciò non dovrebbe comportare alcun problema di costituzionalità, non essendo — come già detto — costituzionalizzato il principio del doppio grado di giudizio. Il giudizio si svolge secondo il rito camerale, non essendo stata inserita nel comma 3 la necessità di rispettare forme, modi e termini del processo ordinario e, di conseguenza, al procedimento, che si svolge in camera di consiglio, si applicano i termini del procedimento ordinario ridotti alla metà: la camera di consiglio deve svolgersi alla prima udienza utile decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione del ricorso e le parti possono produrre documenti fino a venti giorni liberi prima della camera di consiglio,e memorie fino a quindici giorni liberi prima e presentare repliche fino a dieci giorni liberi prima (ex artt. 73, comma 1 e 87, commi 2 e 3). Resta la questione di diritto transitorio dei giudizi, instaurati dopo l'entrata in vigore del c.p.a. e prima del correttivo: se proposti davanti al Tar, non vi dovrebbe essere alcun problema, dovendosi applicare la più ampia disposizione che consent(iva) il cumulo delle domande (art. 112, comma 4); se, invece, proposti in unico grado davanti al Consiglio di Stato per danni antecedenti al giudicato e rientranti nel nuovo concetto di connessione del sostituito comma 3, senza necessità di approfondire l'esatta interpretazione dell'abrogato comma 4, dell'art. 112, si può applicare il principio, secondo cui l' art. 5 c.p.c., che esclude la rilevanza dei mutamenti in corso di causa della legge — oltre che dello stato di fatto — in ordine alla determinazione della competenza, va interpretato in conformità alla sua ratio, che è quella di favorire, non già di impedire, la perpetuatio iurisdictionis, sicché, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della proposizione della domanda, non può l'incompetenza essere dichiarata se quel giudice sia diventato competente in forza di legge entrata in vigore nel corso del giudizio. Cfr., fra tutte, Cass.S.U., n. 20776/2010. In senso conforme, è stato rilevato che il d.lgs. n. 195/2011 che ha modificato il comma 3 dell'art. 112, il quale rende proponibile l'azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione, è applicabile d'ufficio in ogni stato e grado di giudizio ( Cons. St. V, n. 661/2012). La questione dell'esatta interpretazione dell'abrogato comma 4 dell'art. 112 resterebbe rilevante solo per i casi di domande risarcitorie non rientranti nel concetto di connessione del nuovo comma 3; casi che, tuttavia, non dovrebbero essere frequenti. Per i termini entro cui proporre la domanda di risarcimento si applicano i principi di cui all'art. 30, al cui commento si rinvia. Segue. Ottemperanza delle sentenze di rigetto. Danni e pronunce riformate in appelloIn sede di commento all'art. 30 è stato trattato il tema del danno derivante da atti amministrativi posti in essere in esecuzione di pronunce del giudice, poi riformate (v. il corrispondente par.). Si tratta di ipotesi in cui un appalto è stato aggiudicato in base ad una pronuncia del giudice (cautelare o di primo grado), poi riformata in sede di giudizio di merito o in appello. In passato, era stato ritenuto che in questi casi alcun addebito poteva essere mosso alla stazione appaltante, che aveva correttamente individuato il contraente della P.A., ma era stata poi «costretta» ad eseguire una sentenza rivelatasi poi errata (Cons. St. V, n. 5789/2002). In sostanza, vi è un soggetto (quello sbagliato) che ha svolto il rapporto con la P.A. e altro soggetto, a cui spettava l'aggiudicazione, che non ha potuto farlo a causa dell'avvenuta esecuzione di una decisione giurisdizionale, poi riformata, senza quindi che si sia verificato alcun errore da parte dell'amministrazione. Vi è sicuramente un danno, ma è difficile pervenire al risarcimento. Sulla questione è intervenuta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in un caso in cui la domanda di risarcimento del danno era stata proposta dall'originario aggiudicatario, individuato correttamente dall'amministrazione, che non aveva potuto stipulare ed eseguire il contratto perché, in esecuzione di una sentenza del Tar non sospesa, l'amministrazione aveva nel frattempo stipulato il contratto con il secondo classificato vincitore nel giudizio di primo grado, il cui esito era stato poi ribaltato in appello quando ormai i lavori erano già stati eseguiti dal soggetto sbagliato. L'Adunanza plenaria ha escluso che possa appartenere alla giurisdizione amministrativa la domanda che la parte privata danneggiata dall'impossibilità di ottenere l'esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell'altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo (rectius, provvedimento adottato in esecuzione di una sentenza poi riformata). Tuttavia, ha condannato la stazione appaltante al risarcimento del danno, riconoscendo la sussistenza di una obbligazioneex lege scaturente dal fatto oggettivo dell'impossibilità di eseguire il giudicato, ricordando che sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia non è necessario provare la colpa dell'amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria. In questi casi la responsabilità potrebbe essere esclusa solo dalla mancanza o dal venir meno della antigiuridicità della condotta o del nesso di causalità, invece presente nel caso concreto essendoci profili di imprudenza in capo all'amministrazione ( Cons. St.,Ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2, che non ha escluso che l'amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell' art. 112, comma 3, c.p.a., possa vantare un'azione di regresso nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato, collegata a un'obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco, non proposta nel caso di specie e quindi non esaminata neanche sotto il profilo della sussistenza della giurisdizione). L'Adunanza plenaria ha ricondotto tale domanda di risarcimento all'art. 112, comma 3, qualificando il danno come connesso alla impossibilità di portare in esecuzione il giudicato, essendo il rapporto ormai svoltosi con il soggetto sbagliato. A ben vedere, in un caso come quello affrontato dalla Plenaria, si era in presenza di un giudicato con cui il ricorso originario era stato respinto e ciò rievoca la tematica della possibilità di utilizzare il giudizio di ottemperanza in relazione a sentenze di rigetto dei ricorsi. La giurisprudenza tende ad escludere che il giudizio di ottemperanza possa essere proposto in relazione a sentenze di rigetto (Cons. St., 15 luglio 1998 n. 1060), non producendo alcun effetto di accertamento e tanto meno costitutivo, lasciando invariato l'assetto giuridico dei rapporti determinato dal provvedimento impugnato, rispetto al quale nulla viene tolto e nulla viene aggiunto (Cons. St. VI, 26 marzo 2013 n. 1675; Cons. St., V, 19 settembre 2008 n. 4523, che afferma la validità di principio anche quando il rigetto è pronunciato dal Consiglio di Stato in riforma di una sentenza del Tar di accoglimento dell'originario ricorso). In senso conforme anche la dottrina che ritiene le sentenze di rigetto insuscettibili di ottemperanza (Caringella – Protto, Manuale di dir. proc. amm., 1123), anche se qualora nelle sentenze di rigetto siano contenute prescrizioni sostanziali, è stato ipotizzata l'ammissibilità dell'ottemperanza (Scoca, 203; Tarullo, 12). Nei casi in precedenza descritti la sentenza di rigetto determina il definitivo accertamento dell'originario provvedimento adottato dalla p.a., che non deve adottare atti in esecuzione del giudicato, ma semmai rimuovere atti posti in essere di decisioni del giudice non confermate e l'eventuale impossibilità non riguarda, quindi, l'esatta esecuzione del giudicato, ma è connessa agli effetti irreversibili di atti, successivamente travolti dal giudicato. Come rilevato in sede di commento all'art. 30, in questi casi appare mancare la antigiuridicità della condotta, che si è concretizzata nell'individuare l'aggiudicatario giusto e nel dare esecuzione ad una sentenza non sospesa del giudice, benché poi riformata. In tali ipotesi sembra preferibile lasciare alla parte danneggiata l'azione diretta (davanti al g.o.) nei confronti del beneficiario dell'atto posto in esecuzione di una decisione del giudice adottata su suo ricorso (atto poi travolto automaticamente dal diverso esito finale del contenzioso). Rivalutazione, interessi ed ottemperanzaLa rivalutazione monetaria e gli interessi ben possono essere fatti valere in sede esecutiva, per la prima volta, con la speciale azione prevista dall'art. 27, n. 4), t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 ( Cons. St. V, 22 aprile 1992, n. 356, Cons. St. 1992, I, 572; Cons. St. V, 12 novembre 1992, n. 1301, Foro amm., 1992, 2598 ).I crediti per rivalutazione monetaria ed interessi possono essere fatti valere anche in sede esecutiva, per la prima volta, con la speciale azione prevista dall'art. 27, n. 4), t.u. 26 giugno 1924, n. 1054, quando manchi un giudicato, almeno implicito, di reiezione della domanda di parte (Cons. St. IV, 22 gennaio 1991, n. 29, Cons. St. 1991, I, 6). Appartiene al giudice ordinario la domanda di rivalutazione monetaria ed interessi di credito di valuta nascente da giudicato dell'ago proposta dinanzi di Consiglio di Stato in sede di ricorso ex art. 27, n. 4), r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (Cons. St. IV, 