Ricorso ex  art. 281 undecies c.p.c.  per  risarcimento danni subiti in conseguenza della violazione dell'obbligo informativo correlato alla diagnosi preimpianto

Emanuela Musi
aggiornata da Fernanda Annunziata

Inquadramento

Con il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. due coniugi che avevano fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita agiscono nei confronti della struttura sanitaria responsabile del trattamento per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione dell'obbligo informativo correlato alla diagnosi preimpianto.

Formula

TRIBUNALE DI .... 1

RICORSO ex art. 281 undecies c.p.c. 23

PER

il Sig. ...., nato a ...., il ...., C.F. .... 4, e la Sig.ra ...., nata a ...., il ...., entrambi residenti in ...., via ...., rappresentati e difesi, per mandato in calce/a margine del presente atto, dall'Avv. ...., C.F. ...., presso il cui studio elettivamente domiciliano in ...., via .... Si dichiara di volere ricevere tutte le comunicazioni relative al presente procedimento al fax ...., ovvero all'indirizzo PEC .... 5

CONTRO

— Azienda Sanitaria di ...., C.F./P.I. ...., in persona del legale rapp.te p.t., con sede legale in ...., via ....;

— Assicurazioni ...., C.F./P.I. ...., in persona del legale rapp.te p.t., con sede legale in ...., via ....

PREMESSO CHE

— in data ....i ricorrenti contraevano matrimonio concordatario in ....(doc. 1);

— la Sig.ra ....è portatrice sana di distrofia muscolare, malattia genetica ereditata dal padre;

— la percentuale di rischio di trasmettere la mutazione genetica al figlio è pari al 50%, come certificato dal dipartimento di genetica dell'Università di ....(doc. 2);

— i coniugi, nel desiderio di avere un figlio ed al fine di escludere la trasmissione della patologia al feto, nonché per evitare un aborto terapeutico, in data .... si rivolgevano al Centro tutela della salute della donna e del bambino .... per poter accedere a un trattamento di procreazione medicalmente assistita e, nell'ambito di questa, alla diagnosi genetica preimpianto in modo da ottenere informazioni sullo stato di salute dell'embrione prima del suo impianto in utero (doc. 3);

— solo a seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c. (doc. 4) e successivamente alla sentenza della Corte cost., n. 69/2015 (doc. 5), che dichiarava l'illegittimità costituzionale della l. n. 40/2004, artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, nella parte in cui non consentiva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, i coniugi venivano autorizzati al trattamento di procreazione ed alla diagnosi preimpianto, che veniva effettuato presso la struttura convenuta (documento 6);

— ciò nonostante in data ...., la coppia scopriva di aspettare un figlio, ma, all'esito dell'esame dei villi coriali, il feto, di sesso maschile, risultava affetto da distrofia muscolare Becker (documento 7); a causa della angoscia seguita alla notizia, la signora procedeva alla interruzione medica di gravidanza (documento 8);

— con ricorso ex art. 696 bis c.p.c.6 (documento 8) l'istante adiva l'intestato Tribunale al fine di ottenere la nomina di un CTU che, previo esperimento del tentativo di conciliazione, accertasse la responsabilità dell'Ente convenuto e la quantificazione degli eventuali danni.

— fallito il tentativo di conciliazione il CTU depositava la consulenza medico legale che si produce (documento 8);

— alla luce di tutto quanto sopra esposto appare in modo del tutto manifesto il diritto degli odierni attori ad ottenere il risarcimento dei gravi danni conseguenti all'erroneo impianto di un embrione affetto da distrofia muscolare e per l'aborto che ne è conseguito.

Invero, secondo prevalente giurisprudenza la funzione principale della diagnosi reimpianto (DGP) è quella di rendere consapevoli e preparati i membri della coppia in ordine allo stato di salute del feto. Invero, è attraverso la suddetta diagnosi che viene ad essere tutelato sia il diritto all'autodeterminazione dei soggetti coinvolti, sia il diritto alla salute della futura gestante. In tal senso, assume un ruolo fondamentale il più generale principio del consenso informato, ritenendo che la facoltà di prestarlo attribuisca alla coppia non solo il diritto alla diagnosi degli embrioni, ma altresì il diritto di rifiutare l'impianto degli embrioni malati 7.

