Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 15 - Spese del giudizio 1 2 .

Andrea Antonio Salemme

Spese del giudizio12.

1. La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. [La commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell' art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile] 3.

2. Le spese del giudizio sono compensate, in tutto o in parte, in caso di soccombenza reciproca e quando ricorrono gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate ovvero quando la parte è risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi che la stessa ha prodotto solo nel corso del giudizio4.

2-bis. Si applicano le disposizioni di cui all'articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile 5.

2-ter. Le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti 6.

2-quater. Con l'ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito 7.

2-quinquies. I compensi agli incaricati dell'assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le singole categorie professionali. Agli iscritti negli elenchi di cui all'articolo 12, comma 4, si applicano i parametri previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili 8.

2-sexies. Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza 9.

[2-septies. Nelle controversie di cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento .]10

2-octies. Qualora una delle parti ovvero il giudice abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del giudizio maggiorate del 50 per cento, ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se è intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione 11.

2-nonies. Nella liquidazione delle spese si tiene altresì conto del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza degli atti di parte12.

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 59 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

[3] Comma modificato dall'articolo 9, comma 1, lettera f), numero 1), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016.

Inquadramento

Fino al 1992, al processo dinnanzi alle commissioni tributarie non si applicavano le norme in materia di condanna alle spese della parte soccombente (cfr., da ultimo, l'art. 39 d.P.R. n. 636 del 1972, che escludeva dal rinvio residuale alle norme del c.p.c. proprio gli artt. da 90 a 97 in materia di condanna alle spese di lite).

Solo con la riforma del 1992 il principio della condanna alle spese della parte soccombente è stato introdotto anche nel contenzioso tributario: l'art. 15 d.lgs. n. 546/1992, infatti, nella sua formulazione originaria, prevedeva che «la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. La commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell'art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile». Si è così realizzata una prima equiparazione in parte qua del rito tributario al rito civile, nonostante che lo schema impugnatorio – nelle linee essenziali comune al rito amministrativo – contrapponga il ricorrente, che, generalmente, anche se non necessariamente, è un soggetto privato, all'amministrazione finanziaria, pubblica per definizione, ovvero al concessionario della riscossione, formalmente privato ma sostanzialmente pubblico: talché si è affermata anche sul terreno delle spese la linea moderna di considerare soggetti pur pubblici alla stregua di semplici parti, come tali passibili, in caso di soccombenza, ad una vera e propria condanna – perciò eseguibile coercivamente – alle spese. Per l'effetto ben può ritenersi che le spese costituiscano il banco di prova dell'equiparazione delle parti nel rito tributario, di per sé, come il giudice chiamato ad applicarlo e a farlo osservare, imparziale: è noto che l'art. 10, comma 1, lettere a) e b), l. n. 23/2014, su cui il d.lgs. n. 156/2015 si fonda, delegava il Governo a dettare «norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell'organo giudicante». In buona sostanza, se l'amministrazione o il concessionario resistono ingiustificatamente all'impugnazione del contribuente devono sopportarne le conseguenze, ristorandolo della deminutio che il medesimo si è visto sopportare per far valere il proprio diritto. Par chiaro che ciò contribuisce a sensibilizzare al massimo grado le parti pubbliche, inducendole a ponderare, si potrebbe dire con un supplemento di riflessione, la difesa processuale delle proprie posizioni pur dopo gli eventuali contraddittori procedimentali con il contribuente: invero, a latere della statuizione di condanna alle spese, cui soggiacciono, come un soggetto di diritto qualunque dinanzi ad un giudice terzo, in funzione del criterio dell'accertata difformità del loro operato rispetto alle previsioni di legge e di regolamento applicabili, resta pur sempre sullo sfondo la responsabilità contabile dei vari funzionari succedutisi nella trattazione della posizione del contribuente, dapprima procedimentale, dappoi processuale (responsabilità viepiù stringente nel caso di temerarietà delle tesi sostenute).

Ciò detto, però, proprio sul terreno che si sta scandagliando, emerge un'evidente diseguaglianza cagionata da un irragionevole «eccesso di zelo» del d.lgs. n. 156/2015 nell'assicurare una tutela più che adeguata delle parti private al cospetto di quelle pubbliche. Ai sensi dell'art. 69 d.lgs. n. 546/1992, infatti, la condanna alle spese in favore del contribuente, contenuta in una sentenza non ancora passata in giudicato, è provvisoriamente esecutiva senza alcun limite di somma; mentre, nell'ipotesi di condanna a favore dell'ente, la riscossione può avvenire mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza, in ossequio a quanto testualmente dispone l'ultima parte del comma 2-sexies dell'art. 15 in commento. Par chiaro che l'irragionevolezza è lesiva del principio di parità di trattamento delle parti. Essa è viepiù foriera di lungaggini procedimentali inutili, perché il contribuente, che potrebbe in ipotesi esser distolto dall'esecuzione del capo condannatorio sulle spese, ha un incentivo concreto in senso opposto, in modo da procrastinare sine die la conclusione del processo. Essa è infine il portato obliquo di una visione preconcetta dell'inferiorità del privus di fronte alla pubblica amministrazione in specie finanziaria: in disparte la considerazione che la platea dei ricorrenti in tutti e tre i gradi consentiti dall'ordinamento si compone di un gran numero di evasori, in un'ottica sistemica, la circostanza che le parti pubbliche non possano recuperare medio tempore le spese significa che il finanziamento del contenzioso tributario, anziché costituire un capitolo finanziato almeno tendenzialmente dai successi ottenuti in sede giurisdizionale, così gravando sulle tasche del contribuente che malamente si è opposto alla pretesa tributaria, grava sulle casse pubbliche e dunque sulle tasche dei cittidini che pagano imposte e tasse.

Ad ogni modo, l'evoluzione dell'art. 15 in commento non si è fermata a tanto, attese le modifiche – questa volta tecnicamente adeguate – recate pur sempre dal d.lgs. n. 156/2015, il quale ha introdotto novità di rilievo, sotto il faro benefico di un fine deflattivo, segnatamente sui due aspetti fondamentali della stabilizzazione della statuizione sulle spese nel sub-procedimento cautelare e dell'incidenza sul regolamento delle spese in sentenza del rifiuto a concludere in corso di causa una conciliazione onorevole (sulla riforma, specificamente, Russo, 2015, 44, 4231, per il quale, nondimeno, le novità sono in realtà minime, trattandosi per lo più del recepimento di principi già operanti nel processo tributario in virtù del principio di applicabilità, per quanto compatibili, delle disposizioni dettate per il processo civile).

Ma, nel gioco di luci ed ombre che caratterizza il predetto d.lgs., non può farsi a meno di rilevare come esso sia intervenuto ex professo anche sul regime della compensazione delle spese, non tenendo tuttavia il passo con le sensibilità che nel frattempo erano state elaborate e persino portate a compimento nel rito civile. Infatti l'art. 9 ha riscritto il comma 2 dell'art. 15 in commento, prevedendo che «le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate». In particolare la riforma ha inteso canonizzare la clausola delle «gravi ed eccezionali ragioni», da indicare specificamente in motivazione, in alternativa al criterio di base della soccombenza reciproca. Nondimeno trattasi di una clausola che l'art. 92 c.p.c. ha vissuto solo per un periodo limitato, tra il 2009 ed il 2014. Più precisamente, prima che l'art. 45, comma 11, l. n. 69/2009 avvertisse l'esigenza di intervenire sull'art. 92 c.p.c., un'esigenza nascente da certe degenerazioni largheggianti di compensazioni disposte sbrigativamente a fronte di motivazioni stereotipe, la compensazione poteva reggersi anche soltanto su quegli «altri giusti motivi» che avrebbe potuto dar ingresso a valutazioni discrezionali del giudice purché ponderate ed articolatamente illustrate; il comma 11 di cui si discorre – ripreso nel contenzioso tributario – ha voluto richiamare proprio il giudice all'esigenza di considerare la compensazione come un'eccezione all'applicazione della regola della soccombenza, che legittima bensì la compensazione, ma soltanto nel caso della soccombenza reciproca, in guisa da addossargli l'onere aggravato di specificamente motivare sull'attivazione di un potere sostanzialmente straordinario; evidentemente non pago della risposta ottenuta, il legislatore è ulteriormente intervenuto a stringere le maglie della compensazioneextra ordinem, riducendo, con l'art. 13 d.l. n. 132/2014, le gravi ed eccezionali ragioni della versione medio tempore vigente dell'art. 92 c.p.c. ai soli casi di «novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti»; il disallineamento, per difetto di aggiornamento, del rito tributario al cospetto di quello civile dovrebbe essere colmato in sede interpretativa considerando la novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza, se non gli unici, quantomeno i due principali indici di gravità ed eccezionalità delle ragioni legittimanti una compensazione non di per sé giustificata dalla soccombenza reciproca.

Il principio di responsabilità per le spese del processo

Ai sensi del comma 1 dell'art. 15 in commento, «la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza». Suole dire che detta disposizione codifica nel rito tributario il principio della soccombenza da sempre in auge nel rito civile (art. 91, comma 1, primo periodo, c.p.c.: «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa»).

La ratio della norma risiede nell'esigenza di evitare che la parte vittoriosa subisca il costo del processo. Infatti, se tale norma non esistesse, essa vedrebbe ridotta l'utilità consistente nel riconoscimento del proprio diritto, ancorché conseguita soltanto per effetto dell'attivazione della tutela giurisdizionale, di per sé onerosa. Ciò, oltre a contrastare già in linea teorica con il principio del giusto processo ex art. 111 Cost., comprometterebbe seriamente la concreta attuazione del diritto di difesa, al quale soprattutto i contribuenti più deboli sarebbero costretti a rinunciare. Del resto, se non fosse la soccombenza a governare la contrapposizione delle parti insita nella contesa processuale, i diritti aventi una consistenza economica inferiore ai costi di giudizio – la qual cosa accade con una certa frequenza proprio in ambito tributario – non beneficerebbero pressoché mai della tutela giurisdizionale, con conseguenze determinazione di sacche di illiceità sottratte a sanzione. Nondimeno, pur insorgendo anche in ambito tributario l'opportunità di evitare il fenomeno deletorio della moltiplicazione di processi intrinsecamente lunghi e costosi per pretese esigue, il rito tributario sconosce l'accorgimento esplicitato dall'art. 91, ult. comma, c.p.c., a termini del quale, «nelle cause previste dall'articolo 82, primo comma», ossia nelle cause di competenza del giudice di pace, per un valore non superiore ad euro 1.100,00=, rispetto alle quali è consentito che le parti stiano in giudizio personalmente, «le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda»: parrebbe che tale manchevolezza, indice di una sciatteria cronica dei legislatori riformisti degli ultimi tempi, possa esse compensata da un uso sapiente del potere liquidatorio in generale nelle cause di modesto valore già da parte delle commissioni tributarie di primo grado, che si trovano in trincea nella gestione del contenzioso «minimo».

Correttamente ricorda la Circ. Ag. Entrate n. 38/E del 2015, par. 1.4, che, «al fine di rispettare sostanzialmente il principio di soccombenza e di tenere indenne la parte vittoriosa da tutte le spese sostenute nel giudizio, compresi i c.d. oneri accessori, il nuovo comma 2-ter dell'articolo 15 specifica che le spese di giudizio comprendono — oltre al contributo unificato, agli onorari e ai diritti del difensore, alle spese generali e agli esborsi sostenuti — anche i contributi previdenziali e l'imposta sul valore aggiunto eventualmente dovuti».

In definitiva, il principio della soccombenza rappresenta la codificazione del più comprensivo principio di responsabilità in seno al processo, così civile come tributario, che dunque si conferma quale strumento approntato dall'ordinamento per consentire al titolare di reagire alla violazione dei propri diritti, ottenendone una tutela integrale (art. 24 Cost.).

Disciplina del principio di soccombenza

Le spese di giudizio sono anticipate dalle parti e poste, in via definitiva, con la sentenza, a carico di quella soccombente. Il profilo anticipatorio emerge altresì in relazione all'anticipazione – meramente eventuale – di spese relative alla progressione dell'attività processuale discendenti in corso di causa da un espresso provvedimento del giudice in favore del consulente tecnico (nominato ex art. 7 d.lgs. n. 546 del 1992): in tal caso, generalmente, essendo ancora incerto l'esito della controversia, le spese di cui si tratta, sono poste provvisoriamente a carico di entrambe (o di tutte) le parti in eguale misura; tuttavia, può anche capitare che il giudice decida di addossarle, sempre provvisoriamente, alla parte istante; ad ogni buon conto la sua decisione è inoppugnabile, per quanto possa essere dal medesimo motivatamente rivista, ed è destinata ad essere assorbita dalla statuizione sulle spese in sentenza.

Tornando al tema principale, l'identificazione della parte soccombente è conseguente alla determinazione degli effetti dell'esercizio del potere decisionale del giudice sulla complessiva res controversa.

