Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 6 - Procedura di concordato preventivoProcedura di concordato preventivo
1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, per il riordino della disciplina della procedura di concordato preventivo, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere l'ammissibilità di proposte che abbiano natura liquidatoria esclusivamente quando è previsto l'apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori; è assicurato, in ogni caso, il pagamento di almeno il 20 per cento dell'ammontare complessivo dei crediti chirografari; b) procedere alla revisione della disciplina delle misure protettive, specialmente quanto alla durata e agli effetti, prevedendone la revocabilità, su ricorso degli interessati, ove non arrechino beneficio al buon esito della procedura; c) fissare le modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di verifica della fattibilità del piano, nonché determinare l'entità massima dei compensi spettanti ai professionisti incaricati dal debitore, da commisurare proporzionalmente all'attivo dell'impresa soggetta alla procedura; prevedere altresì che i crediti dei professionisti sorti in funzione del deposito della domanda, anche ai sensi dell'articolo 161, sesto comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, della proposta, del piano e della documentazione di cui ai commi secondo e terzo del predetto articolo 161 siano prededucibili a condizione che la procedura sia aperta a norma dell'articolo 163 del medesimo regio decreto n. 267 del 1942; d) individuare i casi in cui la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, è obbligatoria, prevedendo, in ogni caso, che tale obbligo sussiste in presenza di creditori assistiti da garanzie esterne; e) determinare i poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale; f) sopprimere l'adunanza dei creditori, previa regolamentazione delle modalità telematiche per l'esercizio del voto e la formazione del contraddittorio sulle richieste delle parti, nonché adottare un sistema di calcolo delle maggioranze anche «per teste», nell'ipotesi in cui un solo creditore sia titolare di crediti pari o superiori alla maggioranza di quelli ammessi al voto, con apposita disciplina delle situazioni di conflitto di interessi; g) disciplinare il diritto di voto dei creditori con diritto di prelazione, il cui pagamento sia dilazionato, e dei creditori soddisfatti con utilità diverse dal denaro; h) integrare la disciplina dei provvedimenti che riguardano i rapporti pendenti, con particolare riferimento: ai presupposti della sospensione e, dopo la presentazione del piano, anche dello scioglimento; al procedimento e al ruolo del commissario giudiziale; agli effetti, in relazione agli esiti possibili della procedura, nonché alla decorrenza e alla durata nell'ipotesi di sospensione; alla competenza per la determinazione dell'indennizzo e ai relativi criteri di quantificazione; i) integrare la disciplina del concordato con continuità aziendale, prevedendo: 1) che il piano possa contenere, salvo che sia programmata la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussista la causa di prelazione, una moratoria per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca per un periodo di tempo anche superiore ad un anno, riconoscendo in tal caso ai predetti creditori il diritto di voto; 2) che tale disciplina si applichi anche alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale; 3) che tale disciplina si applichi anche nei casi in cui l'azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato; l) prevedere una più dettagliata disciplina della fase di esecuzione del piano, anche con riguardo agli effetti purgativi e alla deroga alla solidarietà passiva di cui all'articolo 2560 del codice civile, con possibilità per il tribunale di affidare ad un terzo il compito di porre in essere gli atti necessari all'esecuzione della proposta concordataria; m) riordinare la disciplina della revoca, dell'annullamento e della risoluzione del concordato preventivo, prevedendo la legittimazione del commissario giudiziale a richiedere, su istanza di un creditore, la risoluzione del concordato per inadempimento; n) stabilire i presupposti per l'estensione degli effetti esdebitatori ai soci illimitatamente responsabili che siano garanti della società, con eventuale distinzione tra garanzie personali e reali; o) prevedere il riordino e la semplificazione delle varie tipologie di finanziamento alle imprese in crisi, riconoscendo stabilità alla prededuzione dei finanziamenti autorizzati dal giudice nel caso di successiva liquidazione giudiziale o amministrazione straordinaria, salvo il caso di atti in frode ai creditori; p) disciplinare il trattamento del credito da imposta sul valore aggiunto nel concordato preventivo anche in presenza di transazione fiscale, tenendo conto anche delle pronunce della Corte di giustizia dell'Unione europea. 2. Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, nel caso di procedura riguardante società, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: a) esplicitare presupposti, legittimazione ed effetti dell'azione sociale di responsabilità e dell'azione dei creditori sociali, in conformità ai principi dettati dal codice civile; b) imporre agli organi della società il dovere di dare tempestiva attuazione alla proposta omologata, stabilendo che, in caso di comportamenti dilatori od ostruzionistici, l'attuazione possa essere affidata ad un amministratore provvisorio, nominato dal tribunale, dotato dei poteri spettanti all'assemblea ovvero del potere di sostituirsi ai soci nell'esercizio del voto in assemblea, con la garanzia di adeguati strumenti d'informazione e di tutela, in sede concorsuale, dei soci; c) prevedere che, in caso di operazioni di trasformazione, fusione o scissione poste in essere nel corso della procedura: 1) l'opposizione dei creditori possa essere proposta solo in sede di controllo giudiziale sulla legittimità della domanda concordataria; 2) gli effetti delle operazioni siano irreversibili, anche in caso di risoluzione o di annullamento del concordato, salvo il diritto al risarcimento dei soci o dei terzi danneggiati, ai sensi degli articoli 2500-bis e 2504-quater del codice civile; 3) non spetti ai soci il diritto di recesso in conseguenza di operazioni incidenti sull'organizzazione o sulla struttura finanziaria della società. InquadramentoIn data 11 ottobre 2017 è stata approvata dal Senato la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza: l. n. 155 del 19 ottobre 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254. I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa. Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto. Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma. Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni. In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa. In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo. Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine). Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente. Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione. Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione. Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182 septies l.fall.). Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005). Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi). Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario. Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge. In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale). Riordinare la disciplina del concordato preventivoL’art. 6, comma 1, affida al legislatore delegato il compito di riordinare la disciplina della procedura di concordato preventivo. In effetti negli anni della riforma il legislatore è intervenuto più volte in tema di concordato preventivo anche con regole di grande novità e importanza: istitutive di nuove procedure (come il concordato con riserva) o di nuove tipologie (come il concordato in continuità). Ciò ha arricchito l’istituto pregiudicandone tuttavia la linearità. La questione di maggior rilievo sistematico e operativo discussa in questi anni ha riguardato, proprio sul piano tipologico, la scelta se mantenere o meno nella legislazione il concordato preventivo di liquidazione quale alternativa alla liquidazione fallimentare (da domani, ‘giudiziale’). Sotto una angolatura procedurale, fortemente discusso è stato il trattamento da riservare ai creditori in ragione delle garanzie che, rilasciate sul patrimonio del debitore o sul patrimonio di terzi, assistono il credito. Un primo problema ha riguardato l’eventualità di chiudere taluni di questi creditori in classi apposite, onde consentire l’apprezzamento separato del loro voto secondo il meccanismo di formazione delle maggioranze operativo per i concordati con creditori divisi in classi per scelta del debitore. Un secondo problema ha riguardato la possibilità di comprimere i diritti dei creditori