In buona sostanza, la diagnosi preimpianto deve essere considerata una normale forma di monitoraggio con finalità conoscitiva della salute dell'embrione, la cui mancanza è idonea a dare luogo a responsabilità medica. Ciò in quanto essa è da ritenersi uno strumento per l'esercizio del "diritto al figlio", per di più sano, facente capo alla donna. Diritto soggettivo da ascriversi tra quelli inviolabili ai sensi della Costituzione art. 2. Conseguentemente, anche le scelte consapevoli relative alla procreazione devono essere inserite tra i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati 8.

In relazione al caso di specie, i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dai ricorrenti a seguito della errata DGP e del conseguente aborto sono ascrivibili unicamente all'Ente convenuto, il quale ha altresì disatteso i suoi obblighi relativi al consenso informato.

Per tale ragioni i ricorrenti hanno diritto al relativo risarcimento, determinato in complessivi Euro ...., come da consulenza ex procedimento c.p.c. art. 696-bis;

— l'art. 7, comma 1 l. n. 24/2017 stabilisce che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata risponde per i danni ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c..

— ai sensi dell'art. 12, comma 1 l. n. 24/2017 il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell'impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private.

Per i motivi sovraesposti, risultando accertato che il danno subito dai ricorrenti è dovuto ad una condotta colposa dei sanitari, gli istanti come sopra rappresentati, difesi e domiciliati,

CHIEDONO 9

che codesto Ill.mo Tribunale voglia fissare, ai sensi dell'art. 281 undecies c.p.c. , comma 2 c.p.c., con decreto l'udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione dei convenuti che deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell'udienza, con l'avvertimento che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all'art. 281 undecies c.p.c., commi 3-4 e che, in difetto di costituzione, si procederà in loro contumacia, per sentir accogliere le seguenti

CONCLUSIONI

Voglia l'Ill.mo Tribunale adito, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, provvedere come appresso:

— accertare e dichiarare la esclusiva responsabilità ex artt. 1218 e 1228 c.c. dei convenuti in ordine ai danni conseguenti alla errata DGP e del conseguente aborto e per l'effetto condannarli in via solidale al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, determinati in complessivi Euro ...., ovvero nella diversa somma, minore o maggiore, ritenuta dal giudice, oltre interessi e rivalutazione come per legge.

Con vittoria di spese, diritti ed onorari ed attribuzione.

IN VIA ISTRUTTORIA

Si allegano i documenti 1), 2), 3), 4) e 5) indicati nella narrativa del presente atto, riservandosi di produrne altri con le memorie di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., la concessione dei cui termini sin da ora viene richiesta.

Ai sensi dell'art. 14 del d.P.R. n. 115/2002 si dichiara che il valore del presente procedimento, secondo le norme del codice di procedura civile, è pari ad Euro ....ed è assoggettato a contributo unificato pari ad Euro ....

Luogo e data ....

Firma ....

PROCURA

[1] [1] In tema di competenza per territorio, ai fini della determinazione dei fori facoltativi alternativamente previsti dall'art. 20 c.p.c. (forum contractus e forum destinatae solutionis), va intesa come 'obbligazione dedotta in giudizio' l'obbligazione nascente dal controverso contratto, sia che di essa si chieda l'adempimento o l'accertamento, quale petitum della domanda giudiziale, sia che di essa venga prospettato l'inadempimento come causa petendi della domanda, mirante a conseguire, per effetto dell'inadempimento stesso, la risoluzione contrattuale ed il risarcimento dei danni. Parimenti, nell'ipotesi di sola richiesta di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, per la determinazione del foro competente deve farsi riferimento non già al luogo ove si è verificato l'inadempimento, ma a quello in cui si sarebbe dovuta eseguire la prestazione rimasta inadempiuta o non esattamente adempiuta, della quale il risarcimento è sostitutivo (vale a dire, quella originaria e primaria rimasta inadempiuta, non quella derivata e sostitutiva), e ciò anche quando il convenuto contesti in radice l'esistenza della obbligazione stessa. Pertanto, per giudice del luogo dove è sorta l'obbligazione non deve intendersi quello del luogo in cui, verificandosi il danno, è sorto il relativo diritto al risarcimento. Il foro stabilito dall'art. 20 c.p.c., per le cause relative a diritti di obbligazione concorre con i fori generali di cui agli art. 18 e 19 c.p.c. e l'attore può liberamente scegliere di adire uno dei due fori generali, oppure il foro facoltativo dell'art. 20 c.p.c. La norma - infatti - stabilisce che per le cause relative a diritti di obbligazione (tra le quali rientrano anche le obbligazioni scaturenti da responsabilità extracontrattuale) è anche competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi la obbligazione. In particolare, in tema di obbligazioni nascenti da fatto illecito, l'azione di risarcimento sorge nel luogo in cui l'agente ha posto in essere l'azione produttiva del danno (forum commissi delicti) e in relazione a tale luogo deve essere determinata la competenza territoriale ex art. 20 c.p.c. (Cass. II, n. 13223/2014).