Il principio della soccombenza comporta che la parte interamente vittoriosa (ancorché sia stata accolta la domanda dalla stessa formulata solo in via subordinata) non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse.

Non è ammissibile un frazionamento secondo l'esito delle varie fasi del giudizio, poiché la soccombenza, che è concetto globale, va riferita all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del processo la parte poi soccombente abbia conseguito un esito favorevole (Cass. III, n. 4201/2002). L'esito finale favorevole può essere determinato da motivi di merito o anche meramente processuali (Cass. III, n. 10911/2001).

Come efficacemente osservato sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina (Cass. VI, ord., n. 930/2015 con nota di Renzi, 1853), la giustificazione del principio di soccombenza è agevole ove si consideri, da un lato, che colui che risulta vittorioso nel processo deve vedersi riconosciuto il suo diritto integro e non diminuito delle spese di causa e, dall'altro, che colui che rimane soccombente dimostra di avere senza ragione causato una lite, o per avere proposto una domanda infondata o per avere ingiustamente resistito ad una domanda che era fondata. Donde il principio in oggetto non ha natura sanzionatoria, ma neppure risarcitoria, non venendo in rilievo alcun danno necessitante di essere risarcito: esso costituisce invece lo svolgimento ad un tempo del principio di causalità, poiché è chi ha dato causa al processo, in cui l'altra parte è risultata vittoriosa, che deve sopportarne gli oneri, e dei principi dell'inviolabilità del diritto di difesa e del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.), poiché il diritto di colui che risulta vittorioso sarebbe seriamente pregiudicato, e quindi non potrebbe considerarsi effettivo, se, per ottenere la tutela processuale, fosse costretto a definitivamente sostenerne le spese, con ciò subendo un evidente pregiudizio patrimoniale (Cass. VI – 5, ord., n. 25594/2018; Cass. II, n. 189/2017).

La soccombenza va valutata in senso oggettivo, non assumendo rilievo l'elemento psicologico delle parti (che invece viene in linea di conto, come si vedrà, ai fini della responsabilità aggravata per lite temeraria). 

La soccombenza può essere totale, se sono rigettate tutte le domande proposte, o parziale, se sono rigettate soltanto alcune delle domande proposte. In tale ultimo caso, che comporta comunque una valutazione della lite nel suo complesso, il giudice, con valutazione intrinsecamente discrezionale e perciò insindacabile in cassazione, purché fondata su ragioni logiche e non contraddittorie, può compensare in parte le spese di lite: invero il sindacato di legittimità trova ingresso esclusivamente in relazione alla violazione in sé del principio della soccombenza, come criterio fondativo e simmetricamente come limite della statuizione di condanna alla spese e non come criterio di misura della condanna stessa. Detta violazione in sé sussiste nella sola ipotesi in cui il giudice abbia posto le spese a carico della parte risultata integralmente vittoriosa (Cass. III, n. 19880/2011). All'opposto, la parte parzialmente soccombente non può – attraverso la denuncia della violazione del principio della soccombenza – pretendere che la determinazione della quota di spese compensate sia effettuata matematicamente in proporzione del valore delle domande disattese: il momento determinativo della quota di spese compensate impone al giudice una rivisitazione in blocco dell'esito della lite.

Se più sono le parti soccombenti, la condanna alle spese va ripartita, ex art. 97 c.p.c., in relazione all'interesse di ciascuna o, in caso di interesse comune, in via solidale a carico di tutte o di alcune tra esse. Se sussistono rapporti autonomi tra le parti soccombenti, anche nell'ipotesi di litisconsorzio originario o successivo, la liquidazione è fatta con riferimento a ciascuna domanda. In caso di chiamata in causa di un terzo, anche ad esso devono essere rifuse le spese, quantunque non chiamato dal soccombente (Cass. III, n. 7674/2008).

Deve comunque essere precisato che in nessun caso possono essere liquidate spese – in senso sia proprio che allargato – relativamente a prestazioni non effettuate.

Il capo della sentenza che regola le spese, anche se, ovviamente, consegue alla – o comunque tiene motivatamente conto della – decisione della controversia, è strutturalmente ma non anche funzionalmente autonomo rispetto a quelli che afferiscono in rito o nel merito alla decisione della controversia stessa, sì che

– l'impugnazione rispetto ai capi decisori comporta una congruente regolazione delle spese pur in difetto di esplicito gravame sul relativo capo;

– la sentenza tuttavia può essere impugnata anche per la sola statuizione sulle spese (ad es. liquidate in misura inferiore a quella richiesta o comunque dovuta).

Da ultimo, rientra nella giurisdizione tributaria la controversia sulle somme liquidate dalle commissioni tributarie a titolo di spese processuali, poiché, ai sensi dell'art. 2 d.lgs. n. 546 del 1992, soggiacciono a tale giurisdizione tutte le controversie relative ai tributi, di qualsivoglia genere e specie, con ogni accessorio (Cass.S.U., ord., n. 14554/2015).

La compensazione delle spese

Dispone(va) il comma 2 dell'art. 15 d.lgs. 546 del 1992 che «le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate» (sulle spese di giudizio nel processo tributario si veda: Manoni, 2252). Come anticipato, l'art. 1, comma 1, lett. e), n. 1), d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, ha modificato il comma 2 aggiungendo un'ulteriore ipotesi di compensazione delle spese del giudizio – che si aggiunge a quelle, già previste, della soccombenza reciproca e delle gravi ed eccezionali ragioni espressamente motivate – per il caso in cui la parte è risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi prodotti dalla stessa solo nel corso del giudizio.

La compensazione è eccezionale rispetto alla regola della condanna della parte soccombente a rifondere a quella vittoriosa le spese di giudizio. L'eccezionalità è tradita dalla considerazione che il relativo potere è accordato al giudice « soltanto» – i.e., esclusivamente – in due casi circoscritti: quello della soccombenza reciproca e quello della sussistenza di gravi ed eccezionali ragioni.

L'originaria formulazione dell'art. 15 prevedeva la compensazione, regolamentata mediante rinvio all'art. 92 c.p.c., oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche in presenza di «altri giusti motivi».

Come emerge dall'evoluzione normativa, i profili problematici non attengono alla soccombenza reciproca, che in realtà è un caso particolare di soccombenza, di per sé comportante la compensazione quale semplificazione rispetto alla pronuncia di due condanne incrociate destinate, agli effetti pratici, in tutto o in parte ad elidersi.

I profili problematici attengono alla compensazione per così dire atipica, perché non espressamente normata nei presupposti di fatto e dunque rimessa ad una valutazione ampiamente discrezionale del giudice, che, secondo la propria sensibilità, opina per l'apprezzamento di condizioni extra ordinem legittimanti comunque – ossia al di là dell'applicazione del rigido criterio della soccombenza – una compensazione, che può essere anche totale. Sicché è tale compensazione atipica a costituire la vera deroga al principio della soccombenza.

Rispetto ad essa, il punto di partenza di evoluzioni giurisprudenziali e normative pare possa rinvenirsi nell'affermazione della S.C. secondo cui «il potere del giudice di compensare le spese processuali per giusti motivi senza obbligo di specificarli non è in contrasto con il principio dettato dall'art. 24, primo comma, Cost., giacché il provvedimento di compensazione non costituisce ostacolo alla difesa dei propri diritti, non potendosi estendere la garanzia costituzionale dell'effettività della tutela giurisdizionale sino a comprendervi anche la condanna del soccombente. Ne consegue che, nel caso in cui il giudice motivi in ordine alla compensazione, detto provvedimento esula dal sindacato di legittimità, salva la possibilità di censurarne la motivazione basata su ragioni illogiche o contraddittorie» (Cass. I, n. 5405/2004). Tale insegnamento contiene due asserti precisati più recentemente da due distinte pronunce, conformi ad una linea di giurisprudenza esauritasi nella seconda metà del Duemila. Proclama dunque la S.C. anzitutto che il giudice può compensare le spese di giudizio «per giusti motivi senza obbligo di precisarli, atteso che l'esistenza di ragioni che giustifichino la compensazione va posta in relazione e deve essere integrata con la motivazione della sentenza e con tutte le vicende processuali, stante l'inscindibile connessione tra lo svolgimento della causa e la pronuncia sulle spese medesime, non trovando perciò applicazione, in relazione alla compensazione per giusti motivi, il principio sancito dall'art. 111, comma sesto, Cost., secondo cui ogni provvedimento giurisdizionale deve essere motivato» [Cass. III, n. 2397/2008 che aggiunge che «tale interpretazione dell'art. 92 c.p.c. ha avuto l'avallo della Corte costituzionale (v. sentenza della Corte cost. 21 dicembre 2004 n. 395) e trova conferma nella circostanza che solo per effetto del nuovo art. 92, secondo comma, c.p.c. (come sostituito dall'art. 2, della legge n. 263 del 2005) il giudice può compensare le spese tra le parti se vi è soccombenza reciproca o se concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati in motivazione»]. Il portato che ne deriva è che, «in tema di compensazione delle spese processuali ex art. 92 c.p.c., (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore a quello introdotto dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263), poiché il sindacato della S.C. è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite, e ciò sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell'ipotesi di concorso di altre giuste ragioni, che il giudice di merito non ha obbligo di specificare, senza che la relativa statuizione sia censurabile in cassazione, poiché il riferimento a “giusti motivi” di compensazione denota che il giudice ha tenuto conto della fattispecie concreta nel suo complesso, quale evincibile dalle statuizioni relative ai punti della controversia» (Cass. V, n. 20457/2011).

La situazione di incertezza determinata dalle posizioni assunte dalla S.C. ha indotto il legislatore a riformare l'art. 92, comma 2, c.p.c., che, in esito alle modifiche introdotte con la l. n. 263 del 2005, era così formulata: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi esplicitamente indicati nella motivazione...». Con tale innovazione, il legislatore manifestava la volontà di ridurre il ricorso alla compensazione delle spese sorretta da formule di stile, quali «sussistono giusti motivi per» – oppure «appare equo» – «compensare le spese di giudizio», imponendo al giudice di indicare nella motivazione quali fossero i giusti motivi. La duplice finalità perseguita era che non fossero lesi i diritti della parte vittoriosa e che, su larga scala, fosse ridotto il carico del contenzioso spesso determinato da intenti pretestuosi e dilatori.

Un nuovo e più decisivo intervento del legislatore è occorso successivamente, in occasione della riforma del codice di procedura civile, con la l. n. 69 del 2009, intervenuta ancora in un breve torno di tempo sul comma 2 dell'art. 92 c.p.c., così riformulato: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione...». Le ragioni sono espressamente qualificate come «eccezionali»; la loro esplicitazione in motivazione costituisce il fondamento legale della deroga alla regola della soccombenza: talché il difetto di una motivazione sufficientemente dettagliata da spiegare perché detta regola è in concreto disattesa costituisce vizio di violazione di legge, sindacabile in cassazione.

Chiarito ciò quanto al rito civile, parallelamente, nel rito tributario, a decorrere dall'anno 2009, la compensazione delle spese di giudizio era possibile – omogeneamente rispetto al rito civile per effetto del meccanismo osmotico assicurato dal rinvio all'art. 92 c.p.c. – soltanto o in caso di soccombenza reciproca o in caso di ricorrenza di ragioni gravi ed eccezionali da indicare espressamente nella motivazione della sentenza.

Il quadro ha subito però un'ulteriore modifica in entrambi i riti, determinando, infine, un arretramento di quello tributario rispetto a quello civile.

Nel dettaglio, in quello civile, con l'art. 13, comma 1, d.l. n. 132 del 2014, si è previsto che la compensazione delle spese, totale o parziale, può esser disposta «se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti...»: la qual cosa equivale a dire che il presupposto della compensazione atipica risiede nell'affidamento della parte pur soccombente sulla bontà delle proprie tesi al cospetto dell'evolvere della giurisprudenza e, forse riduttivamente, solo di essa.

In quello tributario, l'art. 10, comma 1, lettera b), numero 11), l. n. 23 del 2014, recante un'ampollosa delega al governo per ridisegnare «un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita» e per effettuare pur tuttavia una semplice «revisione del processo tributario», disponeva «l'individuazione di criteri di maggior rigore nell'applicazione del principio della soccombenza ai fini del carico delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del giudice di disporre la compensazione delle spese in casi diversi dalla soccombenza reciproca». In attuazione della delega, il d.lgs. n. 156 del 2015 ha – per vero senza una valida motivazione – cancellato il rinvio al codice di procedura civile, prevedendo (così come la l. n. 69 del 2009) che «le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate». Pertanto, con il d.lgs. n. 156 del 2015, la regolamentazione compensativa delle spese nel rito tributario è diventata autonoma, in quanto sganciata dal codice di procedura civile, con la pretesa di essere per l'intero regolata nel nuovo comma 2 dell'art. 15 in commento.

