Diffamazione a mezzo stampa: il reato sussiste anche in assenza di esplicita indicazione del nome

Ilenia Alagna
18 Dicembre 2017

Per ottenere il risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa è necessario che il soggetto passivo sia specificamente nominato o è sufficiente che sia possibile la sua individuazione?
Massima

Per diffamare una persona non occorre fare il suo nome se questo può essere intuito con semplici indizi. Per la Cassazione non è necessario che la vittima sia specificamente nominata, a condizione che la sua individuazione avvenga sulla base del contesto come, ad esempio, le circostanze narrate, i riferimenti personali e temporali. Anche le allusioni potranno, dunque, costituire diffamazione se il nome non è esplicitamente indicato ma desumibile dal contenuto della frase.

Il caso

Un giornalista de “Il giornale” denunciò per diffamazione l'autore del libro autobiografico (anch'egli giornalista) “Io amo l'Italia. Ma gli italiani la amano?” ed il suo editore, Arnoldo Mondadori, sentendosi accusato ingiustamente sia dal punto di vista professionale che personale, pur non essendo il suo nome espressamente indicato all'interno del libro. L'autore, infatti, scrisse che i suoi colleghi firmavano i servizi da Bassora, mentre, secondo lui, si trovavano altrove.

Più specificatamente nel capitolo intitolato “Il riscatto personale” egli criticava il comportamento dei colleghi italiani avvenuto nel marzo 2003 durante la seconda guerra del Golfo, scrivendo che «costoro erano arrivati a Bassora soltanto il giorno del loro arresto, mentre nei giorni precedenti, pur firmando i loro servizi da Bassora, in realtà erano altrove, inventandosi, quindi, di sana pianta che si trovavano già a Bassora».

Lo scrittore aveva, inoltre, aggiunto che la professionalità e la prudenza che lo contraddistinguevano, gli avevano impedito di «bluffare». Il denunciante si è sentito accusato ingiustamente poiché, proprio all'epoca dei fatti raccontati nel libro, si trovava a Bassora come corrispondente estero per “Il Giornale” e dunque le dichiarazioni riportate nel libro non potevano che essere ricondotte, seppur indirettamente, alla sua persona. Egli chiedeva quindi il risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa all'autore del libro e all'editore che rigettavano le accuse affermando di non aver citato alcun nome.

La questione

La questione in esame è la seguente: per ottenere il risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa è necessario che il soggetto passivo sia specificamente nominato o è sufficiente che la sua individuazione avvenga senza un'esplicita indicazione nominativa?

Le soluzioni giuridiche

La diffamazione è il reato che si configura quando un soggetto comunicando con più persone, offende la reputazione di un altrui soggetto determinato o determinabile agevolmente.

Mentre in passato per ottenere il risarcimento del danno da diffamazione era necessario specificare le generalità (nome e cognome) della vittima o, riportare elementi sufficienti tali da consentire agli altri di individuarla (ad esempio, il riferimento al vincitore di un concorso o al collega che ha ottenuto la promozione ecc.), con la sentenza n. 25420 del 26 ottobre 2017 la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificamente nominato. L'individuazione della vittima deve avvenire, in assenza di una esplicita indicazione nominativa, attraverso tutti gli elementi della fattispecie concreta (quali le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali), desumibili anche da fonti informative di pubblico dominio al momento della diffusione della notizia offensiva diverse da quella della cui illiceità si tratta, se la situazione di fatto sia tale da consentire al pubblico di riconoscere con ragionevole certezza la persona cui la notizia è riferita. Secondo il giudice della pronuncia de qua l'identificazione del soggetto passivo del reato di diffamazione era desumibile dalla “precisa correlazione” operata nel libro tra i giornalisti presenti in zona di guerra (che sino al 28 marzo 2003 avevano inviato i servizi pubblicati sui giornali di rispettiva appartenenza) e i giornalisti che quel giorno stesso erano stati arrestati dagli iracheni. Per il giudicante tali notizie, che all'epoca dei fatti avevano ricevuto ampio risalto da tutti i media nazionali ed internazionali, non potevano che riferirsi al giornalista denunciante. Il giudice ha pertanto condannato per diffamazione l'autore del libro, in solido con la Mondadori, a risarcire una somma di denaro pari a 20.000,00 Euro all'inviato de " il Giornale" disponendo, inoltre, la cancellazione dei passaggi incriminati dalle nuove edizioni del libro, dal momento in cui il provvedimento sarebbe passato in giudicato.

Può accadere che la pretesa del singolo al libero sviluppo della propria persona (ex art. 2 Cost.) confligga con la libertà di manifestazione del pensiero di un altro soggetto (ex art. 21 Cost. e art. 10 CEDU). Considerando che anche quest'ultimo diritto riceve una tutela di rango costituzionale, è necessario un giudizio di bilanciamento tra i due interessi contrapposti. A tal fine rileva la considerazione dell'incremento della potenzialità lesiva delle aggressioni alla reputazione qualora queste siano veicolate attraverso i mezzi di comunicazione di massa, stampa, radiotelevisione, Internet nell'esercizio dei diritti di cronaca, critica e satira. Difatti se l'offesa è arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità la pena è aggravata poiché il soggetto attivo del reato si avvale di uno strumento in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone; ciò può avvenire mediante l'uso di un blog, di social media, chat, mailing list,ecc.

