Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 117 - Ricorsi avverso il silenzio

Maurizio Santise

Ricorsi avverso il silenzio

Art. 117

1. Il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con atto notificato all'amministrazione e ad almeno un controinteressato nel termine di cui all'articolo 31, comma 2.

2. Il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata e in caso di totale o parziale accoglimento il giudice ordina all'amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni.

3. Il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata.

4. Il giudice conosce di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario.

5. Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito.

6. Se l'azione di risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 30, comma 4, è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria.

6-bis. Le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4 e 6, si applicano anche ai giudizi di impugnazione 1.

Note operative

Tipologia di azione Termine Decorrenza
Azione avverso il silenzio - Azione di risarcimento del danno subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento 1 anno - 1 anno e 120 giorni Dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento - Dalla scadenza del termine per provvedere (se l'inadempimento cessa prima dell'anno i 120 giorni decorrono dalla cessazione dell'inadempimento, ovvero dalla data del provvedimento adottato con ritardo).

Inquadramento

L'art. 117 detta la disciplina processuale del rito speciale sul silenzio serbato dall'amministrazione in relazione ad un'istanza che comporta l'obbligo di provvedere. La norma deve essere letta unitamente all' art. 31, commi 1-3, all'art. 87 del c.p.a. che completano la disciplina del silenzio inadempimento sparsa per il codice

e all'art. 133, n. 3 che prevede la giurisdizione esclusiva.

Il rito sul silenzio, come emerge dalla sua collocazione, è speciale, rientrando nel libro quarto, dedicato all'ottemperanza e ai riti speciali, ed essendo caratterizzato da un rito particolarmente accelerato teso a stimolare il provvedimento della p.a., per dissipare la situazione di incertezza provocata dal silenzio serbato dall'amministrazione.

A tal fine, il relativo giudizio inizia con ricorso, che non richiede la previa diffida, è trattato in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 87, e si conclude con una sentenza in forma semplificata, perché succintamente motivata.

Il termine per proporre il ricorso

Il rito sul silenzio inadempimento si introduce con ricorso che può essere proposto fintanto che perdura l'inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza dell'obbligo a provvedere. Si tratta di un termine di impugnazione molto ampio per instaurare un giudizio innanzi al giudice amministrativo, in quanto il termine tradizionale per impugnare il provvedimento amministrativo è di 60 giorni (art. 29), salvo il dimezzamento imposto dai riti speciali (art. 119 ss.), mentre il termine per proporre l'azione di nullità è di 180 giorni (31, comma 4). Con riguardo, invece, all'azione di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, il termine di 120 giorni per proporre l'azione decorre dal giorno della verificazione del fatto o dalla conoscenza del provvedimento e, comunque, dal passaggio in giudicato della sentenza che si è pronunciata sull'azione di annullamento. In tali casi il termine per proporre l'azione di risarcimento del danno verosimilmente supererà l'anno dalla verificazione del fatto. Nel caso di domanda di risarcimento del danno per inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento il termine di 120 giorni decorre dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere.

Il termine per instaurare il giudizio sul silenzio rientra a pieno titolo tra quelli più ampi concessi all'interessato, in considerazione del fatto che la p.a. non è intervenuta con un apposito provvedimento e, quindi, ha creato una situazione di incertezza che consente un'azione in termini più ampi rispetto a quelli previsti per l'azione di annullamento, in relazione alla quale l'esigenza di intervenire tempestivamente è dettata dal fatto che esiste un provvedimento amministrativo che ha disciplinato una determinata vicenda.

La giurisprudenza ha confermato che il rito del silenzio — inadempimento, di cui all'art. 117, è un rito in camera di consiglio cui si applica l' art. 87 comma 3, c.p.a., per il quale sono dimezzati tutti i termini processuali, tranne quelli per la notificazione del ricorso principale, di quello incidentale e dei motivi aggiunti; è, pertanto, dimezzato il termine ordinario di deposito del ricorso, di cui all'art. 45 comma 1, da intendersi ridotto da trenta a quindici giorni, e decorrente dal momento in cui l'ultima notificazione dell'atto processuale si è perfezionata anche per il destinatario ( T.A.R. Sardegna, II, 21 dicembre 2016, n. 975).

La giurisprduenza ha, peraltro, chiarito che l’atto di diffida non è di per sé idoeneo a interromepre il temrine annuale entro cui va proprosto il ricorso per il silenzio iunadempimento.

In particolare, T.A.R. Campania I, n. 329/2022 ha evidenziato che in seguito al ricevimento dell’atto di diffida l’Amministrazione non è tenuta per ciò solo ad avviare un nuovo iter procedimentale, come invece avviene in caso di nuova istanza. La diffida, invero, quale atto di natura extra-processuale con cui si intima formalmente un soggetto ad astenersi da un determinato comportamento o a compiere una determinata attività, avvertendolo contestualmente delle conseguenze derivanti dal protrarsi dell’inadempimento, produce il solo effetto di sollecitare l’esecuzione di una prestazione afferente ad un’obbligazione già sorta. L’istituto in parola, pertanto, non sembra ontologicamente idoneo a produrre effetti novativi che, al contrario, si determinano solo con la proposizione di una domanda di avvio di un nuovo procedimento, come peraltro espressamente previsto dal richiamato secondo periodo dell’art. 31, comma 2, c.p.a.