1° febbraio 1991, n. 63, Foro amm., 1991, 329). Interessi e rivalutazione non possono essere chiesti per la prima volta in sede di ottemperanza, considerato che si tratta di domanda accessoria di cognizione, che va articolata nel giudizio di cognizione e che, nel giudizio di ottemperanza, possono essere chiesti solo gli accessori maturati dopo la sentenza di cui si chiede l'esecuzione (l'art. 112, comma 3, codifica del resto un principio immanente all'ordinamento; Cons. St. VI, n. 3371/2014). La richiesta di chiarimenti sulle modalità dell'ottemperanzaPuò a volte risultare incerto l'esatto contenuto dell'obbligo conformativo che grava sulla p.a., ma ciò non esonera l'amministrazione dall'assolvere il proprio compito (obbligo) di dare corretta attuazione al giudicato e, proprio per risolvere tali incertezze, è stato previsto che il ricorso in ottemperanza «può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza»; può, quindi, essere proposto dalla stessa amministrazione per ottenere tali chiarimenti. Il ricorso, ex art. 112, comma 5, c. proc. amm., proposto al fine di «ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell'ottemperanza», non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza ( Cons. St. Ad. plen. n. 2/2013). In sostanza, il ricorso, previsto dall' art. 112 comma 5, c.p.a. per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza ad una sentenza del giudice amministrativo, ha natura giuridica diversa dall'azione di ottemperanza propriamente detta, non potendo essere qualificato quale semplice strumento di «¿attuazione¿» del comando giudiziale (ex art. 112 comma 2), né come mera azione «esecutiva» in senso stretto (ex art. 112 comma 3); inoltre è di regola proponibile dalla stessa parte soccombente nel giudizio di cognizione atteso che, normalmente, la parte vittoriosa non chiede chiarimenti circa le modalità di ottemperanza ma direttamente l'ottemperanza ex art. 112 comma 2, ovvero la condanna dell'Amministrazione nelle ulteriori ipotesi ex art. 112 comma 3; né presuppone, come l'azione di ottemperanza, una espressa volontà di non ottemperanza o una situazione di inottemperanza, né una situazione di violazione o di elusione del giudicato, presupponendo piuttosto dubbi o incertezze sull'esatta portata del comando giuridico oggetto dell'obbligo conformativo; né ancora può essere attribuita la natura di incidente di esecuzione, ex art. 114, comma 7, ponendosi esso dal punto di vista logico-sistematico al di fuori del vero e proprio giudizio di ottemperanza. In definitiva il ricorso in esame ha specifica natura di azione volta all'accertamento dell'esatto contenuto della sentenza e/o del provvedimento ad essa equiparato che, per intervenuta soccombenza in precedente giudizio, si è ora tenuti ad attuare/eseguire quanto al comando contenuto. Il ricorso rivolto al giudice per ottenere «chiarimenti in ordine alle modalità dell'ottemperanza» non può essere proposto dal commissario «ad acta», posto che se vi è commissario «ad acta» nominato, vi è già stato giudizio di ottemperanza, il che esclude la proponibilità del ricorso ex art. 112, comma 5; ciò salvo che la nomina sia avvenuta già con la sentenza di merito che conclude il giudizio di cognizione, ex art. 34, comma 1, lett. e): in questo caso, però, occorre più propriamente parlarsi di istanza di chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza ad opera dell'ausiliario del giudice, inserite «lato sensu» nell'ambito del (già instaurato) giudizio di ottemperanza. Cons. St. IV, n. 6468/2012. In senso parzialmente contrario, è stato ritenuto che l'azione di ottemperanza può essere proposta anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell'ottemperanza e, ai sensi del successivo art. 114, il giudice amministrativo può fornire tali chiarimenti anche su richiesta del Commissario; peraltro i quesiti interpretativi da sottoporre al giudice dell'ottemperanza devono attenere alle modalità dell'ottemperanza e devono avere i requisiti della concretezza e della rilevanza, non potendosi sottoporre al giudice dell'ottemperanza questioni astratte di interpretazione del giudicato, ma solo questioni specifiche che siano effettivamente insorte durante la fase di esecuzione del giudicato (Cons. St. IV, n. 5409/2015). Dal combinato disposto degli artt. 112, comma 5, e 114, comma 7, si desume che la richiesta di chiarimenti al giudice può essere proposta dalle parti del processo di cognizione come dallo stesso commissario ad acta. In entrambi i casi le forme sono quelle di una domanda giudiziale, non solo quale mezzo proprio di investitura del giudice del quesito, ma anche quale strumento della garanzia del contraddittorio, che