In tale contesto, questi diritti costituiscono le estrinsecazioni essenziali della libertà di manifestazione del pensiero e la giurisprudenza ne facoltizza l'esercizio mediante l'individuazione di criteri determinati.

Tali principi cardine vengono individuati in una non risalente pronuncia della Corte di Cassazione” (Cass. civ., sez. III, sent. 8 maggio 2012 n. 6902) in merito all'esercizio del diritto di cronaca da parte del giornalista, che costituisce un punto di riferimento per tutti i casi di conflitto con il diritto alla reputazione, all'identità, alla riservatezza e con il buon costume. In tale pronuncia si considera il diritto di cronaca quale scriminante a patto che vengano integrati i requisiti della verità dei fatti, dell'interesse sociale della notizia e della continenza formale nell'esposizione.

Il requisito della verità dei fatti viene soddisfatto soltanto al compimento di un serio lavoro di ricerca, non ritenendosi integrato nelle ipotesi di verità putativa. A tal proposito, il giornalista non potrà mai limitarsi ad attingere, per quanto attendibile, da una sola fonte ma dovrà sempre dotarsi di un certo numero di riscontri oggettivi positivi al fine di non incorrere in errore.

Altra problematica si pone in tema di mezza verità al momento della diffusione della notizia. Se infatti costituisce prassi comunemente accettata non imporre al giornalista alcun dovere di completezza in merito all'attività divulgativa, qualora la sua omissione si riveli determinante ai fini della non integrazione della diffamazione o comporti comunque un suo ridimensionamento, il requisito della verità non si considererà sussistente.

In secondo luogo la Corte, nella sentenza da ultimo analizzata, parla di interesse sociale della notizia considerando come elemento imprescindibile la riflessione che l'informazione deve muovere nell'opinione pubblica.A prescindere dalla importanza o meno dei temi, la notizia deve suscitare un dibattito all'interno della collettività che può dipendere dalla notorietà dei soggetti coinvolti o dall'importanza delle tematiche trattate. Anche il carattere attuale della notizia risulta immediatamente correlato alla sua risonanza infatti, se in un primo momento l'interesse dell'opinione pubblica sarà al suo apice, successivamente, andrà via via scemando facendo prevalere altre pretese quali il diritto all'oblio del soggetto leso.

All'epoca della pubblicazione del libro l'autore era vicedirettore di un importante quotidiano italiano; tale ruolo, secondo il giudice, non diminuiva di certo la consapevolezza del codice deontologico dei giornalisti e della gravità delle accuse sollevate ai colleghi.

Prima di scrivere, dunque, avrebbe dovuto dunque informarsi con gli interessati e svolgere degli accertamenti più mirati. Avrebbe in tal modo compreso l'erroneità della sua interpretazione e dei fatti raccontatati. Il fatto che quei colleghi scrivessero da Bassora, però, è «circostanza che l'autore presenta ai lettori come non vera», «accusandoli infondatamente di comportamenti scorretti nell'esercizio della professione giornalistica». Il giudice ha dato ragione, riconoscendo anche un risarcimento, a due altri giornalisti, che all'epoca erano in Iraq per il Corriere della Sera e il Sole24ore. L'eccezione della difesa «inerente alla non identificabilità di uno dei due giornalisti», si legge dalla sentenza, «poiché mai identificato nominativamente, è infondata», perché l'autore, nel libro, parla dei giornalisti che poi vennero catturati a Bassora il 28 marzo 2003, tra cui c'erano quei due giornalisti, volendo riferirsi proprio a quei due professionisti inviati in Iraq. Per il giudice, le affermazioni dell'autore, «sono frutto di una falsa ricostruzione dei fatti» ed «esprimono un'illegittima accusa di mentire e falsificare le notizie».

Osservazioni

Posto che secondo la pronuncia analizzata per diffamare qualcuno non è necessario che la vittima sia specificamente nominata a condizione che la sua individuazione avvenga sulla base del contesto come, ad esempio, i riferimenti personali e temporali, le circostanze narrate ecc., tale provvedimento potrà fungere, da un lato, da apri pista verso innumerevoli denunce: si pensi ad una realtà lavorativa in cui un collega di lavoro ha partecipato alla selezione ed ha ottenuto una promozione e a delle illazioni che affermano che in azienda ci sia un raccomandato. Per quanto impersonali risultano univoche e tutti possono agevolmente capire che le maldicenze si riferiscono ad un persona ben precisa.

Dall'altro lato, la sentenza de qua potrebbe rappresentare un deterrente nei confronti di chi tende a fare ingiuste illazioni nei confronti di qualcuno non solo sul posto di lavoro ma anche sui social network, in una chat aziendale o in altri canali comunicativi lasciando chiare evidenze per risalire all'identità di un soggetto.

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