La sentenza in forma semplificata

Il comma secondo precisa che la sentenza è resa in forma semplificata. Il riferimento è all'art. 74, che contempla in generale tale tipo di sentenza, qualora il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato, secondo un modello comune anche al procedimento amministrativo che, all'art. 2, comma 1, prevede il provvedimento semplificato. In entrambe le norme si individua la caratteristica principale della sentenza in forma semplificata nella possibilità che la stessa faccia «un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo». Non si tratta, tuttavia, di derogare ai principi generali relativi all'ordine di trattazione delle questioni, come delineati dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 5/2015), ma di rendere maggiormente sintetica la motivazione della sentenza che, comunque, non può mancare né essere eccessivamente superficiale. Sul punto si veda sub art. 74.

Se accoglie il ricorso, anche parzialmente, il giudice ordina all'amministrazione di provvedere entro un termine perentorio, non superiore, di norma, a trenta giorni. La norma si salda all'art. 31, comma 3, che consente al giudice di accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio in caso di attività vincolata o quando non residuino ulteriori margini di discrezionalità e non siano necessari ulteriori adempimenti istruttori. Qualora ricorrano tali ipotesi (su cui si veda amplius l'art. 31), il giudice amministrativo emetterà una sentenza di condanna ad adottare un provvedimento specifico e non si limiterà semplicemente a condannare l'amministrazione ad adottare il provvedimento conclusivo del procedimento.

Si discute se in presenza di un'istanza volta ad ottenere un determinato provvedimento il giudice amministrativo possa scegliere di limitarsi ad adottare la più morbida pronuncia di condanna a concludere il provvedimento.

Il dubbio sorge perché l'art. 31, comma 3, utilizza il termine «può».

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tuttavia, non consente una tale lettura, in quanto il giudice amministrativo è obbligato ad emettere una sentenza di condanna a rilasciare il provvedimento richiesto se sussistono i presupposti.

In tal senso si pone anche la dottrina che ha evidenziato come la pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio non può essere considerata come una mera facoltà perché risulterebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Guacci, 1210).

La nomina del commissario ad acta

Il comma 3 prevede che il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta.

Bisogna distinguere il tipo di sentenza che il giudice ha emanato e il comportamento successivo che la p.a. ha tenuto.

Se la sentenza ha condannato la P.A. a concludere il procedimento amministrativo, il vincolo sull'attività della P.A. è molto limitato, perché la stessa potrà adottare qualunque tipo di provvedimento, non emergendo in tal senso alcun vincolo conformativo dalla sentenza che si è limitata a condannare la p.a. ad adottare solo un provvedimento di conclusione del procedimento. In tali casi, se la p.a. continua ad essere inerte, il giudice amministrativo può nominare un commissario ad acta che si sostituirà all'amministrazione. Gli atti del commissario non subiscono alcun vincolo dalla regola giudiziale e, quindi, devono essere considerati veri e propri provvedimenti amministrativi impugnabili in via ordinaria.

Qualora, invece, l'amministrazione si attivi ed emetta il provvedimento amministrativo questo può essere impugnato solo in via ordinaria.

Se, invece, il giudice accertata la fondatezza della pretesa sostanziale, la p.a. deve limitarsi ad emettere il provvedimento indicato dal giudice. In caso di inerzia, il commissario ad acta nominato dal giudice emetterà il provvedimento come ausiliario del giudice e tutte le questioni relative al provvedimento richiesto, ivi comprese quelle del commissario ad acta, dovranno essere proposte con istanza innanzi al giudice del silenzio.

Sul punto la giurisprudenza ha precisato che la figura del commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell'amministrazione (in tema di cd. silenzio-inadempimento) non dà vita ad un vero e proprio giudizio di ottemperanza rientrante nella giurisdizione di merito ex art. 134, comma 1, lett. a), ma, piuttosto, ad una cd. « ottemperanza anomala », cosicché i provvedimenti commissariali sono impugnabili con l'ordinario ricorso impugnatorio e non già con lo strumento del reclamo dinanzi al giudice dell'ottemperanza (T.A.R. Calabria (Catanzaro) I, 26 gennaio 2017, n. 82).

Nello stesso senso si è precisato che l'art. 117, prevede l'intervento del commissario ad acta nell'ambito del processo avverso il silenzio-inadempimento senza necessità di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l'illegittimità del silenzio, sicché, sotto un profilo procedurale, alla fase di cognizione sull'inadempimento dell'amministrazione si lega, senza soluzione di continuità, la successiva fase esecutiva. L'attività del commissario ad acta, posta in essere in esecuzione della sentenza che rimuova la situazione di inerzia imputabile alla pubblica amministrazione, non si limita, come nel vero e proprio giudizio di ottemperanza, al completamento e all'attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell'attività amministrativa, ma si atteggia come attività di pura sostituzione nell'esercizio del potere proprio dell'amministrazione soccombente ed è collegata alla pronuncia giudiziale solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell'amministrazione medesima ( Cons. St. VI, n. 557/2016).