[2] [2] Premesso che la nuova disciplina normativa sulla responsabilità sanitaria ha previsto che dopo l'espletamento dell'ATP le cause di merito debbano essere introdotte con il rito sommario di cognizione, si potrebbe sensatamente ritenere che, instaurando ai fini della procedibilità della domanda il procedimento di mediazione, allora non vi sia più l'obbligo di introduzione della lite nelle forme del rito sommario (ben potendo optare l'attore per il rito ordinario di cognizione). Ed effettivamente, il legislatore ha previsto il ricorso al rito sommario di cognizione dopo l'ATP in quanto l'atto istruttorio fondamentale è stato già effettuato. E che il necessario impiego della procedura di cui agli art. 281 decies ss. c.p.c. sia da limitare al solo caso dell'ATP (e non della mediazione), lo si ricava pure dal fatto che l'art. 8, comma 3, del nuovo testo normativo prevede che il ricorso ex art. 281 undecies debba essere depositato entro il termine di 90 giorni dal deposito della relazione medica o dalla scadenza del termine perentorio di 6 mesi per l'ultimazione dell'ATP (e ciò a pena di perdita di efficacia della domanda). Tra le materie per le quali è prevista la mediazione obbligatoria vi è, infatti, anche il risarcimento del danno derivante da responsabilità medica. È stata inserita, con la l. n. 98/13, accanto alla “responsabilità medica” (ossia, tecnicamente, quella afferente il rapporto medico-paziente) anche la “responsabilità sanitaria” (vale a dire, quella della struttura sanitaria indipendente dalle responsabilità del personale medico, come nel caso di insufficienza delle apparecchiature). Il previo accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, in alternativa al procedimento di mediazione di cui al d.lgs. n. 28/2010. Per munire di procedibilità la sua domanda l'attore potrà, quindi, scegliere tra ATP e mediazione.

[3] [3] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., dalla l. n. 111/2011).

[4] [4] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla l. n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla l. n. 24/2010. A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla l. n. 114/2014.

[5] [5] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. 90/2014, conv. con modif., dalla legge 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà».

[6] [6] Cfr. art. 8, comma 1 l. n. 24/2017.

[7] [7] Trib. Roma ord. 15 gennaio 2014, n. 96.

[8] [8] Trib. Salerno ord. 9 gennaio 2010.

[9] [9] Cfr. art. 8, comma 3 della l. n. 24/2017.

Commento

La diagnosi genetica pre-impianto: inquadramento normativo

Con l'approvazione della l. n. 40/2004 che ha regolamentato la procreazione medicalmente assistita si è posto, tra gli altri il problema, della praticabilità della diagnosi genetica pre-impianto che consiste in un accertamento, realizzato prima dell'impianto, su embrioni creati in vitro, al fine di conoscerne le condizioni di salute - in termini di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche - con una attendibilità pari al 90-93%. Invero, all'indomani dell'entrata in vigore della novella legislativa, si è immediatamente diffusa l'opinione che la suddetta tecnica fosse stata fatta oggetto di divieto con correlativa sanzione penale. In realtà, il testo della legge si articola sotto questo aspetto in disposizioni che implicitamente parrebbero vietare la praticabilità della detta diagnosi (art. 1, art. 13, commi 2 e 3, lett. b), art. 14, commi 1 e 2) e disposizioni che, al contrario ed egualmente in modo implicito, ne consentirebbero la realizzazione (art. 14, comma 5). Se si considera la ratio della novella, finalizzata a favorire la soluzione di problemi riproduttivi derivanti da sterilità o da infertilità umana, nel rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito, nell'ottica della imitatio naturae, i genitori non avranno nessuna possibilità di selezionarli prima che entrino a contatto con l'utero materno (sussisterebbe, da un lato un “dovere del caso” per la madre e, dall'altro, un corrispettivo "diritto al caso", in capo all'embrione, il quale conseguentemente potrebbe pretendere di non essere discriminato e, dunque, soggetto a selezione, ricerca, manipolazione o soppressione sulla base del proprio patrimonio genetico e cromosomico).