In sintesi, il d.lgs. n. 156 del 2015 si ferma ad un criterio molto più elastico rispetto a quello introdotto dall'ultimo rimaneggiamento del rito civile, senza possibilità di formale recupero per l'inopinata soppressione del rinvio all'art. 92 c.p.c. L'interpretazione non sistematica ma ad essere precisi extra-sistemica può tentare un appaiamento in extremis, fermo tuttavia che ben possono ricorrere ragioni gravi ed eccezionali non legate ad un'inattesa risposta della giurisprudenza alla domanda di giustizia della parte soccombente.

La compensazione per soccombenza reciproca

Quanto alla compensazione delle spese di giudizio per l'ipotesi di soccombenza reciproca, va innanzitutto rilevato che nel rito tributario parlare di reciprocità è erroneo e comunque riduttivo, perché il giudizio ha natura impugnatoria e si apre con la critica alla ritualità o alla giustezza dell'atto pretesamente viziato, con la conseguenza che l'unico caso di soccombenza non reciproca ma parziale in primo grado è costituito dall'accoglimento per l'appunto solo parziale del ricorso del contribuente, cui d'altronde compete l'onere di introdurre il giudizio e quindi di sobbarcarsi l'onere dell'anticipata valutazione in ordine al buon fine, in rito e nel merito, della propria iniziativa. È solo in sede di impugnazione che le cose cambiano, potendosi configurare un'ipotesi – oltreché di soccombenza parzialetout court – di soccombenza parziale in quanto reciproca (per es. per l'accoglimento solo parziale sia dell'appello principale che dell'appello incidentale).

La mancata menzione della soccombenza parziale – grave, perché dimostra l'ignoranza legislativa in ordine ai meccanismi del rito tributario – può essere tuttavia sopperita dalla completezza della visione giurisprudenziale, la quale si prende la briga di insegnare che la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali, «sottende ... una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo tra le stesse parti, ovvero anche l'accoglimento parziale dell'unica do manda proposta, allorché [però] essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell'accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo» (Cass. III, ord., n. 22381/2009; più recentemente, Cass. III, n. 19520/2015).

In relazione, poi, alla liquidazione delle spese, essa muove com'è ovvio dalla percentuale della soccombenza, senza tuttavia che ne consegua l'automatismo di una proiezione matematica sul quantum delle spese, la cui determinazione è invece rimessa ad una prudente valutazione del giudice risolventesi in una bilanciata ponderazione delle posizioni delle parti con riferimento all'esito complessivo della lite che, se coerente ed esaurientemente logicamente motivata, sfugge a censure di legittimità.

Quale unico limite, al potere del giudice di disporre la compensazione delle spese processuali per soccombenza reciproca, vi è quello di non poter porne, in tutto o in parte, il carico in capo alla parte interamente vittoriosa, poiché ciò si tradurrebbe in un'indebita riduzione delle ragioni sostanziali della stessa, ritenute fondate nel merito (Cass. V, n. 20487/2019).

La compensazione atipica

Per quanto concerne la sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni, da espressamente motivarsi, legittimanti la compensazione, va innanzitutto rilevato che esse non possono farsi derivare dalla struttura del contenzioso applicato né dalle disposizioni che lo disciplinano, ma devono avere radicamento in specifiche circostanze o aspetti della singola controversia. Non potrebbe essere diversamente, dal momento che il rito detta le regole del gioco, mentre sono le parti, con i loro argomenti, ad agire e resistere. Proprio per tale motivo la norma che consente la compensazione in presenza di gravi ed eccezionali ragioni è «una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con giudizio censurabile in fase di legittimità» ogniqualvolta la motivazione si riveli illogica od erronea (Cass. VI, n. 15989/2020; Cass. V, n. 591/2017).

Le "gravi ed eccezionali ragioni", da indicarsi esplicitamente nella motivazione, che legittimano la compensazione totale o parziale, devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e non possono essere espresse con una formula generica, inidonea a consentire il necessario controllo (Cass. VI, Ord. n. 29211/2020Cass. V-5, n. 8272/2020); conf.  Cass. n. 20487/2019 e Cass. n. 2206/2019 ). L'alea del processo, infatti, grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa, ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. E' giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite delle quali, invece, debba essere ristorata la parte vittoriosa", con la esclusiva deroga della presenza di "gravi ed eccezionali ragioni".

In forza del D.Lgs. n. 546/1992, art. 15, comma 2, come modificato dal D.Lgs. n. 156/2015, art. 9, comma 1, applicabile a decorrere dal primo gennaio 2016, le spese di giudizio possono essere compensate in presenza di "gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate. Pertanto, in caso di soccombenza totale, non è corretta la compensazione delle spese processuali del giudice tributario (nella fattispecie con sentenza successiva al 2016) su presupposti inintelligibili, che abbia omesso di dovere motivare la compensazione ed errando nel ritenere non applicabile la disciplina appena ricordata (Cass. VI – 5, ord., n. 7489/2020).

Certamente rientrano nelle gravi ed eccezionali ragioni le ipotesi dell'assoluta novità della questione trattata o del mutamento di giurisprudenza non rispetto a questioni qualsiasi, ma rispetto a quelle dirimenti, ossia a quelle decisive per le sorti della lite: trattasi dei casi contemplati dall'attuale comma 2 dell'art. 92 c.p.c., che rientra nel rito tributario in guisa del meno contenuto nel più. Peraltro, rispetto al mutamento di giurisprudenza, è comunque necessario che siano indicate con precisione le sentenze di legittimità dalle quali risulti il revirement: ciò che restringe ulteriormente le maglie della compensazione, perché è infrequente che le sentenze in specie di legittimità contraddicano i precedenti.

Sul altro piano, si è escluso che l'omessa presentazione dell'istanza di autotutela da parte del contribuente possa giustificare la compensazione delle spese, poiché «l'opportunità di risolvere in via di autotutela le controversie, al fine di evitare il proliferare di contenziosi e di lucrare sulle spese processuali», se fatta assurgere ad un autentico onere peraltro esistente prima ed indipendentemente dal processo, si risolverebbe in «una non consentita limitazione del diritto del cittadino di ricorrere in giudizio, con conseguente violazione dell'art. 24 della Costituzione» (Cass. VI, ord. n. 11222/2016).

Quanto invece all'ipotesi di annullamento in autotutela dell'atto da parte dell'A.F. nel corso del giudizio, la questione è assai più complessa: più precisamente, «premesso che, nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell'atto in sede di autotutela non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione, nel caso in cui non sia prontamente verificabile la manifesta illegittimità o meno dell'atto impositivo fin dal momento della sua emanazione, deve essere cassata la sentenza con che ha disposto la compensazione delle spese di lite con rinvio alla medesima Ctr in diversa composizione, affinché verifichi se l'annullamento dell'ufficio consegua ad una manifesta illegittimità dell'atto impositivo fin dal momento della sua emanazione, nel qual caso, s'impone senz'altro la liquidazione delle spese a favore della parte contribuente, ovvero vi era un'obiettiva complessità della materia, per la quale l'atteggiamento dell'ufficio può essere considerato conforme al principio di lealtà, ai sensi dell'art. 88 c.p.c., e può essere premiato con la compensazione delle spese» (Cass. V, n. 7273/2016). Tuttavia, pur in presenza di un'oggettiva complessità della materia, un annullamento che consegua ad una esposizione in sede processuale di tesi diverse da quelle sostenute in sede procedimentale giammai sembra giustificare il premio della compensazione delle spese. Più in generale, deve essere valutato il comportamento complessivo dell'A.F., sia durante il processo che nella precedente fase amministrativa, così escludendosi la possibilità di compensazione qualora l'A.F. abbia ritardato l'autotutela per inerzia o superficialità rispetto alle osservazioni proposte dal contribuente, ovvero abbia comunicato l'annullamento a questi solo dopo averlo costretto ad impugnare. Parimenti esula la compensazione nel caso di omessa costituzione dell'A.F.

La nuova ipotesi di compensazione

Come già accennato nel par. 3, con il d.lgs. n. 220/2023, che ha modificato il comma 2 dell'art. in commento,  si prevede la compensazione delle spese del giudizio, oltre che nel caso di soccombenza reciproca e di gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate, anche quando la parte è risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi che la stessa ha prodotto solo nel corso del giudizio. La previsione in questione propone pertanto una riscrittura dell'istituto delle spese processuali, sia nel caso di soccombenza che nel caso di compensazione, con lo scopo di incentivare le parti ad anticipare alla fase precontenziosa la produzione dei documenti utili alla difesa della propria posizione nell'ottica di leale collaborazione e di rispettare le nuove previsioni in tema di contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio.

Se la ratio della norma è quella che, se la controparte avesse ricevuto i documenti controversi (es. prova notifica accertamento) nella fase precontenziosa non avrebbe instaurato il contenzioso, tale norma potrebbe essere interpretata nel senso che l'Ufficio dovrà condividere con la controparte già in sede di reclamo i documenti che poi saranno esibiti in giudizio, senza che la stessa parte ricorrente abbia di fatto richiesto espressamente l'accesso agli atti.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c.

Con sentenza del Corte cost. n. 77/2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 92 comma 2 c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, oltreché in ipotesi di «assoluta novità della questione trattata» o «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti», anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.

La pronuncia della Corte costituzionale in commento trae origine da due rinvii operati dai Tribunali di Torino e Reggio Emilia che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2°, c.p.c. (nel testo modificato dall'art. 13, comma 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132 - Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile -, convertito, con modificazioni, nella l. 10 novembre 2014, n. 162), in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost. Entrambi i remittenti censurano la mancata previsione, in caso di soccombenza totale, della facoltà di compensare le spese giudiziali anche in ipotesi diverse dalla «assoluta novità della questione trattata» ovvero dal «mutamento della giurisprudenza nelle questioni dirimenti», costituenti il numerus clausus di ipotesi per le quali la novella consenta la compensazione (DI GRAZIA, 257).

Per la Consulta contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo e del diritto alla tutela giurisdizionale perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.

La responsabilità aggravata ex comma 2-bis dell'art. 15 in commento

Poiché lo strumento del processo può prestarsi anche ad abusi, è con favore che deve essere letta l'estensione anche al rito tributario, giusta il comma 2-bis dell'art. 15 in commento, della c.d. responsabilità processuale aggravata: etichetta sotto la quale, per vero, ricorrono figure composite di responsabilità processuale.

Nel dettaglio, prevede il comma 2-bis che «si applicano le disposizioni di cui all'articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile».

È il comma 1 dell'art. 96 c.p.c. a contenere l'enunciazione del nucleo storico della responsabilità processuale aggravata, statuendo che, «se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza».

Il presupposto della malafede o colpa grave tratteggia con sufficiente precisione la fattispecie di un vero e proprio abuso del processo quale causa di un danno risarcibile. Tale schema attrae la forma di responsabilità che ne occupa nell'alveo della responsabilità aquiliana, ancorché si debba tener conto della peculiarità per cui il processo, in quanto strumento, è di per sé neutro, mentre sono le argomentazioni spese in seno ad esso a far risaltare quella violazione dei doveri di correttezza e buona fede costituente di per sé – a prescindere segnatamente dalla lesione dei diritti in contesa – fatto generatore del danno. Il quadro peraltro è composito, dovendosi aggiungere un ulteriore tassello: invero il travalicamento del legittimo esercizio del diritto di difesa sotto il profilo del dovere, anzitutto del difensore, di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ossia, in definitiva, secondo l'etica professionale integra fattispecie a sfondo sanzionatorio autonomamente normate dagli artt. 88 ed 89 c.p.c., che – sicuramente applicabili anche in ambito tributario per la loro valenza trasversalmente «moralizzante» – dispiegano conseguenza sia sul piano delle spese (dacché possono sfociare in una condanna alle spese anche non ripetibili indipendentemente dalla soccombenza) sia però anche sul piano istruttorio (dacché possono costituire argomento di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c.) (Russo, 2150).

Invece il comma 3 dell'art. 96 c.p.c. – a termini del quale, «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – ad una logica parzialmente diversa. La base concettuale è sempre quella del comma 1, con riferimento al profilo della violazione dei doveri di correttezza e buona fede, la quale tuttavia non rileva in quanto scaturigine di un danno, ma di per se stessa, alla stregua di una condotta non iure. A fronte di ciò si spiega la condanna della parte soccombente, non già al risarcimento di un danno che può non essersi prodotto, ma semplicemente ad una somma determinata in via equitativa, all'evidenza sul presupposto della gravità dell'abuso. Talché la condanna del comma 3, pur potendo eventualmente accedere a quella del comma 1, non ostandovi alcuna previsione contraria, ha natura diversa: non risarcitoria o lato sensu ripartivo-ristoratrice di un nocumento anche non economico ma suscettibile di un apprezzamento economico, bensì afflittiva o autenticamente punitiva; l'aspetto curioso del meccanismo sanzionatorio che ne deriva consiste in ciò che l'incameramento della somma oggetto della condanna è prescritto a favore, non dello Stato, bensì della parte vittoriosa, a mo' di compenso per il disturbo costretta a sopportare. Non sfuggirà che, potendo la condanna sanzionatoria colpire soltanto la parte soccombente, legittimata a chiederla è di converso soltanto la parte vittoriosa, rectius, integralmente vittoriosa: donde una quota di condotte pur meritevoli di sanzione perpetrate da una parte non integralmente soccombente va esente sia da rilievi che da conseguenze.

