Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 3 - Gruppi di impreseGruppi di imprese 1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, il Governo si attiene, per la disciplina della crisi e dell'insolvenza dei gruppi di imprese, ai seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere una definizione di gruppo di imprese modellata sulla nozione di direzione e coordinamento di cui agli articoli 2497 e seguenti nonché di cui all'articolo 2545-septies del codice civile, corredata della presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile; b) prescrivere specifici obblighi dichiarativi nonché il deposito del bilancio consolidato di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenenti a un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti, in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali; c) attribuire all'organo di gestione della procedura il potere di richiedere alla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) o a qualsiasi altra pubblica autorità informazioni utili ad accertare l'esistenza di collegamenti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote a esse intestate; d) prevedere per le imprese, in crisi o insolventi, del gruppo sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano la facoltà di proporre con unico ricorso domanda di omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, di ammissione al concordato preventivo o di liquidazione giudiziale, ferma restando in ogni caso l'autonomia delle rispettive masse attive e passive, con predeterminazione del criterio attributivo della competenza, ai fini della gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali, ove le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse; e) stabilire obblighi reciproci di informazione e di collaborazione tra gli organi di gestione delle diverse procedure, nel caso in cui le imprese insolventi del gruppo siano soggette a separate procedure concorsuali, in Italia o all'estero; f) stabilire il principio di postergazione del rimborso dei crediti di società o di imprese appartenenti allo stesso gruppo, in presenza dei presupposti di cui all'articolo 2467 del codice civile, fatte salve deroghe dirette a favorire l'erogazione di finanziamenti in funzione o in esecuzione di una procedura di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti. 2. Nell'ipotesi di gestione unitaria della procedura di concordato preventivo di gruppo devono essere previsti: a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale e il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia; b) la contemporanea e separata votazione dei creditori di ciascuna impresa; c) gli effetti dell'eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata; d) l'esclusione dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura; e) gli effetti dell'eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata; f) i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo funzionali alla continuità aziendale e al migliore soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese nonché per ogni altro controinteressato. 3. Nell'ipotesi di gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo devono essere previsti: a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico curatore, ma di distinti comitati dei creditori per ciascuna impresa del gruppo; b) un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura tra le singole imprese del gruppo; c) l'attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo, del potere di: 1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l'accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un'altra impresa del gruppo, in danno dei creditori; 2) esercitare le azioni di responsabilità di cui all'articolo 2497 del codice civile; 3) promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale; 4) nel caso in cui ravvisi l'insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l'accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese; d) la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale, in conformità alla disposizione dell'articolo 7, comma 10, lettera d). InquadramentoIn data 11 ottobre 2017, è stata approvata dal Senato la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza: l. n. 155 del 19 ottobre 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254. I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa. Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto. Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma. Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni. In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa. In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo. Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine). Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente. Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione. Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione. Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182- septies l.fall.). Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005). Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi). Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario. Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge. In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale). Gruppi di impreseLa legge delega si occupa di definire anche le strutture societarie in cui possono articolarsi più centri di imputazione di gestione dell’impresa. L’art. 3, comma 1, fissa principi per la disciplina dell’insolvenza dei gruppi di imprese. Richiede di stabilire una definizione di gruppo di imprese secondo quanto fissato dagli artt. 2497 ss. c.c. (che per il vero, ponendo ‘la nozione di direzione coordinamento di società’, restituisce un’immagine del gruppo essenzialmente sotto il profilo delle norme sulla responsabilità). Sono posti anche principi sul bilancio consolidato di gruppo nonché sui poteri degli organi di gestione della procedura concorsuale di richiedere alle pubbliche autorità competenti informazioni utili ad accertare l’esistenza di rapporti di gruppo. Pure degno di nota è il principio sub lett. f) della postergazione del rimborso di crediti di società appartenenti allo stesso gruppo fatta eccezione per la finanza di sostegno ad operazioni di ristrutturazione. L’art. 3, comma 2, detta principi sulla gestione unitaria della procedura di concordato preventivo. Il successivo comma 3 prevede principi sulla gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale. Di ciascuna di esse sarà trattato nei capitoli relativi - rispettivamente - al concordato preventivo e alla liquidazione giudiziale. Promozione della continuità aziendaleNello svolgimento del suo lavoro il legislatore delegato dovrà dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale (art. 2, comma 1, lett. g)). Il principio è poco chiaro. Il termine ‘priorità' può indicare anteriorità o precedenza (se connesso al riconoscimento dei diritti) oppure una posizione di superiorità in considerazione dell'importanza, della dignità, della rilevanza di ciò che ne costituisce l'oggetto rispetto ad uno specifico insieme. Nel nostro caso, dovrebbe valere questo ultimo significato. Sembrerebbe che le procedure di continuità aziendale debbano essere preferite rispetto alle procedure basate sulla cessazione dell'attività. La preferenza dovrebbe manifestarsi in una disciplina di favore, che premia il ricorso a soluzioni sulla continuità aziendale rispetto ad altre sulla cessazione dell'attività. Il principio servirebbe esclusivamente a stabilire un ordine assiologico agevolmente rinvenibile - del resto - nella pratica del diritto della crisi di impresa. Usualmente, le soluzioni sulla continuità aziendale, in quanto potenzialmente idonee a salvaguardare uno spettro di interessi molto più ampio rispetto alle procedure di cessazione dell'attività, si fanno preferire all'alternativa della chiusura dell'attività economica. Aggiungerei che nella continuità aziendale sta l'essenza stessa dell'impresa, che essendo un'attività nemmeno esiste qualora il centro di produzioni si arresti. La crisi di impresa, in quanto crisi di funzionamento, si manifesta nella continuità aziendale compromettendone le condizioni di svolgimento. La più agevole soluzione della crisi è nella cessazione dell'attività malfunzionante e dunque nella chiusura dell'impresa. Resta a tal punto il problema dell'insolvenza dell'imprenditore, che sarà trattato secondo la tecnica della liquidazione delle attività patrimoniali e il riparto del ricavato tra i creditori concorsuali. Poiché il patrimonio imprenditoriale è destinato all'impresa, e poiché la cessazione dell'attività preclude il vincolo di destinazione, quel patrimonio subisce per ciò stesso un irreparabile depauperamento non potendo più valere per quello che è: ossia una organizzazione di uomini, beni e servizi, resi funzionali all'attività economica professionalmente esercitata. Sotto questo profilo la promozione della continuità aziendale si allinea alla tutela dell'interesse creditorio, salvaguardando il valore dell'impresa intesa come patrimonio. Non bisogna però sottovalutare che la crisi di impresa, se correttamente intesa, è proprio crisi del suo funzionamento. La prosecuzione dell'attività può determinare perdite ulteriori, compromettendo l'interesse creditorio. Si