L’Adunanza plenaria n. 8/2021 ha però precisato che il potere esercitato dal commissario ad acta, ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare.

“Anche nel caso in cui – come nel giudizio sul silenzio serbato dall’amministrazione su istanza del privato (ed al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 31 c.p.a.) – la sentenza sancisce esclusivamente l’“obbligo di provvedere” dell’amministrazione sull’istanza, l’esercizio del potere del commissario trova comunque il proprio fondamento nella sentenza perché è sempre nella decisione che si riscontra la giustificazione (genetica e funzionale) del distinto potere esercitato.

Proprio per tali ragioni sin qui esposte (oltre che per una opportuna e condivisibile esigenza di speditezza ed economicità dei mezzi processuali), il codice del processo amministrativo rimette al giudice dell’ottemperanza (art. 114, comma 6) la decisione sulle questioni “inerenti agli atti del commissario ad acta” e al giudice del silenzio (art. 117, comma 4) la decisione sulle questioni “relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto”.

In ambedue le ipotesi, proprio perché gli atti adottati non sono espressione di autonomo esercizio di potere amministrativo (propriamente detto), la tutela avverso gli stessi deroga alle ordinarie regole del giudizio di cognizione ed è affidata al giudice del quale il commissario che ha adottato gli atti contestati costituisce l’ausiliario” (punto 5.2 della motivazione).

La dottrina  evidenzia in proposito come gli atti del commissario ad acta nominato dal giudice del silenzio sono impugnabili con le azioni di cognizione in sede di giudizio ordinario (Lopilato, 1098).

Il provvedimento sopravvenuto e la conversione del rito

Qualora nel corso del giudizio sopravvenga il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, il ricorrente potrà impugnarlo con ricorso per motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento e l'intero giudizio proseguirà con tale rito. Nella classica ipotesi di impugnazione di un provvedimento soggetto al rito ordinario, il giudice del silenzio dovrà disporre la conversione del rito camerale in rito ordinario, ai sensi dell'art. 32, comma 2.

In alcuni casi la giurisprudenza ha optato per l'emanazione di una sentenza parziale con cui si accerta la violazione dell'obbligo di provvedere e con separata ordinanza si dispone la prosecuzione del processo, previa conversione del rito (T.A.R. Calabria (Catanzaro), II, 2 settembre 2011, n. 1261).

L'azione risarcitoria

Il comma 6 prevede espressamente la possibilità di proporre nel giudizio sul silenzio inadempimento l'azione di risarcimento del danno. Si tratta di un'applicazione della regola contenuta nell'art. 32 che ammette, nello stesso giudizio, il cumulo di domande connesse sia in via principale che in via incidentale; si risolvecosì il problema del rito applicabile, dando prevalenza a quello ordinario.

Ne deriva, quindi, che se nel giudizio sul silenzio viene proposta la domanda risarcitoria, il rito avverso il silenzio dovrà essere convertito in rito ordinario, con la fissazione dell'udienza pubblica.

L'impostazione prevalente in giurisprudenza, tuttavia, è che il comma 6 non impone al giudice del silenzio di convertire il rito ben potendo questi decidere la domanda risarcitoria anche con il rito semplificato.

Espressione di questa impostazione è T.A.R. Sicilia (Palermo) II, 22 luglio 2015, n. 1833, secondo cui l'art. 117, comma 6, non impone al Giudice Amministrativo di disporre sempre la conversione del rito nel caso in cui venga esercitata una azione risarcitoria unitamente al ricorso contro il silenzio della Pubblica Amministrazione; da ciò si deve inferire la possibilità per il Giudice di definire tale azione anche con la sentenza che decide sul silenzio.

Prima di tale sentenza era anche intervenuto il Consiglio di Stato, il quale aveva evidenziato che emerge dalla formulazione letterale dell'art. 117, comma 6, che la trattazione della domanda risarcitoria connessa all'azione avverso il silenzio nelle forme del giudizio ordinario costituisce una facoltà discrezionale del giudice adito. Ciò si ricava in particolare dall'impiego del verbo servile «può», il quale regge tanto la proposizione relativa alla definizione della domanda avverso il silenzio quanto quella successiva, concernente la conversione del giudizio nel rito ordinario per la trattazione della domanda risarcitoria ( Cons. St. V, n. 5798/2013).

Bibliografia

Guacci, Il rito in materia di silenzio della p.a., in Trattato di diritto amministrativo, diretto da Santaniello, Il nuovo diritto processuale amministrativo, Cirillo (a cura di), XLII, Padova, 2014; Lopilato, Giudizio di ottemperanza, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da Santaniello, Il nuovo diritto processuale amministrativo, Cirillo (a cura di), XLII, Padova, 2014.

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