Ad ogni modo, la soccombenza non è esclusa dalla circostanza che la parte che ha dato causa al giudizio rimanga contumace o riconosca come fondata l'avversa pretesa, costituendo un tale comportamento «espressione di mera indifferenza rispetto alle ragioni di economia che dovrebbero indurre le parti (specie quelle pubbliche) all'adozione di ogni cautela utile» per sgravare il sistema di superflui «dispendi di energia processuale» (Cass. VI, ord., n. 373/2015).

Le due ipotesi dei commi 1 e 3 dell'art. 96 c.p.c., pur se diverse tra loro, hanno in comune la ratio che è quella di prevenire, scoraggiandole, le liti temerarie, ovvero le azioni meramente dilatorie o pretestuose che integrano il c.d. abuso del processo. Pertanto, per la loro ricorrenza, non è sufficiente la mera infondatezza della pretesa, essendo invece necessaria la palese infondatezza della stessa, ovvero la totale insostenibilità in punto di fatto oppure la palese illegittimità in punto di diritto degli argomenti dedotti a sostegno, insostenibilità od illegittimità sorrette da idoneo elemento psicologico (mala fede o colpa grave).

Dette ipotesi, introdotte nel processo tributario ad opera del d.lgs. n. 156 del 2015, erano nondimeno già oggetto di approdi giurisprudenziali che propugnavano l'applicabilità indiretta dell'art. 96 c.p.c. nel rito tributario, sostenendo, ad es., che «il giudice tributario è competente a sindacare la responsabilità discendente dal comportamento gravemente negligente ed imprudente dell'amministrazione finanziaria e dell'agente di riscossione, valutabile in sede processuale ex art. 96 c.p.c. Tale norma è, invero, applicabile al processo tributario in virtù del generale rinvio di cui all'art. 1, comma secondo, d.lgs. n. 546 del 1992» (Cass.S.U., ord., n. 13899/2013). Tenuta presente la perdurante operatività del rinvio da ultimo cennato, pare possa essere supplita interpretativamente la criticabile dimenticanza del richiamo, da parte del comma 2-bis dell'art. 15 in commento, altresì del comma 2 dell'art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità processuale aggravata per azioni esecutivo-cautelari ed esecutive in senso stretto: la dimenticanza nasconde il tentativo di adagiare un velo a protezione delle parti pubbliche, le uniche nel rito tributario a possedere titoli eseguibili; tuttavia il tentativo è disvelato alla luce della circostanza che anche in tale rito il giudice ben può accertare l'inesistenza del diritto siffattamente azionato, senza che nulla osti alla condanna di parti pur pubbliche in conseguenza di aggressioni patrimoniali quantomeno avventate.

La prima ipotesi di responsabilità per lite temeraria

La responsabilità prevista dal comma 1 dell'art. 96 c.p.c. individua una vera e propria forma speciale di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., che presuppone una precisa domanda della parte vittoriosa volta a dedurre a malafede ovvero la colpa grave della parte soccombente nell'esercizio del diritto di difesa nel processo (indifferentemente sotto il profilo attivo o passivo). La mala fede si risolve nella coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, mentre la colpa grave nell'aver dismesso quella diligenza normalmente esigibile per acquisire la coscienza di detta infondatezza, in guisa da risaltare il difetto di un minimo vaglio critico, con metodo scientifico, del diritto applicabile alla fattispecie (Cass. VI, ord., n. 3376/2016. Sul punto si veda: Stasi, 1026; Bracchetti, 594).

Non è invece necessaria una specifica prova dell'entità dei danni subiti poiché il giudice è abilitato a provvedere alla liquidazione dei danni anche officiosamente. Il giudice, infatti, può liquidare in via equitativa il danno, non solo materiale (art. 2043 c.c.), ma anche esistenziale (art. 2059 c.c.), tenendo conto della condizione peggiorativa derivante alla parte vittoriosa dalla mera pendenza del processo. Al proposito addirittura si insegna che, «una volta accertata la ricorrenza della responsabilità aggravata[,] non è necessario che l'interessato deduca e dimostri uno specifico danno, potendo desumersi detto danno da nozioni di comune esperienza» (Cass. II, n. 10731/2001). Nondimeno la correlazione necessaria tra risarcimento e danno esclude che il giudice possa allargare le maglie dello strumento della condanna risarcitoria sino al punto di raggiungere la vetta di una dimensione punitiva del risarcimento, perché ciò determinerebbe un inammissibile sganciamento del risarcimento stesso dal danno.

La seconda ipotesi di responsabilità per lite temeraria

L'ipotesi di lite temeraria delineata dal comma 3 dell'art. 96 c.p.c. si atteggia, invece, come sanzione preordinata a colpire chi ha abusato del processo, tanto evincendosi dall'irrilevanza di una domanda della parte vittoriosa e dalla possibilità del giudice di provvedere «in ogni caso» alla liquidazione, non di un danno neppure dedotto, bensì di «una somma equitativamente determinata».

Quanto all'elemento psicologico, si ritiene necessario anche per detta ipotesi il requisito della mala fede o della colpa grave, che si attaglia a maggior ragione a fattispecie caratterizzate dalla reazione ordinamentale a condotte non iure. Al contrario è insufficiente la colpa lieve, ovvero la mera negligenza o imprudenza, non già perché essa non costituisca idoneo sostrato psicologico di una figura a base sanzionatoria, ma perché l'agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela, nondimeno solo ex post, infondata non è condotta di per sé rimproverabile a fronte della natura oggettiva che di per sé permea la soccombenza e dell'impossibilità di ritenere nella specie un abuso emergente ex ante del processo (Cass. VI, n. 3003/2014).

La Corte cost. n. 152/2016 ha rigettato la q.l.c. sollevata dal Tribunale di Firenze per essere la somma oggetto di sanzione destinata alla controparte invece che allo Stato: «La motivazione, che ha indotto il Legislatore, nell'art. 96 comma III c.p.c., a porre “a favore della controparte” l'introdotta previsione di condanna della parte soccombente al “pagamento della somma” in questione è ricollegabile all'obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico. Non è dunque fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata la riguardo». Il ragionamento della Consulta, che apre allo sconforto nel prendere atto di un'incapacità strutturale dello Stato ad approntare finanche un sistema esecutivo capace di fargli incamerare somme invece benevolmente devolute, senza titolo, a chi ha avuto la (s)ventura di scontrarsi con un soggetto sanzionabile, francamente perplime nel demandare alla solerzia, oltreché alle tasche, del beneficiato l'effettività di retorici proclami sulla lealtà processuale.

La palese insostenibilità della pretesa dell'amministrazione finanziaria

È stato affermato che la totale insostenibilità della pretesa contenuta nell'atto impositivo ed ulteriormente sostenuta in giudizio induce a ritenere, ex art 2727 c.c., che l'amministrazione finanziaria abbia agito con mala fede o colpa grave, sussistente ogniqualvolta si agisca o resista in giudizio «con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione; e comunque senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione, con criterio e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure con riferimento alla singola fattispecie concreta» (Cass. VI, n. 2584/2016). L'affermazione di cui si tratta, ben lungi dall'essere estemporanea, assurge a principio di recente definitivamente consolidatosi (cfr. ex multis, Cass. VI, n. 3376/2016; Cass. V, n. 15030/2015; Cass. III, n. 4930/2015; Cass. III, n. 817/2015).

Il riferimento all'insostenibilità della pretesa contenuta nell'atto impositivo giustifica un effetto estensivo retrospettico della responsabilità processuale aggravata, ai sensi di entrambi i commi 1 e 3 dell'art. 96 c.p.c., sino a comprendere la «fase amministrativa che, qualora ricorrano i predetti requisiti (mala fede o colpa grave) ha [di per sé] dato luogo alla esigenza di instaurare un processo ingiusto» (Cass.S.U., ord., n. 13899/2013).

Il rifiuto dell'annullamento in autotutela

A mo' di svolgimento delle precedenti considerazioni, deve ritenersi che la prova della responsabilità processuale aggravata, con specifico riguardo all'elemento psicologico, risieda in re ipsa nel mancato annullamento in autotutela – nonostante espressa istanza in tal senso, cui la P.A. ha contrapposto il silenzio o addirittura il rifiuto – di un atto poi giudicato palesemente illegittimo.

L'illegittimità degli atti – che, nella logica dei grandi numeri, costituisce vicenda normale dell'agire delle PP.AA. – deve aver raggiunto dimensioni statisticamente non più tollerabili se è vero che l'art. 2-quater d.l. n. 564 del 1994 ha avvertito l'urgenza di individuare, con decreti del MEF, specifici organi dell'amministrazione finanziaria competenti per l'esercizio dei poteri di annullamento o di revoca degli atti illegittimi o infondati sulla base di «criteri di economicità» demandati ai decreti stessi. Il d.m. n. 37 del 1997 effettivamente ha definito detti criteri, tra l'altro ragionevolmente indicando «la giurisprudenza consolidata nella materia, il criterio di probabilità di soccombenza e della conseguente condanna dell'amministrazione finanziaria di rimborso delle spese di giudizio [nonché] l'esiguità delle pretese tributarie in rapporto ai costi amministrativi connessi alla difesa delle pretese stesse».

La Circ. Min. Fin n. 198 del 1998 suona assai più cauta, rilevando che «è indubbio che l'ufficio stesso non possiede un potere discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o meno i propri errori. Infatti da un lato il mancato esercizio dell'autotutela nei confronti di un atto patentemente illegittimo, nei casi in cui sia ancora aperto o esperibile il giudizio, può portare alla condanna alle spese dell'amministrazione con conseguente danno erariale (la cui responsabilità potrebbe essere fatta ricadere sul dirigente e responsabile del mancato annullamento dell'atto); dall'altro (...) è evidente che l'esercizio corretto e tempestivo viene considerato dall'amministrazione non certo come una specie di optional che si può attivare o non attivare a propria discrezione, ma come una componente del corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e quindi come un elemento di valutazione della loro attività dal punto di vista disciplinare e professionale». Nondimeno, tre anni dopo, la Circ. Min. Fin. n. 22/E del 2011 sembra classicamente far battere la lingua proprio là dove il dente duole, sia laddove stabilisce che prima delle controdeduzioni in primo grado – e quindi comunque tardivamente, atteso che il processo è già iniziato – venga valutato il grado o rating di sostenibilità della controversia, al fine di verificare l'eventuale esistenza dei presupposti per l'autotutela o per la conciliazione giudiziale, totale o parziale, sia laddove esplicita che «va esercitata l'autotutela tutte le volte che ne ricorrono i presupposti, escludendo di resistere indebitamente in giudizio». La Dir. Ag. En. n. 48 del 2012 rammenta poi ai funzionari delle sedi dipendenti l'ovvio, ossia che il tempestivo intervento finalizzato alla rimozione dell'atto illegittimo, mediante lo strumento dell'autotutela, consente di limitare i costi del contenzioso, riduce il rischio di soccombenza e condanna alle spese di lite ed evita, conseguentemente, la responsabilità diretta del titolare del procedimento. Conclude la panoramica la nota Ag. Entrate n. 2151 del 2012, spintasi a proclamare che l'autotutela non corrisponde ad una mera facoltà residuale del funzionario, ma ad un dovere della P.A. e più latamente ad un metodo di attuazione dei principi di civiltà giuridica nell'ordinamento tributario.

In forza di tali principi, in effetti, la S.C. non è nuova nel riconoscere la risarcibilità «del danno sopportato da un soggetto per ottenere l'annullamento di un provvedimento amministrativo in sede di autotutela (danno consistente nelle spese legali sostenute per proporre ricorso contro l'atto illegittimo), non essendo esclusa la qualificazione di tali spese come danno risarcibile, per il solo fatto che si riferiscono ad un procedimento amministrativo [...;] il danno di cui si chiede il risarcimento in realtà deriva dal compimento dell'atto illegittimo [...] essendo l'intervento in autotutela solo il mezzo che avrebbe potuto eliminarne tempestivamente gli effetti.

Ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto da costringere il privato ad affrontare spese legali e di altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile»  (Cass. III, n. 698 del 2010, con nota di Accordino, 633). Più in generale, «l'attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem ledere, codificato dall'art. 2043 c.c. è [...]. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, di cui all'art. 97 Cost., la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall'art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale» (Cass. III, n. 5120/2011).