comprende, pertanto, come il principio puntualizzi che la priorità della continuità aziendale resti condizionata alla sua funzionalità al “miglior soddisfacimento dei creditori”. La questione è delicata, giacché il nesso tra continuità e miglior soddisfacimento è assicurato nei soli casi in cui sia prospettato con chiarezza ed elevata probabilità il successo della pianificazione di recupero e di superamento della crisi. Se, infatti, la crisi non è risolta, il malfunzionamento produrrà un ulteriore depauperamento patrimoniale a danno dei creditori. Il che si mostra particolarmente grave considerando che, per l'insolvenza dell'imprenditore, il patrimonio destinato all'adempimento è per definizione insufficiente; pertanto, il rischio dell'attività, non potendo più cadere direttamente sul capitale di rischio conferito per l'attività, cade direttamente sul capitale di debito. Da questa angolatura si comprende l'ulteriore precisazione secondo cui la valutazione di convenienza della continuità aziendale rispetto alla cessazione dell'attività sia illustrata nel piano; mentre la liquidazione giudiziale deve essere limitata “ai casi nei quali non sia proposta un'idonea soluzione alternativa”. Ribadita la precedenza, nella tutela, all'interesse dei creditori, l'art. 2, comma 1, lett. t), dispone di “armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell'occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nella Carta sociale europea”. Anche l'interesse dei lavoratori è preso in considerazione. Lo stato di sostanziale separatezza in cui si trovano diritto della crisi di impresa e diritto del lavoro subisce un positivo ridimensionamento; così come subisce un colpo l'idea, tuttora salda, della indifferenza del diritto dell'insolvenza al destino dei lavoratori subordinati, rimesso alle regole dell'ordinamento lavoristico. Avrebbe dovuto (e potuto) essere proprio questa la strada di un possibile ravvicinamento del diritto comune e del diritto amministrativo della crisi di impresa, quest'ultimo ampiamente edificato nella preoccupazione della tutela dei livelli occupazionali. Nel principio in esame è opportunamente chiarito come la continuità concerna esclusivamente l'impresa, e non l'imprenditore; di modo che la priorità è affermata sia per i casi di continuità diretta (in cui si superano sia la crisi dell'impresa che l'insolvenza dell'imprenditore, che, dunque, può proseguire nell'attività) sia per i casi di continuità indiretta (in cui mentre è superata la crisi di impresa, permane l'insolvenza dell'imprenditore, con conseguente liquidazione dell'azienda in esercizio e riparto del ricavato tra i creditori). È facile osservare - a questo punto - come nell'elaborazione del principio lo stesso legislatore delegante, emancipandosi dall'idea di crisi come preludio dell'insolvenza, si avvalga di un concetto di ‘crisi di impresa' distinto da quello di ‘insolvenza dell'imprenditore', connettendo logicamente la crisi alla continuità e alla cessazione dell'impresa, e ciò a prescindere dal destino che sarà riservato all'imprenditore. Pure degno di nota è l'inciso secondo cui la priorità della continuità rispetto alla cessazione dell'attività si conserva “fatti salvi i casi di abuso”. Il riferimento, per quanto inserito quasi di sfuggita e nel modo (inappropriato all'importanza del tema) dell'inciso, al divieto di abuso costituisce una importante chance per il legislatore delegato. La controversa figura del divieto di abuso (in questo caso abuso della libertà negoziale di accedere all'una o all'altra procedura) può costituire sia il fondamento di regole finalizzate a scongiurare usi strumentali di istanze sulla continuità aziendale sia il criterio di giudizio richiamato nel testo della legge al posto di previsioni puntuali. Questa ultima sarebbe l'opzione di sicuro preferibile, giacché un principio di diritto è per sua natura irriducibile ad un insieme di regole positive che non sarebbero mai in grado di funzionare, nel caso concreto, con la stessa efficacia. GiudiciUn buon proposito trasferito al legislatore delegato è di ridurre durata e costi delle procedure concorsuali (art. 2, lett. l)). La tecnica seguita potrebbe rivelarsi efficace. Oltre ad esortare, peraltro genericamente, alla uniformazione e alla semplificazione dei riti speciali (art. 2, lett. h)), il legislatore si preoccupa di riorganizzare il lavoro di giudici e professionisti incaricati della gestione. Regole di dettaglio sono dedicate alla “specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale” (art. 2, lett. n)). La materia è politicamente delicata. Gli uffici fallimentari costituiscono un'opportunità