prelatizi compensando il sacrificio imposto con la corrispondente attribuzione di un diritto di voto. Quanto alla figura del concordato con continuità aziendale occorre prendere atto della insuperata perplessità data dalla mancanza di una concezione sufficientemente condivisa dell’istituto. Inoltre, si discute sia sul trattamento da riservare ai creditori prelatizi in modo da non ostacolare la prosecuzione dell’attività di impresa, sia della condotta del debitore nella fase di esecuzione del concordato. Altro ambito di problemi aperti riguarda il concordato delle società: circa la configurazione delle azioni di responsabilità; la conformazione delle operazioni straordinarie in corso di procedura; e infine i doveri degli organi delle società sull’attuazione della proposta omologata. Concordato di liquidazioneL’art. 6, comma 1, lett. a) tratta dell’ammissibilità di proposte che abbiano una natura liquidatoria, limitandola esclusivamente ai casi in cui è previsto l’apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori. Deve peraltro essere assicurato il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare complessivo dei crediti chirografari. L’alternativa tra ammissibilità o inammissibilità del concordato preventivo di semplice liquidazione non ha trovato una soluzione netta. Le opposte vedute formatesi sul tema sono composte in un esito compromissorio che probabilmente risulterà insoddisfacente per entrambe. Dobbiamo premettere che il concordato preventivo di liquidazione, stabilmente presente nelle legislazioni storiche e di enorme diffusione nella pratica, era caduto in discussione negli ultimi anni a seguito della liberalizzazione della domanda di concordato. Con il venir meno del giudizio di meritevolezza del debitore (valutato dal tribunale come onesto ma sfortunato), e quindi del concordato preventivo come vero e proprio beneficio da concedere al decotto per sventura (e non per delitto), il parallelismo con la liquidazione fallimentare è divenuto più netto e quindi difficilmente sostenibile. Ciò in quanto la soluzione concordataria è praticamente alla portata di tutti i debitori e non solo di quelli ‘meritevoli’ di tale beneficio. Con il venir meno delle percentuali minime imperativamente stabilite nella legge per il trattamento dei creditori (integrale soddisfacimento per i prelatizi e soddisfacimento in misura non inferiore al quaranta per cento per i chirografari) la prassi ha conosciuto domande di concordato organizzate sulla previsione di percentuali di soddisfacimento modeste se non irrisorie (e a volte addirittura simboliche). La qual cosa ha determinato l’effetto di una generale crisi di legittimazione del concordato. L’apice della crisi ha riguardato il concordato preventivo di liquidazione. Storicamente concepito come alternativa sostanzialmente equivalente al fallimento ma di estremo vantaggio - anche reputazionale - per il debitore, il concordato di liquidazione ha faticato di recente a trovare una collocazione plausibile nel diritto della crisi di impresa. Per l’eliminazione del giudizio di meritevolezza in precedenza rimesso al tribunale, il concordato di liquidazione è divenuto una chance a disposizione di qualsiasi debitore. Laddove utilizzato per lucrare vantaggi smisurati (non ultimo quello della esdebitazione) attraverso la semplice messa a disposizione dei creditori dei residui di un patrimonio andato quasi totalmente perduto, l’istituto è caduto in odio di creditori e di sindacati di imprenditori: così da suscitare reazioni di contenimento da parte del legislatore. In questa angolazione deve essere letto il principio sulla ammissibilità del concordato liquidatorio a condizione di un soddisfacimento minimo dei creditori e dell’apporto di nuova finanza dall’esterno. La soluzione sembra ispirata da senso pratico. Venuto meno il giudizio di meritevolezza e il potere del tribunale di assolvere il debitore dai suoi peccati riconoscendolo onesto ancorché sfortunato, l’indulgenza si acquista versando denaro fresco in misura apprezzabile, e inoltre assicurando una soglia di soddisfacimento minima per i creditori. L’evidente compromesso della soluzione rischia tuttavia di renderla poco apprezzabile. Ai sostenitori della figura sarà facile sollevare la fondata obiezione secondo cui, ammesso in via di principio il concordato di liquidazione nel nostro ordinamento, la vera risorsa che il debitore sarebbe chiamato a offrire ai propri creditori dovrebbe essere nella speciale intelligenza della liquidazione del patrimonio di impresa esposta nel piano concordatario e confrontabile con l’alternativa della liquidazione giudiziale. Su questo piano di libero apprezzamento da parte dei creditori la liquidazione concordataria potrebbe farsi preferire sia per la maggiore celerità (e per il connesso vantaggio finanziario per i creditori) sia per la maggiore efficacia in termini di realizzo (e dunque per il connesso vantaggio patrimoniale per i creditori). Ancorare l’ammissibilità del concordato alla messa a disposizione di risorse esterne appare, in questa prospettiva, una soluzione grossolana in cui riecheggia la vecchia mentalità del traffico di indulgenze che scatenò, in reazione, la Riforma luterana. A chi, al contrario, sulla scorta di soluzioni accolte nei paesi di civiltà affine e nel solco di una mentalità di stampo anglosassone, ritiene pregiudizievole per la linearità del sistema la confusione in un’unica procedura di esiti di ristrutturazione e di liquidazione, il principio della delega apparirà sconfortante laddove ribadisce proprio questa commistione. Benché alla liquidazione sia dedicata una apposita parte della nuova legge, l’esito liquidatorio resta praticabile anche nel concordato preventivo: che non si emancipa dall’antica natura anfibia che ne ha sempre impedito l’affermazione nella pratica come procedura concorsuale di ristrutturazione, alternativa alla procedura concorsuale di liquidazione (allo stesso modo in cui la ristrutturazione stessa si pone come esito opposto alla liquidazione). Concordato in continuità. PremessaL’art. 6, comma 1, lett. l) fissa principi in tema di concordato in continuità. Si tratta di integrazioni alla disciplina già esistente che pertanto viene riconfermata così come è per essere poi ulteriormente arricchita. È bene ricordare che le regole sul concordato in continuità non riguardano direttamente la proposta di concordato e quindi il rapporto tra debitore e creditori, bensì il piano concordatario, e quindi la soluzione che si ritiene di dover offrire per il recupero aziendale. Questa è una distinzione essenziale, che tuttavia spesso sfugge. La continuità aziendale è intessuta nella storia plurisecolare del concordato. Quando il concordato recava (e reca) una proposta di pagamento di una somma di denaro ai creditori, spesso presupponeva (e presuppone) il prosieguo dell‘attività. Inoltre, quando il concordato implica la cessione dell’attività e degli asset ai creditori, non di rado anche in passato si organizzavano queste offerte con oggetto costituito non dai beni aziendali, bensì dall’azienda in funzione: anche questo fenomeno è classificabile come ‘continuità’. La domanda di concordato può avere alla base un’offerta di pagamento o un’offerta liquidatoria, ma il piano aziendale che sorregge quest’offerta può essere in entrambi i casi di continuità: quindi la domanda di concordato è alquanto insensibile al problema della continuità. La prosecuzione dell’attività nel corso della procedura solleva questioni delicate, perché la continuità aziendale dell’impresa in crisi contraddice non solo alle regole del diritto societario, ma a qualsiasi concezione liberale di mercato. Presuppone che si possa fare impresa anche in una situazione di patrimonio netto negativo, ovvero quando si versa in una condizione di insolvenza. In tali casi, la completa erosione del capitale di rischio pone in primo piano, nella questione dell’attività, il capitale di debito. Si prosegue nell’attività d’impresa a rischio esclusivo dei creditori. Infatti, i soci hanno perduto qualsiasi aspettativa di guadagno e anche di recupero dei propri conferimenti. Quindi nel momento in cui si azzera il capitale di rischio l’attività dovrebbe cessare, perché altrimenti i creditori assumerebbero, sotto il profilo economico, la posizione di soci involontari dell’imprenditore. Chi si dichiara insolvente e vuole proseguire l’attività, si imbatte in questa contraddizione economico-giuridica (che conto di illustrare ulteriormente discorrendo, a breve, di continuità e affitto di azienda). Ecco perché oggi abbiamo regole specifiche sulla continuità. L’imprenditore è divenuto insolvente, non dovrebbe operare, tuttavia lo fa sotto un controllo giudiziario e seguendo regole specifiche. Cosa accade quando si crea una situazione del genere? L’attività viene svolta sotto controllo, entra in un tunnel che è la procedura concorsuale, dove l’impresa continua ed essere gestita a rischio diretto dei creditori, con