È opportuno rammentare che il funzionario dell'A.F. che abbia emesso l'atto impositivo ritenuto palesemente illegittimo non può esimersi da responsabilità patrimoniale (verso l'erario ed anche verso il contribuente) e disciplinare deducendo di avere ottemperato ad un ordine del superiore gerarchico, anche se contenuto in una disposizione avente carattere generale (direttiva o risoluzione), se la disposizione stessa è palesemente illegittima, a meno che non provi di avere ottemperato al c.d. dovere di rimostranza. Dispone infatti l'art. 17 d.P.R. n. 3 del 1957 che l'impiegato al quale venga impartito un ordine ritenuto palesemente illegittimo ha l'obbligo – in deroga al dovere di «eseguire gli ordini che gli siano impartiti relativamente alle proprie funzioni o mansioni» impostogli dall'art. 16, comma 1 – di farne rimostranza al proprio superiore, dichiarandone le ragioni: solo «se l'ordine è rinnovato per iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione», a meno che «l'atto sia vietato dalla legge penale». Pertanto l'omesso esercizio della rimostranza, comportando l'inapplicabilità dell'esimente di cui all'art. 18, comma 2, configura una colpa del funzionario, di per sé rilevante ai fini della sua stessa responsabilità patrimoniale (artt. 18 e 22). Può concludersi con una formula riassuntiva tratta dalla giurisprudenza amministrativa, a termini della quale «non sussiste dunque un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il c.d. dovere di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l'illegittimità dell'ordine ricevuto. Qualora ricorra un'evenienza del genere, il pubblico impiegato ha tuttavia l'obbligo di fare una immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l'ordine e, se quest'ultimo è ribadito per iscritto, allora il dipendente non può esimersi dall'eseguirlo, a meno che l'esecuzione configuri un'ipotesi di reato» (Cons. St. V, n. 6208/2008).

Responsabilità aggravata e le novità introdotte dalla riforma del processo civile

L'art. 3, comma 6, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, recante “Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata” (c.d. Riforma Cartabia), ha modificato l'art. 96 c.p.c.

Tra gli obiettivi della riforma della Giustizia vi è anche la riduzione del 40% dei tempi dei processi. Per raggiungere questo risultato si punta al rafforzamento degli strumenti alternativi al processo e a modificare il codice di procedura civile. Alcune novità riguardano anche la responsabilità aggravata legata alle liti temerarie.

Nel dettaglio, all'art. 96 c.p.c. è stato aggiunto un quarto comma per dare attuazione all'art. 1 comma 21, lettera a), della legge delega: esso contiene la previsione che nei casi di responsabilità aggravata, come disciplinati dal primo, secondo e terzo comma di tale disposizione, sia possibile comminare alla parte soccombente la sanzione pecuniaria, determinata in una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000, da versarsi a favore della cassa delle ammende, a compensazione del danno arrecato all'Amministrazione della giustizia per l'inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo.

La riforma del codice di procedura civile mira, dunque, a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e di soggetti terzi e stabilisce che l'Amministrazione della Giustizia venga riconosciuta come soggetto danneggiato nei casi in cui alla parte soccombente sia riconosciuta la responsabilità aggravata. In tali eventualità, la parte soccombente verrà sanzionata a favore della Cassa delle ammende.

A norma dell'art. 35, comma 1, del citato D.Lgs. n. 149/2022 le disposizioni dello stesso D.Lgs. n. 149/2022 hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.

La liquidazione delle spese del giudizio

I commi 1, 2-ter, 2-quinquies, 2-sexies, 2-septies e 2-octies dell'art. 15 in commento contengono disposizioni sulla liquidazione delle spese del giudizio.

Ai sensi del comma 1, le spese del giudizio «sono liquidate con la sentenza», mentre, ai sensi del comma 2-quater, le spese della fase cautelare sono liquidate con l'ordinanza che decide sulla relativa istanza.

La differenza non è di poco conto, poiché mentre le spese relative alla fase cautelare possono essere modificate con la sentenza e non sono provvisoriamente riscuotibili, per quelle liquidate con la sentenza, l'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, non ponendo alcuna differenza tra le somme da corrispondere per effetto della condanna e le spese del giudizio, ne prevede la immediata riscuotibilità se – ed inopinatamente solo se – liquidate in favore del contribuente.

Il giudice ha il dovere di provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio anche in assenza di una domanda della parte vittoriosa poiché trattasi di pronuncia accessoria e consequenziale a quella che decide sulla soccombenza, definendo il grado del processo.

L'indicazione delle voci che compongono tali spese è contenuta nel comma 2-ter, secondo cui esse comprendono il contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre al contributo previdenziale e all'imposta sul valore aggiunto, se dovuti.

La liquidazione del contributo unificato

Fino al 2011, nel processo davanti alle Commissioni non si applicava il contributo unificato di iscrizione a ruolo. Gli atti delle parti private restavano così soggette all'imposta di bollo ex art. 260 d.P.R. n. 115 del 2002 (Cissello, 2011, 36 — parte 1, 5866). Per i ricorsi notificati dal 7 luglio 2011, il contributo unificato è stato esteso anche al processo tributario per effetto delle modifiche del d.l. n. 98 del 2011 (Cissello, 2011, 32, 5248). Il contributo unificato è anticipato dal contribuente o dalla parte che impugna la sentenza; all'esito del giudizio, in caso di compensazione delle spese, il giudice deve indicare la parte a carico della quale esso è posto: si tratterà di quella preponderantemente soccombente o, se vi è compensazione equivalente, di entrambe le parti in misura paritaria.

Il contributo unificato, indipendentemente dal nomen iuris, ha natura tributaria, come si desume «a) dalla circostanza che esso è stato istituito in forza di legge a fini di semplificazione e in sostituzione di tributi erariali gravanti anch'essi su procedimenti giurisdizionali, quali l'imposta di bollo e la tassa di iscrizione a ruolo, oltre che dei diritti di cancelleria e di chiamata di causa dell'ufficiale giudiziario (art. 9, commi 1 e 2, della Legge n. 488 del 1999); b) dalla conseguente applicazione al contributo unificato delle stesse esenzioni previste dalla precedente legislazione per i tributi sostituiti e per l'imposta di registro sui medesimi procedimenti giurisdizionali (comma 8 dello stesso art. 9); c) dalla sua espressa configurazione quale prelievo coattivo volto al finanziamento delle “spese degli atti giudiziari” (rubrica del citato art. 9); d) dal fatto, infine, che esso, ancorché connesso alla fruizione del servizio giudiziario, è commisurato forfetariamente al valore dei processi (comma 2 dell'art. 9 e tabella 1 allegata alla Legge) e non al costo del servizio reso od al valore della prestazione erogata. Il contributo ha, pertanto, le caratteristiche essenziali del tributo e cioè la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa, quale è quella per il servizio giudiziario (analogamente si sono espresse, quanto alle caratteristiche dei tributi, le sentenze n. 26 del 1982, n. 63 del 1990, n. 2 del 1995, n. 11 del 1995 e n. 37 del 1997), con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante» (Corte cost., n. 73/2005, in Il fisco, 2005, 1806).

Quanto al valore della causa, che costituisce il parametro in base al quale, come nel rito civile, determinare l'entità del contributo unificato, l'art. 1, comma 598, lettera a), l. n. 147 del 2013 dispone espressamente che esso va quantificato in base all'art. 12, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, ovvero in base all'«importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l'atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente all'irrogazione di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste».

Disciplina del contributo unificato tributario

La misura del contributo unificato tributario (c.d. CUT) è però diversa da quella del contributo unificato ordinario ed è stabilita, secondo vari scaglioni, rapportati al valore della causa come sopra determinato, dall'art. 13, comma 6-quater, d.P.R. n. 115 del 2002 (sul CUT si veda: Perrucci, 2014, 9, 677; Santacroce-Mastromatteo, 2, 61). Potrebbe revocarsi in dubbio che nel rito tributario trovi applicazione il comma 1-bis dell'art. 13 – a termini del quale, non il contributo tout court, ma soltanto «il contributo di cui al comma 1 è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di Cassazione» – giacché l'espresso riferimento al comma 1, e non anche al comma 6-quater, fonderebbe un trattamento differenziato del rito tributario: tuttavia detto trattamento differenziato sarebbe ingiustificato per l'evidente disparità di trattamento quantomeno in relazione all'introduzione del giudizio di cassazione, con riferimento al quale la cognizione della S.C. è unica per entrambe le giurisdizioni tributaria ed ordinaria. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso»; il comma 2-bis, secondo cui «fuori dei casi previsti dall'articolo 10, comma 6-bis, per i processi dinanzi alla Corte di cassazione, oltre al contributo unificato, è dovuto un importo pari all'imposta fissa di registrazione dei provvedimenti giudiziari»; il comma 3-bis, secondo cui, «ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ai sensi dell'articolo 125, primo comma, del codice di procedura civile e il proprio indirizzo di posta elettronica certificata ai sensi dell'articolo 16, comma 1-bis, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nell'atto introduttivo del giudizio o, per il processo tributario, nel ricorso il contributo unificato è aumentato della metà»; il comma 6, secondo cui, «se manca la dichiarazione di cui all'articolo 14, il processo si presume del valore indicato al comma 1, lettera g) [, mentre s]e manca la dichiarazione di cui al comma 3-bis dell'articolo 14, il processo si presume del valore indicato al comma 6-quater, lettera f)» [rilevato che l'art. 14 dedica il comma 3-bis ai soli processi tributari, rispetto ai quali stabilisce che «il valore della lite, determinato, per ciascun atto impugnato anche in appello, ai sensi del comma 2 dell'articolo 12 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell'ipotesi di prenotazione a debito», il gioco ad incastro di disposizioni incomprensibilmente frazionate, che un legislatore organico avrebbe evitato, porta ad affermare che, nel rito tributario, le parti hanno l'obbligo di dichiarare nelle conclusioni – in modo che sia chiaramente ed immediatamente verificabile – il valore della lite: se non dichiarano nulla, il contributo è sanzionatoriamente quello dell'ultimo scaglione, relativo alle liti di valore superiore a duecentomila euro, ed è quindi pari a millecinquecento euro; se invece dichiarano che il valore è indeterminabile, il contributo è stabilito nella misura fissa di centoventi euro ex lettera c) del comma 6-quater].

Il CUT è a carico della parte che per prima si costituisce in giudizio o che deposita l'atto ad esso soggetto ex art. 14, comma 1, d.P.R. cit. Il predetto comma 6-quater dell'art. 13 stabilisce che il CUT è dovuto per i ricorsi principale e incidentale proposti innanzi alle commissioni tributarie.

Nel dettaglio, avuto riguardo ai principi contenuti nello stesso art. 13 e nell'art. 18 e tenuto conto delle puntuali indicazioni della Circ. Ag. En. 21 settembre 2011, n. 1/DF, il CUT è dovuto per i seguenti atti e provvedimenti: a) ricorso e appello principale, di cui agli artt. 18 e 53 d.lgs. n. 546 del 1992; b) appello incidentale, di cui all'art. 54, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992; c) riassunzione della causa a seguito di rinvio da parte della Corte di Cassazione alla commissione tributaria provinciale o regionale, di cui all'art. 63, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992; d) istanza di revocazione, di cui all'art. 64 d.lgs. n. 546 del 1992; e) opposizione di terzo, di cui all'art. 404 c.p.c.; f) ricorso in ottemperanza, di cui all'art. 70 d.lgs. n. 546 del 1992; g) motivi aggiunti, di cui all'art. 24, comma 4, d.lgs. n. 546 del 1992, nei casi in cui configurino la proposizione di un ricorso avverso atti non impugnati con quello introduttivo (infatti costituiscono motivi aggiunti, in senso proprio, solo quelli proposti avverso provvedimenti depositati in corso di causa, mentre non sono tali — ancorché così denominati dalle parti — quelli proposti ad integrazione o chiarimento dei motivi contenuti nel ricorso originario, che, pertanto, sfuggono al CUT). Si ritiene, altresì, che il CUT sia dovuto per i seguenti atti: h) reclamo, con o senza proposta di mediazione, di cui al comma 1 dell'art. 17-bis, al momento del deposito nella segreteria della commissione tributaria; i) riassunzione della causa innanzi alla commissione tributaria provinciale a seguito di decisione da parte della Corte di Cassazione sulla giurisdizione; l) atti di intervento di cui all'articolo 14, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992; m) istanza di iscrizione di ipoteca e sequestro conservativo di cui all'art. 22 d.lgs. n. 472 del 1997; n) reclamo di cui agli artt. 28 e 45 d.lgs. n. 546 del 1992, rispettivamente, contro i provvedimenti presidenziali e contro il decreto presidenziale. Il CUT, invece, non è dovuto per i seguenti atti e provvedimenti: a) istanza di sospensione, di cui all'art. 47 d.lgs. n. 546 del 1992, anche se proposta con atto separato, sia antecedente che successivo al ricorso principale (detta istanza, invero, non fonda un vero e proprio giudizio cautelare, sebbene introduca una fase incidentale del processo di primo grado, i cui atti, però, non sono assimilabili ad atti processuali autonomi ovvero antecedenti, necessari o funzionali allo svolgimento del processo); b) istanza di sospensione della sentenza appellata limitatamente alle sanzioni ed analoga istanza riferita ad una sentenza ricorsa in cassazione o in revocazione (in detti casi, invero, la sospensione della sentenza è espressione di un potere discrezionale ad insorgenza automatica “proprio”, secondo i due binari procedurali rilevanti, del giudice dell'appello o del giudice che ha emanato la sentenza nei cui confronti è proposto il ricorso per cassazione o per revocazione); c) istanza di correzione di errore materiale (il relativo procedimento, invero, ha carattere solo para-giurisdizionale, non potendo incidere sul contenuto della decisione); d) riassunzione del processo sospeso o interrotto, nei casi degli artt. 39 e 40 (trattasi, invero, di un atto per il quale il pagamento del CUT è stato già assolto al momento del ricorso introduttivo); e) riassunzione del ricorso presso la commissione tributaria la cui competenza è indicata ai sensi dell'art. 5 (trattasi, invero, di un atto per il quale il pagamento del CUT è stato già assolto presso la segreteria del giudice incompetente); f) istanza di regolamento preventivo di giurisdizione (la stessa, invero, comporta un mero effetto sospensivo del processo tributario, con la conseguenza che il CUT va corrisposto nell'ambito del giudizio instaurato presso la Corte di cassazione); g) motivi aggiunti, di cui all'art. 24, comma 4, d.lgs. n. 546 del 1992, nel solo caso, però, come già chiarito, di specificazione delle stesse doglianze o di introduzione di ulteriori doglianze avverso gli atti già impugnati con il ricorso principale; h) reclamo, con o senza proposta di mediazione, di cui al comma 1 dell'art. 17-bis d.lgs. n. 546/1992, al momento della presentazione alla direzione provinciale o dell'Agenzia delle Entrate che ha emanato l'atto; i) relazione depositata dal consulente tecnico di parte, di cui all'art. 7, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 (essa, invero, rientra tra gli atti indispensabili alla prosecuzione del processo); l) chiamata in causa del terzo, di cui all'art. 23, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992 (essa, invero, costituisce una mera integrazione del contraddittorio, salvo però che determini una modifica del valore in sé della lite, nel qual caso, a termini segnatamente del primo periodo del comma 3 dell'art. 14 d.lgs. n. 115 del 2002, scatta il presupposto per l'integrazione della dichiarazione di valore e quindi per la corresponsione della differenza rispetto al contributo già versato).