di lavoro non trascurabile per tutti i fori. La specializzazione del giudice implica la concentrazione delle professionalità presso i tribunali più rilevanti. Nel nostro caso, i tribunali in cui hanno sede le sezioni specializzate in materia di impresa. Il costo dell'accorpamento di competenze è nella marginalizzazione, rispetto a questo settore del diritto, di tutti i fori relativi a tribunali diversi. La soluzione adottata è di compromesso. La competenza dei tribunali delle imprese è limitata alle procedure di amministrazione straordinaria o di gruppi di imprese di rilevanti dimensioni. Per le piccole insolvenze, a cui è destinata la disciplina del sovraindebitamento, la competenza resta radicata presso ciascun ufficio, secondo i criteri già vigenti. Per tutte le altre imprese spetterà al legislatore delegato di individuare i tribunali a cui affidare la trattazione secondo una serie di criteri dettagliatamente indicati nella delega in ben sette distinte disposizioni. Non ne verrà nulla di buono. La decisione politica è ancora debole ed immatura e tende ad evitare proteste, a premiare le clientele sacrificando l'efficienza, a dare soddisfazione a giudici e professionisti interessati al localismo rispetto all'utenza interessata alla migliore riuscita della procedura. Poiché tutto questo è trasparente nell'ordito normativo, tanto sarebbe valso prenderne atto e - per questa volta - lasciare le cose come sono. Invece, si è scelta la soluzione compromissoria di istituire una tripartizione di uffici di primo grado. Così, però, si aumenta il caos giuridico senza raggiungere il traguardo della specializzazione. ProfessionistiIl legislatore delegato non dà migliore prova quando stabilisce criteri per efficientare il lavoro dei professionisti. L'art. 2, comma 1, lett. l), raccomandando non solo “misure di responsabilizzazione degli organi di gestione” ma anche regole di “contenimento delle ipotesi di prededuzione, con riguardo altresì ai compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l'attivo delle procedure” tradisce un duplice sospetto. In primo luogo verso giudici delegati e tribunali fallimentari. Spetta, infatti, a costoro di vigilare sul lavoro dei professionisti incaricati; di confermarli o meno nell'incarico; di sostituirli rendendoli destinatari di contestazioni civili e penali. La richiesta di ulteriori misure di responsabilizzazione dichiara un giudizio negativo sulla vigilanza assicurata dai giudici fallimentari, e propone il rimedio della legge all'incapacità della giurisdizione. Resta da vedere se la scena di questa inefficienza sia nella realtà anziché esclusivamente nello sguardo del legislatore delegante. In secondo luogo, il sospetto investe i professionisti: immaginati come speculatori che si arricchirebbero in prededuzione a spese dei creditori. Anche in tal caso occorrerebbe verificare se tutto questo capiti diffusamente nella realtà. Comunque sia, il principio, compromesso da un tono moraleggiante, non si emancipa dalla necessità (rinviata al legislatore delegato) di distinguere tra professionisti incaricati dal debitore e ausiliari del giudice. Questi ultimi, infatti, sono retribuiti per lo più sulla base di tariffe legalmente poste a cui i giudici devono attenersi. Una grave causa del disordine gestorio è individuata nell'irrazionalità delle nomine. Il rimedio è ricercato nell'istituzione presso il ministero della Giustizia di “un albo di soggetti, costituiti anche in forma associata o societaria, destinati a svolgere, su incarico del tribunale, funzioni di gestione o di controllo nell'ambito delle procedure concorsuali, con indicazione dei requisiti di professionalità, indipendenza ed esperienza necessari per l'iscrizione”. Una disciplina non dissimile fu già prevista nella vecchia legge fallimentare, ma non trovò mai attuazione. Ciò in quanto apparve da subito chiaro come un albo ufficiale di amministratori giudiziali non sarebbe stato utile allo scopo. In questi anni di rinnovato interesse per la specializzazione, anche nelle professioni legali, la scelta di ribadire l'iscrizione all'albo appare tuttavia non implausibile e per certi versi condivisibile. Non perché affettivamente efficiente ad affrontare il problema delle nomine (che è un problema culturale proprio del ceto giudiziario) ma per il parallelismo che viene in questo modo a crearsi con il tentativo di specializzazione dei giudici. E perciò per l'affermazione di fondo sulla specializzazione nelle funzioni giudiziarie e nelle professioni legali ed aziendali come valore da promuovere senza tentennamenti. BibliografiaDi Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017 |