tutte le regole di prudenza contenute nella legge fallimentare, che inducono verifiche affinché ciò che viene deciso di svolgere nel concordato sarà all’insegna del miglior soddisfacimento dei creditori. Ciò posto, la continuità è assunta nel diritto di settore nella prospettiva ‘patrimoniale’. Siccome la nostra rimane una procedura concorsuale, ecco che nella continuità aziendale il fenomeno economico e finanziario va considerato in un’ottica che non è immediatamente familiare all’aziendalista, ossia nell’ottica patrimoniale. In sintesi, ed esprimendomi alla buona. Se devo vendere una bottiglia di acqua fresca tra due giorni e la posso vendere a cinque euro, vale la pena tenere il frigorifero accesso per due giorni al costo complessivo di un euro quando, se fosse spento, la potrei vendere a temperatura ambiente a cinquanta centesimi? Far proseguire l’attività del frigorifero, garantire ad essa continuità, vuol dire affrontare certe spese e sobbarcarsi un rischio d’impresa. La scelta va presa, ai fini della procedura, in un’ottica patrimoniale. Ciò che si conserva è una universalità di beni costituita essenzialmente da possibilità. Cioè un’impresa in attività: che, rimanendo attiva, può conservare un valore patrimoniale importante nella prospettiva della sua esitazione sul mercato. Di modo che la continuità aziendale potrebbe risolversi in un’attività completamente in perdita e corrispondere tuttavia in pieno al miglior soddisfacimento dei creditori. Ecco allora che il problema della continuità è nella valutazione patrimoniale di un fenomeno economico.
Il concordato in continuità nella delega Nella legge delega non è apportata nessuna innovazione alla definizione del concordato in continuità come procedura fondata su un piano che preveda la continuità diretta (assicurata dal debitore che rimane a capo dell’impresa) o indiretta (attraverso la ricollocazione dell’impresa in funzione sul mercato). È però stabilito che il sacrificio imponibile ai creditori prelatizi - consistente nella moratoria anche ultrannuale del pagamento del credito - sia connesso alla previsione del soddisfacimento dei creditori con risorse derivanti in misura prevalente dai proventi della prosecuzione dell’attività di impresa piuttosto che dal denaro ricavato dalla liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’attività (art. comma 1, lett. l), nn. 1-2). Sembrerebbe pertanto che le regole sulla continuità aziendale si applichino a tutte le procedure che prevedano la prosecuzione anche parziale dell’attività a prescindere dalla integrazione del piano con un capitolo sulla liquidazione della parte restante del patrimonio non recuperabile all’attività economica. In altri termini, il principio che la risorsa prevalente maturata nel concordato debba rinvenirsi nel ricavato della continuità aziendale nel caso in cui si voglia comprimere il diritto dei creditori prelatizi, implica la generale ammissibilità di figure di concordato liquidatorie ma con rilevanti aspetti del piano dedicati alla continuità aziendale. Del resto, l’ammissibilità di procedure di liquidazione da un lato e di procedure di continuità dall’altro determina - salvo espressa esclusione di legge nel caso non rinvenibile - l’ammissibilità, nel solco della tradizione, di figure miste di concordato. Spetterà al legislatore delegato fissare regole precise onde evitare che la previsione di una secondaria prosecuzione dell’attività di impresa giustifichi la prevalente attività di liquidazione concordataria senza che siano rispettate le condizioni di ammissibilità del concordato di liquidazione prima esaminate. Concordato in continuità e affitto di azienda Un problema che la pratica si è trovata a dover affrontare negli ultimi tempi concerne la applicabilità o meno della disciplina della continuità aziendale nel caso in cui l’azienda medesima - ovviamente relativa alla impresa in crisi - sia ceduta con contratto di affitto a terzi. Sul punto, l’art. 6, comma 1, lett. l) n. 3 pone la direttiva che la disciplina del concordato in continuità si applichi anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di un contratto di affitto. Dubito che un simile principio possa essere razionalmente esposto in regole. Esso è infatti frutto di un equivoco concettuale. Abbiamo anticipato che la principale conseguenza della attività di impresa in svolgimento, e dunque della continuità aziendale, sotto il profilo patrimoniale è dato dal rischio d’impresa che continua a gravare sugli aventi causa dell’imprenditore: soci, ossia prestatori di equity, e creditori, ossia prestatori di capitale di debito. La crisi finanziaria dell’impresa, quale conseguenza - il più delle volte - di una iniziale crisi economica e patrimoniale, pone il problema dello sbilancio patrimoniale, ossia della insufficienza del patrimonio del debitore per il pagamento di tutti i debiti assunti. In caso di sbilancio patrimoniale l’unica condizione economicamente razionale perché prosegua l’attività è nel credito che la stessa riesce ancora a maturare sul mercato. Alcune recenti definizioni di insolvenza, suscitate dalla crisi economica, rendono chiaramente conto di questo fenomeno. Nel diritto positivo francese, la concessione di credito (realizzata in via diretta o indiretta, attraverso dilazioni di pagamento) esclude lo stato di cessazione dei pagamenti, ossia l’insolvenza vera e propria (cfr. art. L. 631-1 code comm.). Nel diritto tedesco, per verificare lo ‘sbilancio patrimoniale’, ossia l’insufficienza dell’attivo patrimoniale a coprire le obbligazioni esistenti - e dunque, ancora, una situazione di insolvenza - occorre in ogni caso prendere in considerazione la prosecuzione dell’attività di impresa, qualora sia ragionevole presupporla (cfr. § 19 InsO): così da escludere la situazione di sbilancio patrimoniale tutte le volte che impresa riesca a permanere sul mercato. Veniamo al punto. Qualora l’impresa goda ancora di credito sul mercato, e dunque qualora sia ragionevole presupporre la prosecuzione dell’attività, il suo stesso svolgersi farà maturare un ulteriore rischio d’impresa, che graverà su tutti i creditori, e in primo luogo sui creditori che avranno ritenuto di confermare la propria fiducia nella impresa in crisi consentendole di proseguire. Qualora sia stata aperta una procedura concorsuale, si realizza il controllo degli organi della procedura sulla opzione della continuità aziendale. Cosa che si giustifica proprio per il permanere, in tal caso, del rischio di impresa in capo ai creditori concorsuali. Così, nel fallimento, l’esercizio provvisorio dell’impresa è subordinato a gravi ragioni di convenienza, giacché può essere autorizzato soltanto se dalla cessazione dell’attività possa derivare un danno grave, e sempre che la continuità aziendale non arrechi pregiudizio ai creditori; la continuazione dell’attività rimane in ogni caso soggetta al parere favorevole del comitato dei creditori, che deve ravvisare l’opportunità della prosecuzione dell’attività. Non dissimilmente, nel concordato preventivo la continuità aziendale è sottoposta ad un severo controllo, giacché occorre che il professionista incaricato attesti che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista nel piano concordatario sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Qui la situazione è ancora più difficile che nel fallimento, giacché mentre in quest’ultimo caso ad esercitare l’impresa è il curatore fallimentare, invece nel concordato l’imprenditore resta al suo posto di comando, sia pur sorvegliato quanto al compimento degli atti di straordinaria amministrazione dagli organi della procedura. Ma cosa accade circa il contratto di affitto d’azienda nel fallimento? Attualmente la legge fallimentare condiziona l’affitto alla probabilità di una più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa; precisa che la durata dell’affitto deve essere compatibile con le esigenze della liquidazione dei beni (cfr. art. 104 bis). Nessuna norma si preoccupa di tutelare i creditori dal rischio di impresa inerente alla conduzione della azienda da parte dell’affittuario. È solo stabilito, per massimizzazione della tutela, che in caso di retrocessione dell’azienda il fallimento non sopporterà comunque la responsabilità per i debiti maturati sino alla retrocessione (cfr. ancora art. 104 bis). E in effetti, non avrebbe potuto essere diversamente. A differenza di quanto accade nell’esercizio provvisorio, in cui l’azienda è condotta dal curatore e nell’ambito del fallimento - e dunque con sopportazione del rischio d’impresa da parte dei creditori concorsuali -, invece nel caso dell’affitto dell’azienda in fallimento il rischio d’impresa si sposta dai creditori concorsuali all’affittuario, mentre l’unico rischio che rimarrà pendente sopra i creditori concorsuali concernerà il mancato pagamento del canone. Lo stesso si verifica nella ipotesi del concordato. I creditori concorsuali sono destinati a sopportare il rischio d’impresa soltanto finché