Un esplicito divieto lo si ricava dalla lettura dell'art. 13, comma 3, lett. b), il quale proibisce ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti. Invero, il dibattito dottrinale sviluppatosi all'indomani dell'approvazione della legge si incentra essenzialmente sulla preoccupazione della cd. deriva eugenetica: ciò che si teme è che tale tecnica diagnostica venga, di fatto, adoperata per realizzare manipolazione genetica, con fini selettivi. In questo contesto si distingue la posizione di quanti sostengono che la diagnosi pre-impianto sarebbe legittima ogni qualvolta non sia rivolta agli scopi vietati, da quella di coloro che considerano eugenetico qualsiasi mezzo di selezione (rectius, qualsiasi mezzo da cui scaturisca la possibilità di una selezione), posto che la norma dell'art. 13, comma 2, regolamentando la ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni, ne stabilisce la praticabilità a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte, cioè, alla tutela della salute e dello sviluppo dell'embrione stesso, prevedendola, in ogni caso, come via residuale, consentita unicamente qualora non siano disponibili metodologie alternative: ben vero, la diagnosi preimpianto non rientrerebbe in questi limiti, in quanto non indirizzata alla cura dell'embrione, come vorrebbe il suddetto comma.

La diagnosi genetica pre-impianto: le tappe dell'evoluzione giurisprudenziale

L'art. 14, comma 5 della l. n. 40/2004 riconosce in capo alla coppia che si avvale della procreazione medicalmente assistita il diritto di informazione in merito al numero e, su loro richiesta, allo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell'utero. A tale diritto corrisponde un obbligo del personale sanitario di fornire alla coppia i dati informativi più completi ed attendibili, allo stato della tecnica. È importante sottolineare come la diagnosi genetica preimpianto risulti, ad oggi, l'unico strumento idoneo a tale fine. Ciò assume rilievo con riferimento anche alla l. 22 maggio 1978, n. 194, la quale disciplina l'interruzione volontaria della gravidanza, nell'ottica di salvaguardia e preminenza della salute e della vita della donna. Difatti, la diagnosi genetica preimpianto è considerata, dal mondo scientifico, un perfezionamento delle tecniche di diagnosi prenatale, poiché ne amplia e ne anticipa le possibilità operative, consentendo di intervenire prima del trasferimento dell'embrione nell'utero, piuttosto che successivamente all'instaurarsi della gravidanza. Sicché, se non si ritiene che l'aborto terapeutico, il quale potrebbe conseguire ad una diagnosi prenatale sia una forma di eugenetica, altrettanto non dovrebbe ritenersi tale la richiesta di non impiantare un embrione prodotto in vitro se, ad esito della detta diagnosi, questo risultasse essere malato (in caso contrario, si finirebbe con il tutelare l'embrione in misura maggiore rispetto al feto, stato più avanzato della gestazione).

Le tappe dell'evoluzione giurisprudenziale si possono così elencare:

1) Trib. Catania 3 maggio 2004, n. 40: il caso riguardava una coppia affetta da malattie genetiche trasmissibili al feto, la quale - chiesta la diagnosi preimpianto - aveva ottenuto, in risposta, un netto rifiuto. Ad opinione del giudice adito, la posizione assunta dalla struttura era da ritenersi lecita, in quanto rispondente alla scelta compiuta dal legislatore nello stabilire - come unica finalità della legge - quella di favorire la risoluzione di problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità umana, consentendo così alle coppie che ne fossero affette di avere figli, a condizioni analoghe a quelle della procreazione naturale; senza la facoltà, cioè, di selezionare i nascituri sani e malati, eliminando questi ultimi. In particolare il giudice escludeva l'esistenza di un diritto della donna di abortire i figli malati in quanto tali, e ancor più respingeva l'affermazione di un tale diritto come preesistente alla gravidanza;