Le novità introdotte dalla riforma del processo tributario e dalla riforma del processo civile

L'articolo 4, comma 3, della Legge 31 agosto 2022 n. 130, recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari” ha introdotto modifiche alla vigente disciplina delle somme correlate con le entrate derivanti dal contributo unificato tributario.

Più nel dettaglio la lett. a) del comma 3 dell'articolo 4, dispone l'abrogazione - a decorrere dal 1 gennaio 2023 - del comma 3-ter dell'articolo 12 del decreto-legge n. 16 del 2012 (conv. legge n. 111 del 2011).

L'abrogando comma 3-ter stabilisce che le somme corrispondenti alle maggiori entrate derivante dal contributo unificato tributario sono iscritte in bilancio per essere destinate, per metà, in favore degli uffici giudiziari che hanno raggiunto gli obiettivi di efficienza (comma 13 dell'articolo 37, del decreto legge n. 98 del 2011) e per la restante metà, con le modalità previste dall'articolo 13, del decreto legislativo n. 545 del 1992 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria) all'incremento della quota variabile del compenso dei giudici tributari.  La lett. b) invece interviene sui commi 12 e 13 dell'articolo 37 del decreto- legge n. 98 del 2011 (conv. legge n. 111 del 2011) abrogandone alcuni periodi. La lett. c), anche al fine di semplificare la procedura di liquidazione dei compensi ai giudici tributari, prevede che a decorrere dal 1° gennaio 2023 gli importi dei compensi fissi di cui all'articolo 13, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545, individuati dal decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 20 giugno 2019 siano aumentati del centotrenta per cento. Conseguentemente, per l'incremento del fondo risorse decentrate destinato al trattamento economico accessorio e del fondo per il finanziamento della retribuzione di risultato da riconoscere, rispettivamente, al personale amministrativo e a quello dirigenziale, in servizio presso le Corti di giustizia tributarie di primo e secondo grado, è autorizzata, a decorrere dall'anno 2023, la spesa complessiva annua di sette milioni di euro, in linea con gli emolumenti corrisposti nell'ultimo triennio (lett. d).

 

Il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, di Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante

delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione

alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata, con l'art. 13 a reca modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, al fine di dare attuazione a quanto previsto nella lettera f) del comma 17 dell'unico articolo della legge delega, la quale mira ad estendere, razionalizzandole e semplificandole, le modalità di versamento del contributo unificato, privilegiando i mezzi di pagamento telematici anche facendo tesoro dei risultati ottenuti con l'applicazione della normativa emergenziale.

Ed invero, nella fase pandemica è stata prevista, con più disposizioni che si sono succedute nel tempo, l'obbligatoria corresponsione di tale onere tramite la piattaforma tecnologica di cui all'articolo 5, comma 2, del codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (comma 3 dell'articolo 221 del decreto-legge 34-2021, sostanzialmente sovrapponibile a quella di cui al comma 11 dell'art. 83 decreto-legge n. 18 del 17 marzo 2020, ma analogo principio era già contenuto nel comma 6 dell'articolo 2 del decreto-legge 8 marzo 2020 n. 11, successivamente abrogato dall'art. 1, comma 2, L. 24 aprile 2020, n. 27).

 

L'adempimento si pone in linea con la completa digitalizzazione del processo civile telematico in tutti i suoi aspetti, compreso quello fiscale. Il successo di tale esperienza ha portato il legislatore a stabilizzare tali modalità, valutando anche il superamento di alcune modalità non telematiche e, pertanto, non attuando quanto previsto al punto 1.3 della lettera f) del comma 17 della legge delega. La piattaforma tecnologica, infatti, che allo stato è stata realizzata tramite il sistema PagoPA, consente per vero più metodi di pagamento (telematici e non), anche tramite contante presso i gestori del servizio, tutti utilizzabili a scelta dall'utenza e che consentano di associare, telematicamente, in modo univoco ciascun versamento ad un solo ed individuato procedimento. Questo sistema, a differenza di quello che avviene tramite la compilazione del modello F23 attraverso il servizio home banking del singolo utente, consente di ridurre drasticamente il rischio di plurimi utilizzi delle stesse marche o valori bollati per l'iscrizione a ruolo di diversi

procedimenti e al contempo sgrava le cancellerie da ogni onere di “abbinamento” dei pagamenti del contributo

unificato ai relativi procedimenti giudiziari. I metodi che rientrano fra quelli di PagoPA sono i seguenti:

pagamento on-line tramite il Portale dei Servizi Telematici (PST), sia nella sezione ad accesso riservato sia

nella sezione pubblica (senza bisogno di eseguire ‘login'); pagamento on-line presso un Punto di Accesso

(PDA); pagamento tramite canali fisici o on-line messi a disposizione dalle banche: sportelli fisici (anche con

contanti), strumenti di home banking per pagoPA, app IO. In questo caso è necessario solo avere a disposizione

il numero univoco di versamento e il QR code corrispondente che vengono generati collegandosi all'area

pubblica del PST/ pagamenti pagoPA e selezionando l'opzione ‘paga dopo'.

Per realizzare le finalità di cui sopra, l'articolo 13 apporta diverse modifiche al decreto del Presidente della

Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.

La principale modifica riguarda l'articolo 192 (lettera e) dell'articolo 13) il cui primo comma viene interamente

sostituito e riscritto in termini simili alle disposizioni della fase emergenziale; più specificatamente si prevede

in modo stabile che il contributo unificato per i procedimenti dinanzi al giudice ordinario e al giudice tributario

sia di regola corrisposto mediante pagamento tramite la piattaforma tecnologica di cui all'articolo 5, comma 2,

del codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.

In attuazione di quanto previsto dal numero 5 della lettera f) del comma 17 dell'unico articolo della legge

delega si è previsto (al nuovo comma 1-bis dell'articolo 192) che il pagamento del contributo unificato non

effettuato tramite la piattaforma tecnologica non libera la parte dagli obblighi su di essa gravanti e la relativa

istanza di rimborso deve essere proposta, a pena di decadenza, entro trenta giorni dal predetto pagamento.

Il nuovo comma 1-ter prevede che per i procedimenti dinnanzi al giudice tributario, le previsioni relative alla

telematizzazione del pagamento del contributo unificato acquistino efficacia sessanta giorni dopo la

pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del provvedimento con cui il direttore della

direzione sistema informativo della fiscalità del Ministero dell'economia e delle finanze attesta la funzionalità

del sistema di pagamento tramite la piattaforma tecnologica di cui all'articolo 5, comma 2, del codice

dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005. Della pubblicazione di tale

provvedimento in Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana è data immediatamente notizia sul sito

istituzionale dell'amministrazione interessata (comma 1-quater).

È stata poi inserita una norma transitoria all'interno dello stesso articolo 192 (comma 1-quinquies) che prevede

che per i procedimenti innanzi al giudice ordinario, le nuove disposizioni acquistino efficacia a decorrere dal

1° gennaio 2023.

Il nuovo comma 1-sexies dell'articolo 192 prevede che se è attestato, con provvedimento pubblicato sul sito

istituzionale del Ministero della giustizia o del Ministero dell'economia e delle finanze, il mancato

funzionamento del sistema di pagamento tramite la piattaforma tecnologica di cui all'articolo 5, comma 2, del

codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005, il contributo unificato vada

corrisposto mediante bonifico bancario o postale, ai sensi del decreto del Ministro dell'economia e delle

finanze 9 ottobre 2006, n. 293; la prova di tale versamento dovrà fornirsi con l'originale della ricevuta,

regolarmente sottoscritta.

Oltre alla conseguente abrogazione dell'articolo 191 (lettera c), comma 1, dell'articolo 13), sono state allineate

a tali previsioni quelle relative ai procedimenti speciali e quindi l'articolo 18-bis, relativo al contributo da

versarsi per la pubblicazione sul portale delle vendite pubbliche, l'articolo 30 che riguarda le anticipazioni

forfettarie versate all'erario dai privati nel processo civile, l'istanza per l'assegnazione o la vendita di beni

pignorati, l'articolo 32 relativo alle anticipazioni da versarsi agli ufficiali giudiziari per il servizio di

notificazione.

Inoltre, per esigenze di coordinamento e semplificazione (comma 22 dell'unico articolo della legge delega) si

è uniformata anche la modalità di pagamento dei diritti di copia, di certificato e le spese per le notificazioni a

richiesta d'ufficio nel processo civile: l'articolo 196, comma 1, è stato modificato prevedendo che anche tali

oneri siano corrisposti tramite la piattaforma tecnologica di cui all'articolo 5, comma 2, del codice

dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (lettera f), comma 1,

dell'articolo 13).

Infine, all'articolo 197 (lettera g), comma 1, dell'articolo 13), relativo al pagamento delle spettanze degli

ufficiali giudiziari relative a notifiche a richiesta di parte nel processo civile, penale amministrativo contabile

e tributario, è stato aggiunto un comma 1 bis il quale prevede che a decorrere dal 1° giugno 2023 anche tali

spettanze debbano essere corrisposte tramite la piattaforma tecnologica di cui all'articolo 5, comma 2, del

codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.

Ambito applicativo dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002

Nei gravami introdotti con appelli notificati dopo il 12 febbraio 2013, per il rigetto in toto della impugnazione principale o incidentale si pone la questione dell'ambito di applicazione al giudizio tributario di merito dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, secondo cui, “quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato (per la direzione MEF che governa il tributo, trattasi di maggiorazione come quella di cui ai successivi commi 3-bis e 6) pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis”; secondo il comma 1-bis, “il contributo di cui al comma 1 è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione”. Tale citato comma 1 quantifica gli importi base del solo processo civile. Sono assoggettate al d.lgs. n. 546/1992 (e, quindi, al relativo Contributo Unificato Tributario: C.U.T., ex art 13, comma 6-quater, d.P.R. n. 115/2002) tutte le controversie aventi ad oggetto tributi e relativi accessori. “Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria” (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 546/1992) e “Al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile ...” (art. 62, comma 2, d.lgs. n. 546/1992); tali ulteriori fasi del giudizio tributario restano esclusivamente civili tanto da non potervi prestare assistenza i soggetti di cui all'art. 12, citato decreto, che non siano avvocati. Ovviamente alla disciplina sostanziale C.U.T. resta del tutto inconferente il rinvio dinamico di cui all'art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, atteso che trattasi di imposizione fiscale che nel processo giudiziario trova solo il proprio presupposto impositivo. Cass. n. 3569/2005, rileva come la formulazione dell'art. 62, comma 2, d.lgs. n. 546/1992 (“Al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto”) sia inversa a quella dell'art 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992 (“I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”).