la stessa è condotta dall’imprenditore e nel concordato. Invece, quando sia concluso un contratto di affitto, precedentemente all’apertura della procedura concordataria o nel corso della stessa, allora dal momento della stipula del contratto il rischio di impresa graverà sull’affittuario. Cosicché o non graverà mai sui creditori concorsuali (nel caso in cui il contratto di affitto sia stato stipulato prima dell’apertura della procedura di concordato) oppure cesserà di gravare sui creditori concorsuali dal momento in cui, nell’ambito del concordato, sarà stipulato il contratto di affitto. È facile considerare, del resto, che nessuna questione sulla continuità aziendale in concreto potrebbe porsi qualora l’azienda fosse affittata. Infatti, in virtù del contratto di affitto, l’azienda è restituita al mercato; è condotta sotto la responsabilità dell’affittuario: il quale sopporta il relativo rischio d’impresa. Non sarebbero prospettabili, nemmeno in tesi, norme di favore quali quelle previste dalla legge fallimentare con riguardo alla continuità aziendale, di cui mai potrebbe giovarsi non l’imprenditore in procedura bensì un soggetto estraneo alla procedura medesima. E questo non soltanto perché in tal modo si altererebbero le condizioni date del mercato, consentendo indebiti vantaggi differenziali ad un operatore rispetto a tutti gli altri operatori che operano a parità di condizioni; ma anche perché, perlopiù, lo stesso affittuario non sarebbe nemmeno interessato ad avvantaggiarsi di tali regole, infatti previste appositamente per imprenditori in procedura. Ovviamente, all’applicazione di tali regole non sarebbe nemmeno interessato l’imprenditore in procedura, giacché quelle stesse regole sono relative alla conduzione di una azienda che egli non sta conducendo. In conclusione, poiché l’unico problema posto dalla continuità aziendale è nella sopportazione del rischio d’impresa da parte dei creditori concorsuali, tutte le volte che questo rischio di impresa non è sopportato o non è più sopportato dai creditori concorsuali, non si pone questione di continuità aziendale. Con riguardo al contratto di affitto, possiamo allora dire che continuità aziendale e affitto di azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove vi è continuità aziendale non può esservi affitto di azienda; dove vi è affitto di azienda non può esservi continuità aziendale. Vedremo cosa stabilirà il legislatore delegato. Misure protettiveL’art. 6, comma 1, lett. c) dispone di procedere alla revisione della disciplina delle misure protettive quanto alla durata, agli effetti e alla revocabilità. Quest’ultima va dichiarata su ricorso degli interessati, qualora le misure in questione non arrechino beneficio al buon esito della procedura. Il principio prende atto del ricordato fallimento, nella pratica, della figura sperimentale del concordato con riserva. La figura è stata pensata - e ancor più strumentalizzata nella pratica - come rimedio per garantire un automatic stay all'italiana, ossia con funzionamento affidato alla logica della procedura piuttosto che alla decisione argomentata del giudice (su cui grava un pregiudiziale e diffuso sospetto). Anziché produrre il beneficio del miglior governo della crisi attraverso la predisposizione del piano concordatario in serenità - ossia senza subire le pressioni dei creditori che richiedono di essere pagati, esercitano poteri di autotutela e infine domandano il fallimento - ha sortito l'effetto di consentire la dilazione abusiva dell’accertamento dello stato di insolvenza senza che a quell’abuso fosse posto un efficace rimedio. In realtà, come insegna anche l'esperienza nordamericana, la possibilità di concedere e revocare un termine di grazia per le trattative deve restare sottoposta alla libera valutazione del giudice affrancata dalle formalità tipiche della procedura concorsuale. Solo in tal modo può realizzarsi un monitoraggio sull'andamento delle trattative in buona fede e possono scongiurarsi approfittamenti del debitore: e dunque, in sostanza, l'abuso della risorsa procedurale. Se invece la revoca della misura coincide – come oggi accade – con la definizione di una vera e propria procedura concorsuale, allora ogni pretesa di elasticità ed efficienza dell’azione giudiziaria a tutela dei creditori diviene una chimera. Il principio in commento, se bene attuato, dovrebbe finalmente consentire il raggiungimento dell'obiettivo. A ciò dovrebbe conseguire, anche se la delega non ne discorre, l'eliminazione della discussa figura del concordato con riserva. Criteri di attestazione e di valutazione del pianoL’art. 6 comma 1 lett. d) assegna al legislatore delegato il compito di fissare le modalità imposte all’attestatore per l’accertamento della veridicità dei dati aziendali e per la verifica della fattibilità del piano, nonché di determinare l'entità massima dei compensi spettanti ai professionisti del debitore. La seconda parte della direttiva vuole reagire alla prassi, anche ritenuta scandalosa, dei compensi eccesivi. Conta di dire, più in dettaglio, della prima parte, relativa ai criteri redazionali della relazione attestativa del piano concordatario. La delega è intrinsecamente problematica. Le modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali (atto di certificazione) e il giudizio di fattibilità (atto di valutazione prospettica della probabile riuscita del piano) concernono il territorio delle scienze aziendalistiche piuttosto che del diritto della crisi d'impresa. Come ho già avuto modo di ricordare discorrendo di piani attestati di risanamento, nonostante la permeabilità dei confini si tratta di due ambiti culturali diversi e separati, ciascuno dei quali risponde a logiche precise ed autonome l'una dall'altra. Pur essendo comprensibile l'esigenza del legislatore delegante di fissare parametri sufficientemente certi al lavoro dell'aziendalista, l’indicazione non si emancipa dalla notevole perplessità che suscita riflettendo come ciò corrisponde più o meno allo stabilire per legge linee guida operative in settori non giuridici. Invero, in tutti i settori della scienza e della tecnica l’elaborazione di linee guida, o operative, è riservata al lavoro interno a quei mondi culturali. Il legislatore delegato si troverà nella incresciosa situazione di chi debba stabilire da un punto di vista giuridico norme tecniche invece riguardanti altre scienze e discipline. Esattamente come se fosse chiamato a stabilire le linee guida relative all'atto medico, o all'operatività di architetti, ingegneri agronomi, e così via. Si conferma il limite di fondo che compromette la legge delega. Come non ci si avvede della differenza tra crisi dell'impresa e insolvenza dell'imprenditore, tra piano aziendale di risanamento e contratti ed atti unilaterali di attuazione dello stesso, così non ci si avvede della differenza tra contenuto aziendale dell’attestazione del piano (anch’esso) aziendale e valutazione giuridica dell'elaborato peritale che attesti la veridicità e la fattibilità del piano. Valutazione giuridica che deve condursi con gli stessi criteri e lo stesso metodi di esame, dall’esterno, della completezza organicità e tenuta argomentativa di qualsiasi elaborato peritale sottoposto all’esame del giudice. Sui poteri giudiziali di valutazione del pianoL’art. 6, comma 1, lett. f) assegna al legislatore delegato il compito di determinare i poteri del tribunale sulla valutazione della fattibilità – anche economica - del piano. Il principio è dirompente, ponendosi in contrasto con l’intero movimento di riforma avviatosi dieci anni fa, che ha determinato una svolta di portata storica cancellando d’un colpo la vecchia legge corporativa che pure aveva disciplinato la materia per oltre sessant’anni nonostante tutte le modificazioni che in quei decenni si erano realizzate negli altri settori del diritto dell’economia. Nel 2005 si inaugura finalmente un nuovo corso, usualmente etichettato all’insegna della privatizzazione dell’insolvenza. Oltre a ridisegnare completamente lo status di fallito, sottraendo il debitore al trattamento infamante in precedenza stabilito in continuità con le legislazioni storiche, si riscrivono completamente le regole sui concordati e si attribuisce grandissima importanza all’esercizio dell’autonomia negoziale e contrattuale: nel fallimento, nel concordato preventivo e anche negli accordi amichevoli tra debitore e creditori. Per quanto più strettamente interessa il concordato preventivo, sono ridisegnati in senso restrittivo gli spazi del sindacato giudiziario. Nel nuovo testo dell’art. 180, dedicato al giudizio di omologazione, non solo è cancellato il potere del tribunale di sindacare (in autonomia rispetto alla opposizione dei creditori dissenzienti) la convenienza del concordato; ma con norma generale è previsto che se non sono proposte opposizioni il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame. Come già più volte ricordato, nella nuova versione della legge fallimentare, e del concordato preventivo, è opportunamente posto in luce il ruolo di un elemento di natura non intrinsecamente giuridica: ossia del piano o programma aziendale sulla base del quale è articolata l’offerta sottoposta al giudizio dei creditori. È previsto non soltanto che tale piano debba essere realizzato e depositato agli atti della procedura, ma anche che lo stesso debba essere asseverato da un revisore legale sia circa la veridicità dei dati aziendali su cui si fonda sia circa la fattibilità - ossia la realizzabilità prognostica, del programma proposto (cfr. art. 161) . Il deposito del piano e della relazione attestativa sono chiaramente considerati elementi essenziali di quella che generalmente è detta ‘domanda di concordato’ alludendosi non soltanto all’aspetto processuale (ricorso per il concordato preventivo) e alla offerta ai creditori (proposta ai creditori), ma anche alla programmazione economica che è posta alla base di quella offerta (piano attestato di concordato). Compito del tribunale è di verificare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della proposta concordataria, ossia il rispetto delle condizioni e dei presupposti stabiliti dalla legge per la ammissibilità del concordato preventivo (art. 162).Sulla base di questa disciplina, restava da definire quale fosse lo spazio determinativo del giudizio del tribunale. Ricorrendo ad una brutale schematizzazione - che tuttavia rende abbastanza fedelmente il contenuto delle opzioni che tuttora si pongono all’interprete - potrebbe dirsi che, secondo un primo indirizzo, spetterebbe al tribunale esclusivamente un controllo che si usa definire di ‘legalità formale’, ossia atto alla verifica della sussistenza degli elementi di cui si compone la domanda di concordato (ricorso, proposta, piano aziendale, attestazione, e l’ulteriore documentazione stabilita dalla legge) e della regolare formulazione di ciascuno di essi. Per un diverso orientamento, oltre a questo primo stadio di verifica sarebbe compito del tribunale di controllare la sussistenza anche della legittimità in senso sostanziale, ossia di verificare se, per quanto qui maggiormente interessa, la relazione attestativa assolva non soltanto formalmente ma anche sostanzialmente alla funzione per cui è prevista. Al riguardo si ha spesso cura di precisare che qualora vi sia l’opposizione dei creditori dissenzienti alla omologazione del concordato, tale opposizione può concernere non soltanto la legittimità formale della domanda ma anche la legittimità sostanziale, e così la fattibilità del piano concordatario. Un terzo indirizzo sostiene invece che il controllo del tribunale non possa limitarsi esclusivamente al piano della legittimità, ancorché sostanziale, della domanda concordataria dovendo invece investire in ogni caso - prescindendo dunque dalla sussistenza o meno di opposizioni formulate dai creditori dissenzienti - il merito stesso della domanda: e dunque la opportunità della stessa. Il che significa, controllo incondizionato e diretto (ossia non mediato dalla verifica di razionalità e completezza della relazione attestativa) del piano aziendale; in sostanza - attesa l’evidente difficoltà di separare il merito dalla convenienza - controllo sulla convenienza del concordato per i creditori. Il giudizio sulla fattibilità ‘giuridica’ del piano concordatario Un esito dell’acceso dibattito sui poteri di controllo del tribunale sulla domanda di concordato è contenuto nel principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 1521/2013) in questi termini: “Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti; il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato; quest’ultima, da intendere come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro”. La formulazione del principio suscita dubbi interpretativi sia per quanto concerne l’oggetto del controllo stesso, sia per quanto riguarda la natura e l’oggetto del giudizio. Proprio su questi dubbi non sopiti poggia, come meglio si vedrà, la soluzione adottata nella delega: assunta prendendo congedo da questa posizione della Cassazione, in adesione a certa giurisprudenza di merito favorevole a interventi più diretti del giudice sulla economia del concordato (a tutela dei creditori, evidentemente ritenuti non sufficientemente capaci di autotutelarsi con il voto). Conviene ricostruire le ragioni della decisione e il percorso argomentativo: in modo da focalizzare convenientemente la problematica, la soluzione prospettata dalla Cassazione e così introdurre il discorso sulla diversa soluzione invece accolta nella legge delega Qualche perplessità potrebbe innanzitutto sorgere sull’oggetto del controllo che, pur riferito testualmente al “giudizio di fattibilità” sembrerebbe per altro verso rivolto al requisito di fattibilità. Nel corpo della motivazione si discute invero di “fattibilità giuridica”, da valutarsi ad opera del tribunale e di “fattibilità economica”, rimessa al giudizio dei creditori. Potrebbe osservarsi che il giudizio sulla fattibilità è espresso dall’attestatore; così che il controllo su tale giudizio dovrebbe concernere la relazione attestativa (e infatti in sentenza è chiarito che oggetto del controllo del tribunale è la razionalità della argomentazione svolta dall’attestatore). Tuttavia, nel principio di diritto sembra ulteriormente stabilirsi un parallelismo tra giudizio sulla fattibilità reso dall’attestatore (e sottoposto al controllo di razionalità del tribunale) e giudizio sulla fattibilità (come detto in senso giuridico) reso dal tribunale (dichiarandosi che quest’ultimo non è escluso dal giudizio dell’attestatore). Nondimeno, dovendosi giudicare sopra un giudizio, il termine di riferimento non potrebbe essere il termine di quel giudizio. In altre parole, se il giudice deve giudicare il giudizio sulla fattibilità, allora non potrebbe giudicare della fattibilità in sé stessa considerata. Del resto, in motivazione non si portano esempi soddisfacenti sul giudizio di fattibilità esercitato direttamente sul piano concordatario: esaurendosi, come di seguito chiarito, il sindacato del tribunale sulla riscontrabilità nel caso concreto della funzione obiettiva dell’istituto concordatario che consiste nel superamento della insolvenza del debitore tramite il soddisfacimento concordatario dei creditori). Dal che l’ipotesi di lettura, da verificare in seguito, secondo cui unico effettivo oggetto del controllo del tribunale sia la relazione attestativa e non il piano che ne costituisce riferimento. Vi è poi da dire sulla natura e oggetto del giudizio. La natura del controllo del tribunale è di legittimità: il tribunale deve svolgere un controllo di legittimità sul giudizio in questione. La valenza di questo controllo è perimetrata dalla frase secondo cui “il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato”. La causa, pur intesa nel senso di funzione, in diritto privato è riferibile non a procedimenti, ma a negozi; nel caso del concordato può al più riferirsi – anziché all’intero procedimento - alla proposta di concordato (ossia all’offerta di soddisfacimento rivolta dal debitore ai creditori). Non potrebbe invece riguardare il piano concordatario che, sempre ragionando in termini di diritto privato, formalizza il percorso adempitivo della proposta. Potrebbe peraltro supporsi che il riferimento nel giudizio di fattibilità al piano quale percorso adempitivo renda rilevante, nel giudizio del tribunale - sotto il profilo del cosiddetto sinallagma funzionale – non il momento genetico, ma il momento esecutivo. Così inteso, tuttavia, il controllo si realizzerebbe entro perimetri non solo angusti, ma anche già posti dal sistema di diritto privato e ribaditi dalla disciplina specifica sulla risoluzione del concordato. Né aiuta la precisazione – in sentenza - sulla concezione della causa fatta propria dal principio. Si discorre di “causa concreta”, con ciò richiamandosi alla nota distinzione tra tipo negoziale e funzione di un concreto negozio, accolta dalla giurisprudenza di legittimità da oltre un ventennio e ormai posta alla base della concezione corrente di causa del negozio . Resta il fatto che il richiamo alla realizzabilità della causa concreta del concordato può ragionevolmente interpretarsi in senso lato: come riferito alla concreta possibilità di adempimento della proposta (e infatti nel principio si menziona da un lato il superamento della insolvenza e dall’altro il soddisfacimento dei creditori: ossia sempre, e in ogni caso, il raggiungimento dell’obiettivo concordatario). In questa prospettiva, il controllo del tribunale dovrebbe concernere la conseguibilità, in termini di possibilità giuridica, dell’obiettivo concordatario (e dunque della causa concreta del concordato) ora secondo l’argomentazione del professionista, ora secondo il piano concordatario. Nel primo caso la decisione apporterebbe una restrizione anche alla tesi più rigorosa sul controllo del tribunale (comunque inteso a verificare il giudizio del professionista sulla fattibilità probabile, e non meramente possibile); l’ipotesi va tuttavia scartata chiarendosi nel testo della sentenza come il tribunale debba sempre svolgere un controllo sulla razionalità argomentativa della relazione attestativa. Nel secondo caso potrebbe apparire sminuita l’importanza della relazione del professionista e del controllo dallo stesso realizzato; il tutto, per far posto ad un giudizio effettivamente non di legittimità, ma di merito reso dal tribunale in termini forse più ristretti di quello espresso dal professionista (limitato cioè alla possibilità - per di più giuridica -, e non alla probabilità, di superamento, per via concordataria, dell’insolvenza). Ma anche questa evenienza può essere accantonata. Infatti il giudizio del tribunale, per come delimitato nel principio di diritto in esame - riferito alla causa concreta del contratto da un lato e siccome da svolgersi sin dal momento della ammissione del debitore alla procedura -, non può che concernere la sussistenza in prospettazione della cosiddetta causa concreta del concordato. Se così fosse, una proposta concordataria avente ad oggetto un trattamento dei creditori conforme a norme imperative di legge secondo una programmazione adempitiva positivamente attestata circa la veridicità del dato aziendale e la realizzabilità economica del progetto (fattibilità) non potrebbe che superare positivamente il controllo di legittimità del tribunale sulla fattibilità giuridica del concordato. Controllo che dunque, anche sulla scorta dell’esaminato principio di diritto, sembrerebbe continuare a concernere la razionalità argomentativa della attestazione di fattibilità economica del piano concordatario. Dal che il sospetto che la giurisprudenza della Suprema Corte resti ancorata all’idea che al giudice non spetti valutare in modo diretto la fattibilità del piano aziendale posto a base della proposta; e che invece sia compito del giudice controllare in primo luogo le condizioni di ammissibilità della proposta (ossia la conformità della stessa al diritto imperativo) e in secondo luogo la razionalità dell’attestazione resa dal professionista sulla veridicità del dato aziendale e sulla fattibilità del piano sviluppato a partire da quel dato. La persistenza nella giurisprudenza di merito degli indirizzi sostanzialistici si spiega agevolmente con il persistere di abiti mentali che possiamo tranquillamente ricondurre agli inizi dell’Ottocento. Il radicale sospetto, risalente addirittura alla legislazione statutaria duecentesca, nei confronti del debitore insolvente insieme alle convinzioni pubblicistiche sul diritto fallimentare che Napoleone Bonaparte propugnò intensamente (partecipando a ben quattro sedute della commissione sul codice di commercio) fanno sentire ancora forte il richiamo. Del resto, il condizionamento storico non è eludibile; né il diritto fallimentare si presentò mai come qualcosa di veramente diverso da un regolamento di conti tra debitore fallito e creditori arbitrato dal giudice nel sacrosanto interesse dello Stato e dei secondi. Per dismettere le vecchie mentalità non è mai stato sufficiente il proverbiale colpo di penna del legislatore. Nel nostro caso non credo che basterebbero neppure le riflessioni che volessero contenersi nel mondo del diritto. Invece, e come sempre è accaduto nei periodi di innovazione del diritto commerciale, un faro importante è costituito dalla esperienza economica. Dalla attenta osservazione e da un sincero sforzo di conoscenza di quella realtà e di quella prassi non solo il legislatore ma anche giudici e professori potrebbero definitivamente emanciparsi da pregiudizi quasi imbarazzanti. Come quello del giudice tutore del debitore. Verso il giudizio sulla fattibilità ‘economica’ del piano concordatario Abbiamo visto che la delega stabilisce di determinare i poteri del tribunale con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità anche economica del piano. Adesso dovrebbe essere chiaro fino a che punto la novità è di grande rilievo sistematico. Il legislatore ha condiviso la giurisprudenza di merito che ha sostenuto con convinzione questa tesi, spinta dalla preoccupazione di arginare il malcostume della presentazione di piani di ristrutturazione inconsistenti sotto il profilo della proposta economica e pertanto destinati all'insuccesso. Direi che, per di più, nella legge delega risulta condivisa la versione più estrema delle posizioni sul controllo economico. Infatti, oggetto di esame diviene senz’altro il piano aziendale presentato dal debitore. La relazione attestativa rimane sullo sfondo, deprivata di qualsiasi reale utilità. Secondo il tenore della direttiva in esame, il giudice non dovrà preoccuparsi di valutare nel merito il giudizio di fattibilità (formulando, come dicevamo, un giudizio su di un giudizio) perché dovrà valutare direttamente il piano, che dell’attestazione costituisce l’oggetto. In altri termini, l’opera del giudice non si sovrappone per intero a quella del professionista; si sovrappone per intero – prima ancora – a quella del debitore. La scelta economica del debitore è valutata senza filtri: per essere condivisa o invece bocciata tutte le volte che non coincide con la scelta economica del giudice. Credo sia poco discutibile che il rimedio proposto – ancorato com’è a reazioni di stampo emotivo piuttosto che razionale - sia peggiore del male. Tutti sanno che un principio fondativo del diritto commerciale concerne i limiti del sindacato giudiziario sulla scelta economica dell'imprenditore. Per quanto non sia mai sopita del tutto la tentazione di revocare in dubbio il confine che deve sempre cogliersi tra condotta criticabile perché in violazione della legge e condotta criticabile sotto il profilo della opportunità della scelta economica intrapresa dagli amministratori, restava fino a ieri intatta una fondamentale distinzione. Da un lato si pone la valutazione del giudice sulla correttezza giuridica della condotta dell'imprenditore (o, in caso di società, di coloro che ne hanno la responsabilità di governo). Dall'altro lato si pone il giudizio di soci e creditori sulla bontà della scelta economica intrapresa entro un perimetro di legalità. Mentre la violazione di regole giuridiche espone alla responsabilità risarcitoria per azione intentata dalla società dai soci o dei creditori, invece il merito economico della scelta imprenditoriale è insindacabile dal giudice e, qualora non condiviso dall'assemblea, espone gli organi di governo societario alla revoca dalle funzioni attribuite. Questa distinzione di principio è operativa in tutti gli ordinamenti liberali; ma cade in dubbio ed è sostanzialmente negata nella legge delega. Mentre il giudice non potrà sindacare il merito economico di nessuna pianificazione aziendale (e dunque non potrà vagliare la condivisibilità economica di business plan, di piani di startup, di piani industriali e così via) invece potrà indagare il merito dei piani di ristrutturazione. La regola è destinata a restare priva di una coerente giustificazione sistematica. Ma per cogliere fino in fondo la stranezza di questa situazione si può anche riflettere su come al giudice sia precluso non soltanto di condividere o meno scelte economiche ma, su un piano completamente diverso e tuttavia allo stesso modo rilevante nel nostro caso, di esprimere giudizi di merito su discipline tecniche e scienze diverse dal diritto. Ecco perché a tal fine, come abbiamo prima ricordato, il giudice - nel valutare l'operato di medici. architetti ingegneri, agronomi e così via – fa ricorso a consulenze tecniche. Invece nel nostro caso potrà (dovrà) elaborare direttamente una valutazione economica: precisa a tal riguardo la delega “tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”. Il cerchio si chiude. La legge stabilirà i criteri – aziendali - per redigere la relazione attestativa. Il commissario giudiziale esprimerà la sua opinione sulla tenuta economica del piano aziendale (con ciò esprimendo valutazioni aziendalistiche). Infine il giudice valuterà direttamente (senza nemmeno dover dar conto della relazione medesima) la fattibilità economica del piano: ossia la soluzione aziendale in esso assunta (con ciò esprimendo anche lui valutazioni aziendalistiche). La tesi aziendalistica del giudice deciderà il destino del concordato. Dilazione di pagamento e voto per i creditori garantitiAnche a seguito di qualche intervento della Corte di cassazione (cfr. per es. Cass. n. 10112/2014), trova sempre maggior credito l'idea che la proposta di concordato preventivo possa contenere l'offerta di pagamento dilazionato ai creditori garantiti anche al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e prescindendo dal consenso di tali creditori a subire un simile trattamento. Dottrina e giurisprudenza non dubitavano in passato che il pagamento ai creditori garantiti dovesse avvenire, al più tardi, al passaggio in giudicato del decreto di omologazione del concordato (cfr. Cass. n. 12632/1992). La dottrina e la giurisprudenza recenti, negli ultimi tempi anche di legittimità, risultano invece prevalentemente favorevoli alla opposta e meno rigorosa soluzione sulla ammissibilità di una proposta di pagamento con dilazione. Si offrono, a sostegno, ragioni di opportunità. L'argomento principale è che in questo modo si verrebbero incontro a un ritenuto (ma non meglio specificato) interesse della massa dei crediti chirografari; oppure a un ritenuto favore per le soluzioni concordatarie (che tuttavia non dovrebbero essere perseguite ad ogni costo, anche in lesione dei diritti di certe categorie di creditori). Le ragioni di tutela del creditore garantito non risiedono, evidentemente, nella legge fallimentare, la quale si limita esclusivamente ad esplicitare ed applicare sul terreno dell'insolvenza commerciale i principi e le regole generali della responsabilità patrimoniale contenuti degli articoli 2740 e seguenti del codice civile. La regole per i creditori sottratti al concordato, come sono i creditori prelatizi, è del pagamento immediato e in denaro, oppure del pagamento immediato in denaro all'esito della liquidazione giudiziale dei beni (a seconda che la proposta concordataria sia di pagamento o di cessione dei beni alla liquidazione concorsuale). Le norme che stabiliscono una eccezione alla regola, per la loro stessa esistenza, ne confermano la vigenza in tutti i diversi casi non previsti. Se non vi fosse nessun problema ad ammettere la dilazione, non vi sarebbe nessuna necessità di specificare la possibilità della dilazione medesima in determinati casi ben individuati. Dunque, le regole sulla dilazione costituiscono regole eccezionali rispetto ad una regola generale. L'eccezionalità di tali regole sulla dilazione ne impedisce l'interpretazione analogica. Chi trascura questa realtà è destinato ad imbattersi in difficoltà progressivamente insormontabili. La dilazione di pagamento, determinando - come riconosce la stessa Cassazione della sentenza citata - un vero e proprio finanziamento del debitore, costituisce una compressione importante del credito, la quale non può essere imposta al creditore garantito, che come tale è escluso dal voto. La stessa Cassazione, nella sentenza citata, riconosce che “nel regime previgente […] l'ammissione dell'imprenditore al concordato preventivo postulava l'integrale pagamento dei crediti privilegiati immediatamente dopo l'omologazione del concordato, sia perché l'art. 160 l.fall. - nel condizionare la proposta di concordato al pagamento, entro sei mesi, dei crediti chirografari, e, in caso di dilazione maggiore, alla prestazione di garanzie anche per il pagamento degli interessi - implicitamente presupponeva l'immediato pagamento dei crediti privilegiati, sia perché solo l'obbligo dell'immediata soddisfazione di tali crediti giustificava l'esclusione dei creditori privilegiati dal voto per l'approvazione del concordato e la necessità per partecipare ad esso, della loro rinunzia alla prelazione”. Dal che l'idea, ispirata da intenti equitativi, di ammettere il creditore prelatizio al voto nella misura corrispondente alla perdita finanziaria subita a seguito della dilazione di pagamento impostagli (il cui accertamento, precisa la Cassazione, costituisce questione di fatto). Questa soluzione deriva dall'esigenza di superare la grave difficoltà determinata dalla possibilità riconosciuta il debitore insolvente di comprimere a suo piacimento i diritti dei creditori non votanti. Ma l'interprete, per superare una difficoltà creatasi da solo, giunge ad escogitare la soluzione della ammissione, anche dei creditori che vi sono sottratti, al voto concordatario. In tal modo si finisce per attribuire proprio al debitore insolvente la decisione sovrana di far votare i creditori prelatizi, i quali hanno sì acquisito la garanzia, ma per rimanere soggetti in tutto per tutto alla volontà del debitore: come se non fossero creditori prelatizi, ed in effetti trattati con l'eguale libertà di cui il debitore gode nei confronti dei creditori chirografari. Come si vede, alla iniziale difficoltà di compensare la perdita imposta dal debitore ai creditori garantiti se ne aggiunge una molto più grande, di imporre a costoro anche di votare in qualche misura la proposta concordataria che li pregiudica. Tutto ciò, senza considerare la difficoltà di praticare in concreto la soluzione di attribuire al creditore un determinato diritto di voto, essendo abbastanza arbitrario stabilirne la misura (questione che la cassazione si è limitata a definire non di diritto ma di fatto). Perciò appare conforme a sistema che i creditori prelatizi possano essere pagati con dilazione, ma soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge in evidente deroga ai generali principi stabiliti nel sistema della responsabilità patrimoniale; oppure, qualora non si versasse in tali casi eccezionali, a condizione che essi creditori garantiti concludano con il proponente appositi accordi paraconcordatari. A condizione, in altri termini, che il trattamento sia stabilito non per deliberazione maggioritaria ma secondo la regola del consenso. Il principio sub art. 6 comma 1 lett. h) concerne tuttavia la disciplina del diritto di voto dei creditori garantiti il cui pagamento sia proposto come dilazionato. Evidentemente gli umori diffusi nella giurisprudenza hanno alla fine indotto l'inserimento di questa profonda innovazione nella delega. Spetterà al legislatore delegato conformare il diritto di voto del creditore garantito in ragione del potere del debitore di imporre una dilazione al pagamento. In questa impresa si troverà ad affrontare le gravi difficoltà appena esposte. A prescindere dalla concreta praticabilità delle norme che verranno, aumenterà inevitabilmente la distanza che separa il diritto della crisi d'impresa dal diritto privato generale. Proposta di soddisfacimento con utilità diverse dal denaro e votoSempre l'art. 6 comma 1 lett. h) impone di disciplinare il diritto di voto dei creditori il cui soddisfacimento sia proposto con utilità diverse dal denaro. Non è chiarito se questa modalità di soddisfacimento sia proponibile soltanto ai creditori chirografari o anche ai creditori garantiti. Quali destinatari della promessa concordataria, i creditori chirografari sono ammessi al voto. Al diritto di voto riconosciuto ai creditori chirografari corrisponde un ampio spazio determinativo della proposta concordataria. Se per principio generale deve essere assicurata la parità di trattamento di tutti i creditori chirografari, per regola generale, il proponente è libero di articolare l'offerta sia sotto il profilo della percentuale di soddisfazione sia sotto il profilo dei mezzi e delle modalità satisfattive. A tali creditori può essere proposta soddisfazione a prescindere da una soglia minima prefissata di valore; inoltre, l'adempimento non deve realizzarsi necessariamente attraverso il pagamento di una somma di denaro (anche rinveniente dalla liquidazione di tutti i beni del debitore, ceduti in concordato) potendo offrirsi soddisfazione con qualsiasi mezzo (cfr. art.160, primo comma, l. fall.). La legge in vigore non chiarisce se anche per i creditori garantiti possa ipotizzarsi una simile offerta adempitiva. Si limita infatti a stabilire che i creditori garantiti fanno valere il loro diritto di prelazione sul prezzo dei beni vincolati, ed hanno diritto di essere soddisfatti in misura non inferiore al presumibile valore di realizzo (cfr. artt. 54, primo comma; 124, terzo comma e 160, secondo comma, l. fall.). Per la prima disposizione, riferita al prezzo del bene, tali creditori devono essere pagati in denaro. Anche per la seconda disposizione tali creditori hanno diritto al pagamento in denaro. Proprio il denaro costituisce il risultato della conversione del bene nella esecuzione forzata, il c.d. realizzo. Poiché la legge non dispone nessuna stima sul bene in cui il bene oggetto di esecuzione si ‘convertirebbe' per scelta del debitore, deve convenirsi che oggetto della offerta ai creditori garantiti debba essere il pagamento in denaro: quale unico ‘bene' risultato della conversione, non necessitante di ulteriore conversione e insensibile alla stima. La precisazione esplicita un altro limite alla organizzazione della proposta concordataria. Qualsiasi forma di soddisfazione del credito diversa da quella originariamente stabilita nella fonte della obbligazione implica una modificazione di tali condizioni originarie, la quale modificazione non può essere imposta a creditori non votanti. Tuttavia, anche tale limite sarà probabilmente rimosso dal legislatore delegato. Una volta sconfitto il tabù della esclusione dei creditori garantiti dal voto, dietro l'attribuzione del voto sarà possibile proporre ai creditori garantiti adempimenti con qualsiasi bene o utilità diversi dal denaro. Il che comporterà – insieme alla potestà di offrire pagamenti dilazionati - una notevole sovrapposizione tra trattamento