2) T.A.R. Lazio 9 maggio 2005, n. 3452: dinanzi al Tribunale Amministrativo sono state messe in discussione le Linee Guida ministeriali, elaborate in ottemperanza all'art. 7 della legge in discorso per eccesso di potere, ravvisato in termini di ingiustizia manifesta, irrazionalità e violazione dei principi comuni in materia di tutela della salute. Si è ritenuto, in sostanza, che le Linee Guida, stabilendo il divieto di ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica e prevedendo che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni dovesse essere esclusivamente di tipo osservazionale aggravassero lo stesso testo della legge (art. 13), andando oltre così allo scopo di specificazione loro caratteristico. Il Tar ha ritenuto che questo contrasto, ravvisabile prima facie, in realtà dovesse considerarsi solo apparente e ciò per via della mancata esistenza di terapie geniche in grado di curare un embrione malato: il divieto di diagnosi preimpianto risultava coerente con la l. n. 40, ed in particolare con quanto prescritto dall'art. 13, poiché diversamente tale tecnica, invece di essere effettuabile nell'interesse ed a tutela del concepito, sarebbe risultata unicamente uno strumento nell'interesse ed a tutela della donna (o della coppia). Nondimeno, in una successiva pronuncia, il Tar Lazio ha concluso che le previsioni contestate (Linee guida del 2004) fossero da ritenersi illegittime per vizio di eccesso di potere e, conseguentemente, ne ha decretato l'annullamento; a seguito di ciò, con d.m. del 30 aprile 2008, sono state elaborate le nuove Linee Guida, nelle quali è scomparsa la previsione oggetto di contestazione, permanendo unicamente il divieto di diagnosi avente finalità eugenetica;

3) Trib. Cagliari 24 settembre 2007 ha riconosciuto la praticabilità della diagnosi genetica preimpianto, se rispondente alle seguenti caratteristiche: - sia stata richiesta dai soggetti che si sottopongono a procreazione medicalmente assistita, ex art. 14, comma 5, l. n. 40/2004; - abbia ad oggetto gli embrioni destinati all'impianto nel grembo materno; - sia strumentale all'accertamento di eventuali malattie dell'embrione e finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare. Viene, in particolare, valorizzato il diritto all'informazione in capo ai futuri genitori: invero, negare l'ammissibilità della diagnosi preimpianto significherebbe rendere impossibile un'adeguata informazione sul trattamento sanitario da eseguirsi, indispensabile, invece, sia nella prospettiva di una gravidanza pienamente consapevole, sia in funzione della salute gestazionale della donna, la quale è portatrice a sua volta di individuali interessi costituzionalmente rilevanti. In questa ipotesi, non è da ritenersi giustificata una tutela pressoché assoluta dell'embrione, bensì va considerata preminente l'esigenza di un bilanciamento che veda semmai prevalere, in certi casi, i diritti costituzionalmente garantiti dei soggetti che alle tecniche di procreazione medicalmente assistita abbiano avuto legittimo accesso, ed in particolare della donna, in quanto destinata ad accogliere nel suo grembo l'embrione così prodotto. Nel medesimo senso v. anche Trib. Firenze 17 dicembre 2007;

4) Corte costituzionale sent. n. 151 dell'8 maggio 2009: ivi la Consulta conferma che la tutela apprestata all'embrione non è da ritenersi assoluta, bensì è limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione. Ed è solo il medico ad essere in grado di soddisfare, al contempo, le aspettative della coppia e quelle degli embrioni, in accordo con il principio sancito all'art. 1 della l. n. 40/2004 di garanzia per i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito (ma assolutamente non esclusi gli altri). Nel solco segnato dalla citata pronuncia della Consulta si inseriscono altresì Trib. Bologna 29 giugno 2009 che considera la diagnosi pre-impianto come un esame compiuto allo scopo di proteggere la futura gestante, scongiurando il pericolo per la sua salute, proveniente dalla presenza di malattie o di malformazioni del feto, e Trib. Salerno 9 gennaio 2010, ove si è ritenuto che di tale tecnica si possa avvantaggiare anche la coppia fertile, se affetta da una patologia geneticamente trasmissibile (trattasi, invero, di una normale forma di monitoraggio con finalità conoscitiva della salute dell'embrione, la cui mancanza è idonea a dare luogo a responsabilità medica - v. formula sul danno da lesione del diritto a nascere sani);