La Nota di servizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze, direzione della Giustizia tributaria, prot. n. 19148 del 30 dicembre 2014, indirizzata alle segreterie giudiziarie per la corretta applicazione della normativa relativa al contributo unificato, sembrerebbe opinare per l'applicazione del comma 1-quater dell'art. 13 d.P.R. n. 115/2002 (il “moltiplicatore”) al giudizio tributario che respinge in toto l'”impugnativa”, e quindi – implicita conseguenza – anche del richiamato comma 1-bis (il “moltiplicato”, già “moltiplicatore” della misura base), senza esprimere alcuna differenza di applicazione del contributo unificato tra i giudizi tributari d'impugnazione delle sentenze di prime cure ed i ricorsi civili di legittimità (dei quali all'8° capoverso della nota) contro le sentenze tributarie di merito. Tuttavia, re melius perpensa, il Dipartimento delle Finanze così ha risposto ai quesiti posti dal Sole 24 ore su alcune misure contenute nella Legge di stabilità in occasione del convegno Telefisco svoltosi il 28 gennaio 2016:

Risposta 16 — Giustizia Tributaria — Contributo unificato.

Domanda: Per i procedimenti iniziati dal 31 gennaio 2013, quando l'impugnazione — anche incidentale — è respinta integralmente, dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale (l. n. 228/2012 che ha introdotto il comma 1-quater all'articolo 13 del d.P.R. n. 115/2002 in materia di spese di giustizia e versamento del contributo unificato). Poiché la norma è stata inserita al punto 1 e rimanda al comma 1-bis, che a sua volta rinvia al comma 1 dell'articolo 13 relativo ai giudizi civili dinanzi al Tribunale, è applicabile anche ai giudizi di impugnazione dinanzi alle Ctr o se, invece, tale previsione non sia applicabile ai giudizi tributari di merito i quali hanno una disciplina autonoma (successivo comma 6-quater)?

Risposta: L'articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dispone che “quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.” Alla luce del dettato normativo, si ritiene che le disposizioni contenute nel comma 1-quater in esame non si applichino al processo tributario. Infatti, dal tenore letterale della norma si evince che il versamento dell'ulteriore contributo unificato è commisurato agli importi dovuti ai sensi del comma 1-bis dell'art. 13 del d.P.R. n. 115/2002, disposizione che a sua volta rinvia al contenuto del precedente comma 1, che fa riferimento esclusivamente a quanto dovuto a titolo di contributo unificato nel processo civile. Si ricorda, infatti, che le disposizioni che regolano gli importi dovuti a titolo di contributo unificato nel processo tributario sono quelle di cui al comma 6-quater dell'articolo 13 del d.P.R. n. 115/2002. Inoltre, da un punto di vista sistematico e temporale, il comma 1-quater dell'articolo 13 del d.P.R. n. 115/2002 è stato introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012 n. 228, ovvero successivamente all'introduzione del contributo unificato nel processo tributario; ne deriva la volontà del legislatore di escludere l'estensione dell'applicabilità del suddetto comma 1-quater al contenzioso tributario. Del resto, una diversa interpretazione risulterebbe in contrasto con il divieto di interpretazione analogica in materia di tributi e di sanzioni ad essi correlate".

In vero, tuttavia, sull'applicazione del comma 1-bis dell'art. 13 d.P.R. n. 115/2002 al ricorso in appello che introduce il gravame tributario e che costituirebbe (con la maggiorazione del 50% della misura base indicata al comma 1) l'ulteriore misura sulla quale calcolare il raddoppio (complessivamente il 300% della misura base) in caso di rigetto in toto dell'impugnazione delle sentenze di prime cure, la citata nota di servizio nulla espressamente dice, e la prassi amministrativa delle segreterie giudiziarie delle Commissioni tributarie regionali non ne vede l'applicazione, quando esse ricevono in deposito i ricorsi in appello ed attribuiscono loro il numero di R.G.A.. Determinazione dell'imponibile, misura dell'imposta e procedimento, sono diversi tra il contributo unificato civile e quello tributario, soprattutto perché per il civile si fa riferimento all'art. 10 e seguenti del c.p.c., che determinano il valore della causa ai fini della competenza per valore nel processo civile, inesistente nel processo tributario; per il tributario si fa riferimento al valore di lite di cui all'art. 12, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, novella d.lgs. n. 156/2015. Quindi, in caso di domanda giudiziale soggettivamente collettiva e/o oggettivamente plurima (con la quale più soggetti impugnano insieme ed “uno actu” più atti e/o fatti impositivi) la base imponibile del C.U. civile resta unica mentre quella del C.U.T. è frazionata per soggetti, per ricorsi e per atti impositivi impugnati; l'effetto è che nel civile si può raggiungere un solo C.U. massimo (€ 1.686) per causa, nel tributario si possono avere per la stessa causa tanti C.U.T. massimi (€ 1.500) quanti sono i soggetti, i ricorsi e gli atti impositivi impugnati. Raddoppiare un C.U. di € 1.686 o, ad esempio, di € 6.000 ha una efficacia afflittiva diversa. Peraltro, neanche la maggioritaria giurisprudenza del giudice dell'impugnazione (fatta salva qualche infrequente eccezione) risulta aver mai dato atto della sussistenza dei presupposti de quibus, senza alcun conseguente ricorso in cassazione per violazione di legge, la cui legittimazione ad causam e ad processum è riferibile alla citata articolazione territoriale MEF. La disposizione in esame ha una portata precettiva diretta: “Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente”...e cioè che... “l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile”; la disposizione in esame rievoca quanto disposto per la registrazione a debito delle sentenze di condanna per fatto di reato: Art. 60, comma 2, d.P.R. n. 131/1986: Modalità per la registrazione a debito. In campo impositivo (che è diritto speciale) integrazione analogica ed interpretazione estensiva hanno severi limiti di applicazione; va, pertanto, rilevata la non applicabilità al giudizio tributario di impugnazione davanti le Commissioni tributarie regionali delle citate disposizioni, previste per il giudizio civile, in mancanza di una specifica disposizione, come quella di cui all'art. 261, d.P.R. n. 115/2002, che estende esplicitamente l'applicazione della normativa civile del T.U.S.G. nel processo tributario dinanzi la Corte di cassazione, prescrivendo che “al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”; tale specifica disposizione (che introduce nella disciplina sostanziale T.U.S.G. lo stesso principio, già espresso dall'art. 62, comma 1, d.lgs. n. 546/1992 per la disciplina processuale) sarebbe ultronea ove il d.P.R. n. 115/2002 potesse trovare applicazione — in via meramente interpretativa — anche al giudizio tributario di merito; essendo, invece, espressamente prevista l'estensione della applicazione civile al solo giudizio di legittimità, se ne deve dedurre la non applicabilità al giudizio davanti alle Commissioni tributarie regionali. Relazione illustrativa approvata dal consiglio dei ministri del 24 maggio 2002”, art. 261 d.lgs. n. 115/2002: Articolo 261 Spese processuali nel processo tributario dinanzi alla corte di cassazione: la fase del ricorso per cassazione avverso le sentenze della commissione tributaria regionale è costruita nell'ordinamento come quella per il procedimento civile. Il procedimento tributario, quindi, si svolge dinnanzi ad un giudice “speciale” con regole particolari nelle prime due fasi e si unifica con il procedimento ordinario civile per la fase di legittimità.

La Sesta sezione civile della Cassazione, con l'ordinanza interlocutoria n. 6158/2014, prendendo atto di due contrastanti orientamenti giurisprudenziali di legittimità formatisi sull'ambito applicativo dell'art. 13 comma 1-quater T.U.S.G. (ex plurimis: l'ordinanza n. 3860 del 18 febbraio 2014 e la sentenza n. 26566 del 27 novembre 2013), ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché disponesse che sul contrasto intervenissero le Sezioni Unite. Secondo Cass.S.U., n. 9938/2014, la norma è applicabile al processo tributario solo in Cassazione (ove il rito non è più tributario ma civile), e mai contro la parte soccombente che sia stata ammessa alla prenotazione a debito, facendo prevalere, tuttavia, un ragionamento contabile sulla logica giuridica (il contributo unificato è una tassa per il costo del servizio giustizia e le relative “maggiorazioni” sono presidi sanzionatori contro eventuali abusi di tale servizio). Conforta, comunque, tale assunto anche la lettura della recente sentenza Corte cost. n. 78/2016 laddove rileva che: “Quanto alla determinazione del contributo, l'art. 13 del d.P.R. n. 115/2002 stabilisce criteri diversi per il processo civile, amministrativo e tributario. Nel primo, per la qualificazione del contributo — come determinato dei primi sei commi del predetto art. 13 — vengono in rilievo sia la materia che il valore della controversia; nel secondo — disciplinato dal comma 6-bis del medesimo articolo — è stato adottato il criterio della differenziazione per materia; nel processo tributario — per i ricorsi davanti alle commissioni tributarie [perché davanti alla corte di cassazione il già citato art. 261 d.P.R. n. 115/2002 prescrive l'applicazione: “della disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”] — il successivo comma 6-quater stabilisce importi crescenti per scaglioni di valore delle liti”. Peraltro tale interpretazione evita di sollevare una questione di costituzionalità della citata normativa, con riferimento alla violazione degli artt. 3, comma 1, e 111, comma 2, della Cost., in quanto il raddoppio del contributo unificato troverebbe asimmetrica applicazione — come confermato dalla citata sentenza Cass.S.U., n. 9938/2014 — solamente nei confronti delle parti private (sanzionate –ex lege- in misura proporzionale ad aliquota fissa a favore dell'Erario, semplicemente per avere perso l'appello, in eventuale cumulo materiale con un risarcimento dei danni a favore del Fisco –già ex se ad effetto dissuasivo per essere strumento di condanna anche d'ufficio- ai sensi dell'art. 15, comma 2-bis, d.lgs. n. 546/1992) e mai nei confronti del Fisco, parte necessaria in tutti i giudizi tributari, che potrebbe proporre impugnazioni, anche incidentali nello stesso giudizio di impugnazione, senza andare mai incontro a tale sanzione, neanche in maniera contabile-figurativa (come nella prenotazione a debito del C.U.T. nel caso di P.A. soccombente) al solo fine di una valutazione misurata delle performance del personale dirigente/direttivo preposto alla gestione del contenzioso. Tale “maggiorazione”, infatti, non ha natura tributaria (per aggiungersi al prelievo tributario già dovuto per il medesimo presupposto del tributo base), non ha natura stricto sensu risarcitoria (per sovrapporsi alla liquidazione degli interessi) ma ha evidente natura meramente afflittiva (vds. Corte Cost. n. 18/2018).

Spese della fase cautelare

A termini del comma 2-quater dell'art. 15 in commento le spese della fase cautelare sono liquidate con l'ordinanza che decide sulla relativa istanza. La disposizione – quanto mai opportuna, in guisa tale da scoraggiare il soccombente in cautela dall'introdurre un inutile processo confermativo nel merito – è omnicomprensiva, nel senso che la statuizione sulle spese di lite entra a pieno diritto nel contenuto necessario del dispositivo (e per estensione della motivazione) dell'ordinanza (non impugnabile) con cui il giudice decide sull'istanza di sospensione dell'atto impugnato, ma anche sull'istanza di sospensione della provvisoria esecutività della sentenza appellata o ricorsa per cassazione o per revocazione exartt. 47,52,62-bis e 64 d.lgs. n. 546 del 1992. Invero la non impugnabilità dell'ordinanza in esame non costituisce un limite alla tutela del soccombente con riferimento alle spese della fase cautelare, dal momento che lo stesso resta pur sempre libero di tentare la sorte, rivendicando nel merito le proprie ragioni, ferma l'eventualità, però, di incorrere in una condanna per responsabilità processuale aggravata.

Ad ogni modo, la regola è che il giudice di merito, in quanto investito di una cognizione piena sulla regiudicanda, conserva il potere, tuttavia non automatico, di disporre, se del caso diversamente, in sentenza circa il capo del spese afferenti la fase cautelare: nondimeno egli incontra il limite – tendenzialmente invalicabile, per le ragioni poc'anzi esposte – della non addossabilità (anche) di tali spese alla parte risultata integralmente vittoriosa, dacché, diversamente, incorrerebbe nella violazione del principio della soccombenza. La ragione della regola dell'autonomo potere del giudice di merito, di cui si discute, risiede in ciò che la sentenza che definisce il giudizio assorbe totalmente l'ordinanza cautelare, quanto alla decisione sulla regiudicanda e quanto alle spese. La parte che intenda dolersi della condanna alle spese della fase cautelare decisa in sentenza potrà, quindi, impugnare la sentenza stessa nel relativo capo. Ove però il giudice non provveda in sentenza sulle spese della cautela, l'ordinanza adottata in detta fase sarà assorbita dalla sentenza solo nella parte che ha deciso sull'istanza di sospensione, mentre conserverà la propria efficacia nel capo che dispone sulle spese del giudizio cautelare. In tal caso, la parte che intenda dolersi della condanna alle spese della fase cautelare decisa in ordinanza potrà, quindi, impugnare, bensì la sentenza, e non l'ordinanza, in quanto ha omesso di disporre diversamente in merito alle ridette spese.