riservato ai creditori prelatizi e trattamento riservato ai creditori chirografari. È facile prevedere che per questa dinamica, la prelazione tenderà a scomparire nel diritto dell'insolvenza (secondo quanto accadde in talune esperienze statutarie isolate agli albori del diritto fallimentare). La suddivisione dei creditori in classi di votoNel diritto concorsuale tradizionale il principio di parità si estrinseca in una regola assoluta: il trattamento dei creditori chirografari è considerato un unico trattamento, valido per tutti i creditori chirografari (cfr. artt. 124, comma 1, e 160, comma 2, l. fall. versione 1942). Con la riforma la regola permane ma perde la sua assolutezza, subendo una importante attenuazione per la facoltà riconosciuta al proponente il concordato di suddividere i creditori in classi e offrire trattamenti differenziati fra appartenenti a classi diverse (art. 160, primo comma, l. fall. vigente). In tal modo, la regola diviene derogabile dall'autonomia privata, che risulta proporzionalmente rafforzata nei concordati. Il proponente che intenda offrire condizioni differenziate ai creditori chirografari deve prevederne il raggruppamento in classi omogenee affinché rispetto alla natura chirografaria del crediti - qualità puramente negativa, utile a escludere soltanto la natura prelatizia del credito - emerga una ulteriore omogeneità giuridica e una omogeneità di interessi economici. Tali qualità determinate da caratteristiche positive (la natura volontaria o involontaria della causa del credito, il riferimento dello stesso a finanziatori professionali, a fornitori, a professionisti ecc.) giustificano la deroga alla parità di trattamento di tutti i creditori (semplicemente in quanto chirografari) in onore di una più intensa parità di trattamento di creditori racchiusi in gruppi omogenei sotto il profilo giuridico ed economico (classe delle banche; classe dei fornitori; classe dei creditori fiscali, previdenziali e assistenziali ecc.). In definitiva, ciò che essenzialmente conta per la legge è che i creditori chirografari siano trattati egualmente. Se il proponente non intende derogare al principio di parità, non deve fornire alcuna argomentazione giustificativa, avendo deciso di offrire a creditori chirografari il trattamento eguale a cui, secondo il codice civile, hanno diritto. Se invece intende derogare, deve rispettare le condizioni della deroga, e ha l'onere di giustificare la sua scelta, infatti sottoposta al controllo del tribunale, tenuto alla verifica sulla corretta formazione delle classi (cfr. artt. 125, terzo comma e 163, primo comma, l. fall.) Dopo gli iniziali dibattiti, sembrava essersi affermata l'idea che la divisione in classi costituisca una risorsa messa a disposizione del debitore per la organizzazione del piano. Qualora si voglia riservare un trattamento differenziato a talune categorie di creditori sarà necessario organizzare delle classi omogenee di voto rendendo così più articolata e complessa la procedura di formazione delle maggioranze necessarie alla approvazione della proposta. Invece, l'art. 6, comma 1, lett. e) incarica il Governo di individuare i casi in cui la suddivisione dei creditori in classi omogenee di voto sia obbligatoria, prevedendo che tale obbligo sussista comunque in presenza di creditoria assistiti da garanzie esterne. Il classamento obbligatorio previsto nella legge delega determina una imposizione dall'esterno sulla scelta organizzativa del debitore. E dunque la concretizzazione una ulteriore difficoltà nella approvazione della proposta concordataria. Ciò al fine di discriminare posizioni che pur essendo omogenee sul piano concordatario con riguardo al patrimonio del debitore si mostrano differenziate rispetto al patrimonio di terzi sui quali eventualmente taluni creditori possono vantare garanzia. La regola sarà di difficilissima applicazione considerato che le garanzie esterne saranno della più varia natura composizione entità sicurezza di realizzo. La chiusura nella stessa classe dei fideiussori di due o più creditori renderà estremamente difficile in concreto la comparazione delle rispettive posizioni già considerando soltanto la solvenza del garante evidentemente diversa di caso in caso. Di nuovo un sentimento di giustizia e di equità suscita un rimedio inadeguato. La consultazione dei creditori e le maggioranze per l’approvazione del concordatoNuove regole riguarderanno la consultazione dei creditori. Ragioni pratiche hanno indotto la disposizione dell’art. 6, comma 1, lett. g) sulla soppressione dell'adunanza dei creditori per procedere a consultazioni secondo la modalità telematica. Ma la direttiva diviene rilevante soprattutto laddove si stabilisce che nell'ipotesi in cui un solo creditore sia titolare di crediti pari o superiori alla maggioranza di quelli ammessi al voto, occorrerà adottare un sistema di calcolo delle maggioranze anche per teste. Si tratta di un correttivo opportuno, volto a restituire voce agli altri creditori nei casi in cui il passivo patrimoniale sia quasi integralmente assorbito in una sola posizione creditoria, il titolare della quale potrebbe perciò strumentalizzare ai suoi fini la procedura di ristrutturazione o di liquidazione. Esecuzione della proposta concordatariaL’art. 6, comma 1, lett. m) fissa il principio della più dettagliata disciplina nella fase di esecuzione del piano con possibilità per il tribunale di affidare ad un terzo il compito di porre in essere gli atti necessari all'esecuzione della proposta concordataria. La regola va letta in combinato disposto con l'art. 6, comma 2, lett. b) sulla imposizioni agli organi delle società del dovere di dare tempestiva attuazione alla proposta omologata. Con la precisazione che in caso di comportamenti dilatori od opportunistici l'attuazione possa essere affidata ad un amministratore provvisorio nominato dal tribunale e dotato dei poteri spettanti all'assemblea ovvero del potere di sostituirsi ai soci nell'esercizio del voto in assemblea. I due principi affrontano il delicato problema della esecuzione del concordato da parte del debitore, imprenditore individuale o collettivo. Poiché l’attuazione del piano si realizza attraverso l'esercizio dell'attività d'impresa (in quanto le proposte liquidatorie oltre ad essere considerate in prospettiva residuali sono di norma affidate nella esecuzione a liquidatori giudiziali), è condivisibile la preoccupazione del legislatore delegante di sottrarre la gestione dell'attività a fini di esecuzione del piano alle determinazioni del debitore. Perciò in caso di inottemperanza del debitore deve essere prevista la possibilità di una sua sostituzione ad opera di un soggetto nominato dal tribunale. Concordato delle società e regole sui gruppiL’art. 6, comma 2, detta ulteriori principi in caso di procedure riguardanti società. Alla lett. a) si stabilisce di disciplinare l'azione sociale di responsabilità in conformità alle regole del codice civile. Alla lett. c) si pongono direttive sulla conservazione dell'attività di trasformazione fusione o scissione poste in essere nel corso della procedura. In primo luogo, l'opposizione dei creditori potrà essere proposta solo nell'ambito della procedura concorsuale e non fuori dalla stessa; in secondo luogo, è prevista l’irreversibilità degli effetti delle operazioni in discorso anche in caso di risoluzione o di annullamento del concordato. L’art. 3, comma 2, fissa principi nell'ipotesi di gestione unitaria della procedura di concordato preventivo riguardante un gruppo di società. Sulla scorta della giurisprudenza formatasi negli ultimi anni, il legislatore delegato stabilità regole sulla la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale nonché il deposito di un unico fondo per le spese; su votazioni separate per creditori di ciascuna società (evidentemente sul masse passive egualmente separate); sugli effetti dell'eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata; sui criteri per la formulazione del piano unitario aziendale. Attesa la natura unitaria dell'attività economica (ossia dell'impresa) si comprende come il piano aziendale non possa che essere corrispondentemente unitario. Invece i centri di imputazione dell'attività sono molteplici. Occorrerà perciò disciplinare distintamente gli esiti dell'insolvenza di ciascun soggetto cercando di promuovere la relatività degli effetti delle vicende giuridiche che lo riguardano. La questione si pone già in fase di approvazione della proposta unitaria; ma si ripropone anche con riguardo alla risoluzione, alla revoca e all’annullamento del concordato. Per tutte queste evenienze bisognerà decidere se disporre, ed in che limiti, regole sulla relatività degli effetti che facciano salva l’operazione complessiva in caso di mancato raggiungimento delle maggioranze, inadempimenti o cause di inammissibilità con riguardo a singoli centri di imputazione dell'attività. BibliografiaDi Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017 |