5) La Corte EDU (28 agosto 2012 Costa e Pavan c. Italia) ha ravvisato un'incoerenza nel sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto, dal momento che costringe i soggetti coinvolti, per tutelare il loro diritto a mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia di cui sono portatori sani, a procedere ad interruzioni mediche della gravidanza qualora l'esame prenatale dovesse rivelare che il feto è affetto da malattia;

6) Trib. Cagliari 12 novembre 2012 è giunto a statuire che non vi fosse dubbio che la diagnosi genetica preimpianto dovesse considerarsi pienamente ammissibile, a salvaguardia della compatibilità della l. n. 40/2004 con i principi del nostro ordinamento giuridico: invero, la procreazione medicalmente assistita va considerata alla stregua di un trattamento medico e, come tale, esige la previa completa informazione; nell'ottica di una procreazione consapevole, la diagnosi pre-impianto assume la funzione di consentire alla donna una decisione informata in ordine al trasferimento degli embrioni creati ovvero al rifiuto dello stesso;

7) Corte cost., n. 96/2015, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, l. n. 40/2004 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), l. n. 194/1978 (norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche;

8) Medesime considerazioni hanno portato, da ultimo, il Trib. Napoli 3 aprile 2014, n. 149, ord., a sollevare questione di costituzionalità, con riferimento all'art. 13, comma 3, lett. b), e comma 4, l. n. 40/2004, in relazione agli artt. 3 e 32, Cost. e 117, comma 1, Cost. ed all'art. 8CEDU, nella parte in cui prevede quale fattispecie di reato il divieto assoluto - senza alcuna eccezione - di selezione eugenetica degli embrioni, non facendo salva l'ipotesi in cui tale condotta sia finalizzata all'impianto nell'utero della donna dei soli embrioni non affetti da malattie genetiche o portatori sani di malattie genetiche; nonché all'art. 14, commi 1 e 6, l. n. 40/2004, con riferimento agli artt. 2,3 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU, nella parte in cui prevede quale fattispecie di reato il divieto assoluto - senza alcuna eccezione - di soppressione degli embrioni, non facendo salva l'ipotesi in cui tale condotta sia finalizzata ad evitare l'impianto nell'utero della donna degli embrioni affetti da malattie genetiche. La Corte cost., con sentenza dell'11 novembre 2015, n. 229 ha ritenuto fondata la prima questione, se non altro in considerazione del fatto che la suddetta era già stata oggetto del vaglio di costituzionalità e, conseguentemente, quanto era divenuto così lecito non poteva - per il principio di non contraddizione - essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante. Per quel che concerne la seconda questione, invece, ne ha escluso la fondatezza, non ritenendo censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di "soppressione di embrioni", ove pur riferita agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. Ha addotto a motivazione di questo il fatto che la presenza di malformazioni non possa considerarsi di per sé giustificativa di un trattamento deteriore rispetto a quello riservabile agli embrioni sani, ritenendo, anzi, che debba riconoscersi, in ogni caso, parità di dignità e di tutela. A tali fini, l'unica risposta possibile si rivela essere - ad oggi - la procedura di crioconservazione, la quale, senza incidere sul diritto all'autodeterminazione della donna, permette di salvaguardare la vita dell'embrione.

Profili di responsabilità del medico

Con la citata sentenza n. 229/2015, la Consulta ha escluso che possa configurare un'ipotesi di reato la selezione di embrioni nella procreazione assistita, laddove sia finalizzata soltanto a evitare di impiantare nell'utero della donna embrioni affetti da malattie genetiche ritenute gravi (ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. b, l. n. 194/1978). Devesi, pertanto, escludere la possibilità di ascriverela responsabilità risarcitoria in capo al medico che abbia posto in essere la condotta in esame al fine di assicurare l'impianto nell'utero di embrioni sani (in assenza di antigiuridicità). Diversamente, la produzione di embrioni umani con fini diversi da quelli previsti dalla legge 40, effettuando una selezione eugenetica, è senz'altro condotta vietata e come tale illecita, sul piano penale prima ancora che su quello civile.