I compensi spettanti agli incaricati dell'assistenza tecnica

Il nuovo comma 2-quinquies dell'art. 15 in commento conferma il principio recato dal precedente comma 2, secondo cui i compensi spettanti agli incaricati dell'assistenza tecnica sono liquidati in base ai parametri previsti per le relative prestazioni professionali. Per i soggetti autorizzati all'assistenza tecnica dal MEF si applica, invece, la disciplina degli onorari, delle indennità e dei criteri di rimborso delle spese per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, attualmente recata dal d.m. 2 settembre 2010, n. 169.

Liquidazione delle spese a favore delle parti pubbliche

Il comma 2-sexies dell'art. 15 in commento, nel quale è stato trasfuso, con alcune modifiche, il precedente comma 2-bis, disciplina la liquidazione delle spese a favore dell'Agenzia delle entrate, dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, degli altri enti impositori, degli agenti e dei concessionari privati della riscossione, per il caso in cui essi si siano avvalsi della facoltà di farsi assistere da propri dipendenti. Si applica – e non potrebbe essere diversamente – la disciplina relativa ai compensi per la professione forense, attualmente contemplata dal d.m. 10 marzo 2014, n. 55, tuttavia con un'inopportuna riduzione del 20% (che va in senso esattamente contrario ad un'improcrastinabile traguardo deflattivo).

All'ente locale (nella specie, un Comune) assistito in giudizio da propri dipendenti spetta, in caso di vittoria nella lite, la liquidazione delle spese, la quale deve essere effettuata mediante applicazione della tariffa ovvero dei parametri vigenti per gli avvocati, con la riduzione del venti per cento dei compensi ad essi spettanti, in quanto l'espresso riferimento a tali voci (spese e riduzione onorari), contenuto nell'art. 15, comma 2 bis, d.lgs. n. 546/1992, conferma il diritto dell'ente alla rifusione dei costi sostenuti e dei compensi per l'assistenza tecnica fornita dai propri dipendenti, che sono legittimati a svolgere attività difensiva nel processo (Cass. V, ord. n. 27634/2021; Cass. V, ord. n. 4473/2021; Cass. V, n. 23055/2019; Cass. V, n. 24675/2011).

Per effetto di una disposizione di favore per il contribuente, già presente nella precedente formulazione del comma 2-bis, il secondo periodo del comma 2-sexies prevede che la riscossione delle somme liquidate a favore di tutti gli enti impositori, nonché degli agenti e concessionari della riscossione, avviene, mediante iscrizione a ruolo, soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Invece, nell'ipotesi di una sentenza che condanni le parti pubbliche al pagamento delle spese di lite, si applica la disciplina di cui all'art. 69, comma 1, primo periodo, d.lgs. n. 546 del 1992, in vigore a far data dal 1° giugno 2016, in base alla quale «le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell'articolo 2, comma 2, sono immediatamente esecutive». Sulla palese, e profonda, irragionevolezza di tale norma ci si è poc'anzi ampiamente intrattenuti. In caso di mancata spontanea esecuzione, il contribuente ha la possibilità di promuovere l'ottemperanza ex art. 70 d.lgs. n. 546 del 1992, che – in ordine alle spese di giudizio, indipendentemente dal relativo importo – eccezionalmente è attribuita alla cognizione bensì della commissione competente, tuttavia in composizione monocratica (comma 10-bis).

Spese riferite alle controversie oggetto di reclamo, mediazione e di conciliazione giudiziale

Con le disposizioni dei commi 2-septies e 2-octies dell'art. 15 in commento, il legislatore ha disciplinato le spese riferite alle controversie oggetto di reclamo, mediazione e conciliazione giudiziale, con l'intento di incentivare l'utilizzo di detti istituti, potenziandone l'effetto deflattivo.

Nel comma 2-septies (abrogato dal d.lgs. n. 220/2023, si v. infra), anche per una maggiore sistematicità del testo di legge, è ripresa la disposizione già contenuta nel precedente art. 17-bis, comma 10, d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui, nel caso di controversie proposte avverso atti reclamabili, le spese di giudizio liquidate in sentenza sono maggiorate del 50%. La disposizione ha riguardo alle spese di giudizio di cui al comma 1 dell'art. 15 in commento, ossia alle spese di lite che sono poste a carico della parte integralmente soccombente, «con la duplice finalità – come spiega la relazione illustrativa al decreto di riforma – di incentivare la mediazione, oggi estesa a tutti gli enti impositori, e di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam». Non è stato, invece, riprodotto il secondo periodo del comma 10, che, ai fini della compensazione delle spese, faceva riferimento ai «giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione». Nondimeno resta salva l'applicabilità del comma 2 dell'art. 15 in commento: pertanto, fuori dai casi di soccombenza reciproca, la compensazione delle spese, comprese quelle della fase di reclamo-mediazione, può essere disposta solo qualora sussistano e siano espressamente dedotte in motivazione specifiche circostanze o aspetti della controversia assistite dai requisiti della gravità e dell'eccezionalità, tra le quali potranno rilevare anche considerazioni in ordine ai motivi che abbiano indotto la parte soccombente a disattendere una eventuale proposta di mediazione.

L'art. 2 del d.lgs. n. 220/2023, di riforma del processo tributario, ha abrogato il comma 2-septiesdell'art. 15.

Il cit. art. 2, disciplina gli effetti abrogativi relativi al comma 2-septies dell'articolo 15 e all'articolo 17-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, relativo al reclamo e alla mediazione, nonché al comma 4 dell'articolo 16 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, per effetto della introduzione della disciplina a regime dell'udienza a distanza contenuta nel nuovo articolo 34-ter del decreto legislativo n. 546 del 1992.

Al riguardo, quanto agli effetti derivanti dall'abrogazione degli artt. 15, comma 2-septies e 17-bis (art. richiamato dallo stesso comma 2-septies dell'art. in commento), si deve premettere che la previsione generalizzata del contraddittorio preventivo in sede accertativa prevista dall'art. 17 della legge delega garantisce il confronto tra contribuente e Amministrazione in una fase antecedente a quella contenziosa. Gli atti impositivi saranno quindi emessi tenendo espressamente conto delle valutazioni e considerazioni del contribuente, rendendo di fatto non più efficace la fase di confronto in sede di mediazione. Le garanzie per il contribuente, finalizzate ad anticipare l'analisi delle potenziali criticità degli atti impositivi rispetto alla fase contenziosa, sono ulteriormente incrementate dalla modifica all'istituto dell'autotutela, prevista dall'art. 4 della legge delega fiscale, che dispone di “potenziare l'esercizio del potere di autotutela estendendone l'applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell'atto, prevedendo l'impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate”. Tanto premesso si osserva che, laddove l'istituto previsto all'articolo 17-bis non venisse abrogato, il contraddittorio preventivo generalizzato comporterebbe un allungamento ingiustificato dei tempi del procedimento accertativo, con conseguente incremento degli oneri per l'Agenzia delle entrate, in contrasto con i principi di efficienza che devono sovraintendere l'operato della pubblica amministrazione. L'abrogazione dell'istituto della mediazione è quindi conseguenza diretta dell'introduzione nell'ordinamento tributario del contraddittorio preventivo e del potenziamento dell'istituto dell'autotutela e non comporta oneri per la finanza pubblica, mantenendo confrontabili i tempi medi necessari per l'emissione di un atto impositivo. In ordine all' abrogazione del comma 2-septies, che dispone che “Nelle controversie di cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento”, la stessa risulta una conseguenza diretta dell'abrogazione, del successivo articolo 17-bis, sopra analizzato.

Da ultimo occorre precisare che  a norma dell'art. 4, comma 2, del citato d.lgs. n. 220/2023 tale disposizione (vale a dire l'abrogazione) si applica ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024.

Il comma 2-octies, sostituito dalla Legge 31 agosto 2022 n. 130, recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”, prevede oggi un addebito delle spese di giudizio, maggiorate del 50 per cento, per la parte che dopo non aver accettato una proposta di conciliazione si veda riconosciuta nel merito una pretesa inferiore a quanto previsto in sede di conciliazione.

Rispetto alla disciplina previgente, che già poneva le spese del giudizio a carico della parte che avesse rifiutato senza motivo una conciliazione per poi vedersi riconosciuta dal giudice una pretesa inferiore a quanto proposto in sede di conciliazione, la l. n. 130/2022:

▪ ha coordinato il contenuto dell'art. 2-octies con la possibilità che la proposta di conciliazione venga dalla Corte di giustizia tributaria di primo e di secondo grado;

▪ ha aggiunto all'obbligo di pagare le spese processuali, la previsione della loro maggiorazione del 50%.

L'intento del legislatore è chiaramente quello di incentivare l'accettazione della proposta di conciliazione, soprattutto quando la stessa proviene dal giudice tributario, per non incorrere nel rischio concreto di dover pagare il doppio delle spese processuali.

La disciplina in esame trova applicazione, come prevede l'art. 8, comma 3, della l. n. 130/2022, con riguardo ai ricorsi notificati a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge stessa (16 settembre 2022).

 

In definitiva, se non si addiviene a conciliazione, possono verificarsi le seguenti ipotesi: 1) una parte risulta totalmente soccombente e alla stessa sono addebitate, secondo il principio generale, le spese di lite, a meno che ricorrano gravi ed eccezionali ragioni; 2) la soccombenza è reciproca e la sentenza ha determinato la pretesa per un ammontare inferiore al contenuto della proposta conciliativa, rifiutata da una delle parti per un giustificato motivo, nel qual caso le spese sono compensate; 3) la soccombenza è reciproca e la sentenza ha determinato la pretesa per un ammontare inferiore al contenuto della proposta conciliativa, rifiutata da una delle parti senza un giustificato motivo, nel qual caso le spese gravano per intero su detta parte; 4) la soccombenza è reciproca e la sentenza ha determinato la pretesa per un ammontare uguale o superiore al contenuto della proposta, nel qual caso le spese sono compensate (cfr. Circ. Ag. Entrate, n. 38/E del 2015).

Al contrario, se la conciliazione si conclude, le spese sono compensate, salva diversa determinazione delle parti nell'accordo o nel processo verbale di conciliazione.

Coerentemente con il nuovo assetto delle spese di giudizio e con il rafforzamento del principio della soccombenza, l'art. 9, comma 1, lettera q), d.lgs. n. 156 del 2015, ha modificato l'art. 46 d.lgs. n. 546 del 1992, in tema di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere: con particolare riguardo al comma 3, la previsione della compensazione delle spese di lite è oggi limitata alle sole ipotesi di cessazione della materia del contendere per definizione delle pendenze tributarie «previste dalla legge» (ad esempio, a seguito di condono); in tal modo, il legislatore ha recepito i principi affermati Corte cost., n. 274/2005, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale del comma 3 laddove prevedeva che le spese del giudizio estinto restassero a carico della parte che le aveva anticipate in ogni caso di cessazione della materia del contendere (più precisamente, riteneva il giudice delle leggi, che fosse costituzionalmente illegittimo il comma 3 «nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, dovendo, pertanto, in tali ipotesi la Commissione tributaria pronunciarsi sulle spese di giudizio ai sensi dell'art. 15, primo comma, dello stesso d.lgs. n. 546 del 1992»).

Sempre con riguardo alla cessazione della materia del contendere, qualora l'Amministrazione finanziaria, a seguito dell'impugnazione dell'atto impositivo, in quanto viziato sul piano formale abbia provveduto alla sua sostituzione con altro atto idoneo a sanare il vizio tempestivamente fatto valere dal contribuente, l'intervenuta cessazione della materia del contendere, dichiarata ai sensi dell'art. 46 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non esclude la soccombenza virtuale dell'Amministrazione, onde la motivazione del giudice di merito, che legittimamente, sia pure in base al comma terzo di detta disposizione come successivamente riformulato a seguito della parziale dichiarazione d'illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza Corte cost. n. 274 del 2005, abbia condannato l'Ufficio a rifondere le spese sostenute dal contribuente, non è contraddittoria, ma pienamente coerente con la "ratio" della previsione legislativa, in tali sensi resa conforme a Costituzione (Cass. V, n. 21380/2006). Dello stesso avviso, di recente, la Ctr. di Milano (Sez. XII, n. 2491/2020), secondo la quale: “(…) in applicazione del disposto di cui al terzo comma dell'art. 46 del D.Lgs. n. 546 del 1992, nei casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge si dovrà continuare ad applicare l'art. 46 del D.Lgs. n. 546 del 1992, viceversa nei casi di estinzione del giudizio per ipotesi diverse da quelle di definizione delle pendenze tributarie, come nel caso di specie, ovvero nel caso in cui a seguito dell'impugnazione dell'atto l'Ufficio abbia provveduto all'annullamento dello stesso, ritirandolo per un vizio dello stesso, allora il giudice dovrà pronunciarsi sulla condanna al pagamento alle spese e non dovrà pertanto limitarsi a deciderne la compensazione”.

Bibliografia

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