pure va rispettata anche nel corso degli incidenti di esecuzione (Cons. St. VI, n. 914/2015). La richiesta di chiarimenti presuppone elementi di dubbio o di non immediata chiarezza nella sentenza ottemperanda, per ottenere precisazioni e delucidazioni sui punti della decisione ovvero sulle concrete modalità di esecuzione, senza perciò che possano essere introdotte ragioni di doglianza volte a modificare o integrare l'oggetto delle statuizioni rese, né allo scopo di investire il giudice di questioni che devono trovare la loro corretta risoluzione nella sede dell'esecuzione della sentenza nell'ambito del rapporto tra le parti e l'Amministrazione (Cons. St. VII, n. 7742/2023), anche se va rilevato come con i chiarimenti possa essere integrato il contenuto del precetto conformativo (Cons. St. VII, n. 3409/2023, resa su istanza di chiarimenti proposta da una parte del giudizio diversa dall'amministrazione). La richiesta di chiarimenti presuppone elementi di dubbio o di non immediata chiarezza nella sentenza ottemperanda, per ottenere precisazioni e delucidazioni sui punti della decisione ovvero sulle concrete modalità di esecuzione, senza perciò che possano essere introdotte ragioni di doglianza volte a modificare o integrare l'oggetto delle statuizioni rese, né allo scopo di investire il giudice di questioni che devono trovare la loro corretta risoluzione nella sede dell'esecuzione della sentenza nell'ambito del rapporto tra le parti e l'Amministrazione (Cons. St. VII, n. 7742/2023), anche se va rilevato come con i chiarimenti possa essere integrato il contenuto del precetto conformativo (Cons. St. VII, n. 3409/2023, resa su istanza di chiarimenti proposta da una parte del giudizio diversa dall'amministrazione). Con riferimento all'appellabilità delle pronunce che forniscono chiarimenti ex artt. 112, comma 5, e 114, comma 7, vi sono tesi che attribuiscono alla decisione emessa a seguito dell'esperimento del rimedio previsto dall'art. 112, comma 5 c.p.a. - eventualmente in combinato disposto con il successivo art. 114, comma 7 - sia il rilievo di mero incidente di esecuzione, sia di accertamento autonomo dell'esatto contenuto della sentenza da eseguire. E' stato evidenziato che è decisivo assodare, volta per volta, quale sia il contenuto effettivo del provvedimento (indipendentemente dalla veste formale di ordinanza o sentenza) adottato dal Tar: le statuizioni rese in primo grado nell'ambito di un giudizio di ottemperanza che abbiano effetti meramente esecutivi e dunque sostanzialmente ordinatori (essendo prive di natura decisoria definitiva), non sono appellabili, restando in tutti gli altri casi la regola generale della impugnabilità di tutte le decisioni rese dal giudice di primo grado in sede di ottemperanza (Cons. St. IV, n. 2141/2018). E' stata rimessa alla Adunanza plenaria la questione se, in sede di ricorso per chiarimenti “in ordine alle modalità di ottemperanza” di cui all'art. 112, comma 5, c.p.a., sia possibile, per il giudice, modificare la statuizione sulla penalità di mora già resa con la decisione di ottemperanza e – in caso di risposta positiva – se la modifica possa incidere retroattivamente sui crediti già maturati a titolo di penalità (Cons. St. V, ord. n. 1457/2019). La Adunanza plenaria ha stabilito che è sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d'ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione. Salvo il caso delle sopravvenienze, l'unica modifica apportabile in sede di chiarimenti è possibile solo ove il giudice dell'ottemperanza non abbia esplicitamente fissato il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità della penalità di mora (v. art. 114; Cons. St. Ad. plen., n. 7/2019). BibliografiaChieppa, Il Codice del processo amministrativo, Milano, 2011; Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989; Daidone – Patroni Griffi, Il giudizio di ottemperanza, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1019; De Vita, Il giudizio di ottemperanza, in sito Giustizia Amministrativa – Dottrina, dicembre 2018; Di Marzio, Art. 323 c.p.c., in Di Marzio (a cura di) Codice di procedura civile, Milano, 2016; Guicciardi, La giustizia amministrativa, Padova, 1942 (rist. 1994); Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984; Pepe, Giudicato amministrativo e sopravvenienze, Napoli, 2017; Scoca, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza (Atti del convegno di Varenna del 1981), Milano, 1983, 205; Tarullo, Il giudizio di ottemperanza alla luce del Codice del processo amministrativo, in giustamm.it, n. 2/201; Travi, Processo amministrativo e azioni di risarcimento del danno: il risarcimento in forma specifica, in Dir. proc. amm. 2003, 994. |