Costituisce, in ipotesi, fattispecie di responsabilità in capo al medico l'omessa informazione circa le probabili patologie genetiche dell'embrione da impiantare, laddove la completa informazione (conseguente all'effettuazione della diagnosi) avrebbe consentito alla futura gestante di rifiutarne l'impianto in utero (laddove vi sia la prova, fornita mediante presunzioni, che la stessa avrebbe, in concreto, opposto il rifiuto in relazione alla conoscenza della presenza di una malattia genetica o cromosomica dell'embrione stesso, tale da causare un pregiudizio alla sua salute fisica o psichica; per approfondimenti circa la prova da fornirsi da parte della gestante in caso di richiesta risarcitoria da nascita indesiderata si veda la formula ad hoc).

È appena il caso di sottolineare che, in caso di omessa diagnosi pre-impianto ovvero di violazione dell'obbligo di informazione circa lo stato di salute degli embrioni da impiantare, si pone il problema di stabilire se sussista danno risarcibile a prescindere dall'esito dell'impianto e della successiva gravidanza, ovvero se la risarcibilità sia condizionata alla successiva insorgenza nel bambino della patologia genetica che la diagnosi pre-impianto avrebbe consentito di individuare e che avrebbe determinato il rifiuto della gestante di portare a compimento la procedura (la risposta al problema dipende anche dall'orientamento che si intende seguire in punto di risarcimento da violazione del consenso informato, per cui v formula su consenso informato e danni da violazione del diritto all'autodeterminazione).

Merita segnalazione in subiecta materia, sebbene vertente su una fattispecie collaterale a quella qui trattata,  la pronuncia della Consulta n.161 del 24 luglio 2023 resa nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, promosso dal Tribunale ordinario di Roma. In particolare, tale norma dispone, al primo periodo, che la volontà di accedere alle PMA è espressa dai componenti della coppia «per iscritto congiuntamente al medico responsabile» della struttura sanitaria autorizzata ad applicare le tecniche medesime; al secondo periodo, che tra «la manifestazione della volontà e l'applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni»; quindi, al terzo periodo, che tale volontà «può essere revocata da ciascuno dei soggetti fino al momento della fecondazione dell'ovulo». Ad avviso del Tribunale rimettente, quest'ultima norma contrasterebbe con i principi di cui agli artt. 2-3-13 e 32 Cost. «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell'ovulo, un termine per la revoca del consenso». La questione traeva origine dal ricorso ex art. 702 bis c.p.c. presentato da una donna che chiedeva condannarsi la struttura sanitaria al decongelamento dell'embrione crioconservato ed al relativo impianto. La ricorrente riferiva che nel settembre 2017 lei e il coniuge avevano assentito alla crioconservazione dell'embrione formatosi a seguito della fecondazione, al fine di permettere l'esecuzione della biopsia embrionale, in vista dell'impianto; che questo era stato poi differito a causa della propria scarsa qualità endometriale; ciò che aveva comportato la necessità che lei si sottoponesse, nei successivi mesi di novembre e dicembre, ad apposita terapia farmacologica, a ulteriori analisi e al cosiddetto «scratch endometriale», ovvero alla «terapia della preparazione a graffio», prodromica appunto, all'impianto; che il trasferimento in utero dell'embrione non era stato tuttavia realizzato perché il marito, nel gennaio 2018, si era allontanato dalla residenza familiare; che, nel marzo 2019, era stata formalizzata tra le parti la separazione consensuale; che, nel febbraio 2020, lei aveva chiesto vanamente alla struttura sanitaria di procedere all'impianto e che, il 24 agosto dello stesso anno, il marito, dopo avere domandato la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva formalmente revocato il consenso all'applicazione delle tecniche di PMA. La Corte Costituzionale dichiara non fondata la sollevata questione evidenziando come il diritto della donna di rifiutare il trasferimento in utero dell'embrione non realizza una disparità di trattamento rispetto all'uomo, il cui consenso prestato è irrevocabile in ragione dell'eterogeneità delle situazioni poste a confronto. Il trasferimento nell'utero dell'embrione, infatti, si tradurrebbe in un trattamento sanitario estremamente invasivo per la donna, solo essa restando esposta, dopo la fecondazione, all'azione medica. 

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario