Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 33 - Trattazione in camera di consiglio 1 2 .1. La controversia è trattata in camera di consiglio salvo che almeno una delle parti non chieda la discussione in pubblica udienza, in presenza o da remoto, con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite entro il termine di cui all'articolo 32, comma 2, e da depositare nella segreteria unitamente alla prova della notificazione. Se una parte chiede la discussione in pubblica udienza e in presenza e un'altra parte chiede invece di discutere da remoto, la discussione avviene in presenza, fermo il diritto, per chi lo ha chiesto, di discutere da remoto. Nel caso in cui una parte chieda di discutere in presenza, i giudici ed il personale amministrativo partecipano sempre in presenza alla discussione3. 2. Il relatore espone al collegio, senza la presenza delle parti, i fatti e le questioni della controversia. 3. Della trattazione in camera di consiglio è redatto processo verbale dal segretario. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 81 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. [3] Comma sostituito dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n.220. Per l'applicazione vedi l'articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 220/2023 medesimo. InquadramentoL'art. 33 in commento prevede la camera di consiglio come modalità ordinaria per la trattazione della controversia, a meno che una delle parti non chieda che la causa venga discussa in pubblica udienza, mediante apposita istanza da depositare nella segreteria e notificare alle altre parti costituite entro il termine di cui all'art. 32, comma 2, ovvero fino a dieci giorni liberi prima della data fissata per la trattazione (comma 1). La scelta del legislatore è motivata da evidenti ragioni di economia processuale, preferendo lasciare alla scelta delle parti il regime pubblico della trattazione. L'art. 1, comma 1, lett. n), del d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, in attuazione della lettera b), n. 4), della legge delega della riforma fiscale, l. n. 111/2023, ha modificato il comma 1 dell'articolo in commento, relativo alla richiesta di discussione in pubblica udienza (in mancanza della quale la trattazione ha luogo in camera di consiglio), prevedendo che la parte specifichi se la richiesta di discussione sia in presenza o da remoto e che nel concorso di richieste di discussione in presenza e da remoto la discussione avvenga in presenza ferma restando la possibilità, per chi lo ha chiesto, di partecipare da remoto. Oggi, il “nuovo” comma 1 così dispone: “La controversia è trattata in camera di consiglio salvo che almeno una delle parti non chieda la discussione in pubblica udienza, in presenza o da remoto, con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite entro il termine di cui all'articolo 32, comma 2, e da depositare nella segreteria unitamente alla prova della notificazione. Se una parte chiede la discussione in pubblica udienza e in presenza e un'altra parte chiede invece di discutere da remoto, la discussione avviene in presenza, fermo il diritto, per chi lo ha chiesto, di discutere da remoto. Nel caso in cui una parte chieda di discutere in presenza, i giudici ed il personale amministrativo partecipano sempre in presenza alla discussione”. A proposito di partecipazione da remoto all'udienza, di recente, la Suprema Corte di cassazione (V,ord., n. 24904/2023), si è pronunciata in merito al mancato funzionamento del collegamento da remoto. Anticipando le conclusioni, la Corte ha affermato che in siffatti casi, il Presidente deve sospendere l'udienza e, qualora sia impossibile ripristinare il collegamento, deve rinviare la stessa, pena la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa. Il caso traeva origine dal ricorso, con sei motivi, dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. In particolare, con il primo motivo l'Ufficio lamentava la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa per avere la C.T.R. della Lombardia deciso la controversia a seguito di trattazione in camera di consiglio laddove, al contrario, la causa era stata originariamente avviata per la discussione in pubblica udienza, sia pure mediante collegamento audiovisivo, discussione mai svoltasi, tuttavia, a causa dei problemi di collegamento da parte del Presidente, che avrebbero dovuto imporre il rinvio della discussione ad altra data. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il primo motivo, con assorbimento degli altri, sulla base del seguente ragionamento. Con decreto direttoriale prot. n. RR46 dell'11.11.2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 285 del 16.11.2020, sono state individuate le regole tecnico operative per lo svolgimento e la partecipazione alle udienze svolte in modalità da remoto. In particolare, l'art. 3, comma 3, dispone che “In caso di mancato funzionamento del collegamento da remoto, il Presidente sospende l'udienza e, nel caso in cui sia impossibile ripristinare il collegamento, rinvia la stessa disponendo che ne venga data comunicazione alle parti con le modalità previste dal comma 2” (PITTARI). Nel caso di specie, dal verbale dell'udienza svoltasi innanzi alla C.T.R. emergeva che: 1) la causa era stata avviata per la trattazione in pubblica udienza; 2) era stato disposto lo svolgimento dell'udienza in modalità da remoto; 3) il Presidente aveva ammesso le parti alla discussione; 4) non fu, tuttavia, possibile celebrare in concreto l'udienza a causa di problemi di collegamento del Presidente. Emerge altresì che “successivamente il Presidente dichiara chiusa la discussione e il Collegio si ritira in camera di consiglio”, all'esito della quale è stata poi depositata la sentenza. La Corte di cassazione ha precisato che l'impossibilità di celebrazione, in concreto, dell'udienza pubblica, a causa dei problemi di collegamento da remoto del Presidente, avrebbe dovuto obbligatoriamente determinarne, secondo quanto prescritto dall'art. 3, comma 3, del decreto direttoriale prot. n. RR46 dell'11.11.2020, la sospensione, con contestuale rinvio della causa ad altra udienza e non certo la sua trasformazione (come invece avvenuto nella specie) in udienza camerale non partecipata. Ne consegue, pertanto, la nullità della sentenza impugnata per la violazione del diritto del diritto di difesa dell'Ufficio ricorrente, privato della possibilità (a) di esporre le proprie difese conclusive nel corso della discussione (art. 34, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992), nonché (b) di avanzare istanza di differimento della discussione (art. 34, comma 3), tanto più considerando che alla stessa (c) non era neppure consentito, prima dell'udienza, il deposito di brevi repliche scritte (previsto dall'art. 32, comma 3, per la sola trattazione in camera di consiglio). La Corte accogliendo il primo motivo di ricorso, con assorbimento dei residui, ha per l'effetto, cassato la decisione impugnata e rinviato alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, in diversa composizione, affinché riesaminasse la controversia.
Qualora, dunque, questa avvenga in camera di consiglio, il relatore nominato ex art. 30, comma 1, dal presidente della commissione tributaria e, per esso, dal presidente di sezione, esporrà i fatti e le questioni involte nella controversia (comma 2). Donde, in definitiva, il proprium della trattazione in camera di consiglio si lascia individuare nel fatto che il convincimento del collegio è destinato a formarsi esclusivamente sulla base delle difese scritte e dei documenti acquisiti prima dell'udienza, senza il momento di dialogo con le parti che invece apre alla pienezza del contraddittorio soggettivo, nella dimensione orale, in sede di pubblica udienza. La regola dell'ordinarietà della trattazione in camera di consiglio rinviene una logica giustificazione nell'interesse generale ad una rapida progressione verso la decisione, in coerenza con natura e struttura del processo tributario. Invero esso è caratterizzato da un'impronta impugnatoria, che lo conforma come volto allo scandaglio delle censure rivolte ad atti della P.A., ancorché incidenti su diritti soggettivi, in funzione dell'affermata loro illegittimità. Detta impronta, tenuto conto che gli atti da una parte e le circostanze di fatto su cui le censure contro gli stessi rivolte dall'altra sono consolidati nella realtà effettuale prima del radicamento del giudizio, ben si presta a sacrificare l'oralità sull'altare della speditezza e, tendenzialmente, della concentrazione. Sull'ulteriore ma connesso piano della struttura del processo tributario, se ne coglie all'istante la documentalità, perché hanno natura documentale sia gli atti impugnati sia gli strumenti di estrinsecazione delle censure che li involgono: ciò è tanto vero che è esclusa ex art. 7, comma 4, d.lgs. n. 546/1992 l'ammissibilità tanto della prova testimoniale quanto del giuramento (Antico, 2664; La Scala, 90), senza che il temperamento derivante dall'ammissibilità, a determinate condizioni, di atti e documenti contenenti le dichiarazioni rese dagli interessati e da terzi in sede extraprocessuale (Della Vecchia, 6, 863; Parrella, 171) – proprio per l'extraprocessualità delle dichiarazioni stesse – intacchi i fondamentali dell'essenza documentale della giurisdizione tributario anche nei gradi di merito. Talché, tornando al tema che ne occupa per concluderne l'introduzione, la dimensione orale del contraddittorio in linea di massima non ha maggiore efficacia anche solo locutoria rispetto a quella scritta: in ciò sta la ragionevolezza di demandare alle parti la valutazione preventiva – essendo esse perfettamente a conoscenza dei risvolti “critici” del contenzioso che si accingono ad affrontare – circa l'opportunità di esigere un momento di simultanea presenza di tutti i soggetti processuali nella disamina dell'impugnazione. Consulenza tecnica nell'ipotesi di trattazione in camera di consiglioNel corso della trattazione di una controversia in camera di consiglio, il collegio, pur in assenza dei procuratori delle parti, può disporre una consulenza tecnica d'ufficio (tipicamente contabile) onde acquisirne i risultati ritenuti indispensabili per pervenire alla decisione (Di Giacomo; Comelli, 2852; Chiametti-Solari, 50). In tal caso, la tutela del contraddittorio è assicurata dal fatto che, per quanto sia vero che le parti non hanno diritto di assistere alla fase giudiziale e dunque altresì alla sottopartizione di essa concernente il conferimento dell'incarico con la formulazione del quesito, le stesse possono, comunque, partecipare alle operazioni ex art. 194, comma 3, c.p.c. (a mente del quale, infatti, anche quando il giudice dispone che il consulente compia indagini da sé solo, le parti possono intervenire di persona e a mezzo dei propri difensori e consulenti, presentando al consulente tecnico d'ufficio, per iscritto ovvero, a questo punto, persino oralmente, osservazioni ed istanze) (Cass. V, n. 28770/2005). Il consulente tecnico d'ufficio è un ausiliario del giudice e la C.T.U. non è una prova in senso tecnico, bensì è uno strumento d'integrazione della conoscenza extragiuridica del giudice, necessaria al fine della valutazione del materiale istruttorio acquisto (Mandrioli, 277, Comoglio, 490; Oldrà, 1605). L'ordinanza con la quale il collegio dispone la C.T.U. non è impugnabile, in quanto espressione della sua facoltà discrezionale. L'inopportunità, l'inconferenza o l'arbitrarietà dell'adempimento che ne occupa possono essere veicolate soltanto attraverso l'impugnazione della sentenza, purché, secondo le regole generali, in tutto o in parte, sfavorevole. Invero la critica alla sentenza può involgere retroattivamente la stessa decisione di esperimento di una C.T.U. sotto il duplice profilo della rilevanza ai fini della decisione e della congruità della formulazione del quesito. Ciò illumina sulla necessità che il collegio, sin dal momento in cui dispone di dare ingresso alla C.T.U., motivi con puntualità e precisione la decisione in rapporto all'indispensabilità dell'approfondimento istruttorio per l'esame di una particolare questione indefettibilmente solo tecnica dalla cui soluzione dipende l'esito della lite; coerentemente deve rendere ragione del campo d'indagine e dei poteri conferiti al consulente, onde evitare che la C.T.U. si trasformi in un'inammissibile assistenza giudiziaria alle deficienze probatoria di alcuna delle parti (In argomento, ampiamente, Russo, 10, 993). L'astringenza del dovere del collegio di adeguatamente perimetrale a priori i confini dell'attività consulenziale emerge ancor più evidente alla stregua dell'opinione ormai ricevuta per cui la C.T.U. può costituire fonte oggettiva di prova tutte le volte in cui essa operi – non come strumento di mera valutazione di fatti già accertati (cd. consulente deducente), bensì – come mezzo di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche (cd. consulente percipiente) (Cass. III, ord., n. 3717/2019; Cass. III, n. 6155/2009; Cass. III, n. 3990/2006). Sotto il profilo degli esiti della C.T.U., a maggior ragione nel processo tributario cameralizzato vale la regola per cui gli stessi siano rassegnati dal consulente in una relazione da depositarsi in segreteria nel termine stabilito dal collegio al momento del conferimento dell'incarico. Detta relazione è sempre liberamente valutabile dal collegio, il quale per l'effetto non ne subisce alcun vincolo, per quanto debba motivare sia l'adesione sia il dissenso all'avviso espresso dal consulente. Ne consegue che la parte che si dolga, non tanto della relazione in sé e per sé, ma della decisione del giudice in rapporto ad essa, può esercitare il contraddittorio, in specie ove il collegio non abbia eccezionalmente consentito controdeduzioni pur sempre per iscritto, interponendo gravame avverso la sentenza, talché il contraddittorio non è omesso, ma semplicemente postergato. Questioni di legittimità costituzionaleSpecie in passato, oggetto di ampia discussione era la rimessione alla mera discrezionalità delle parti – ritenuta come tale costituzionalmente illegittima – della scelta della trattazione in pubblica udienza anziché, ordinariamente, in camera di consiglio. La Corte cost.n. 141/1998, ha tuttavia dichiarato infondata la questione. In particolare, la Corte, nel ribadire che la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari può subire eccezioni, qualora queste siano obiettivamente giustificate, ha ritenuto che la peculiare struttura del processo tributario, concepito dal legislatore come processo essenzialmente documentale, ben si concilia con la duplicità dei riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, previsti in rapporto di alternatività tra di loro (sul punto, amplius, Giorgetti, 17). Né, secondo la Corte, si configura alcuna lesione del diritto di difesa, atteso che le parti hanno piena facoltà di scegliere la trattazione orale, presentando la relativa istanza (al riguardo, peraltro, osserva acutamente Cantillo, Il nuovo processo tributario all'esame della Corte Costituzionale: osservazioni minime su tre importanti decisioni, in Rass. trib. 1998, 3, 648, che, non essendo le esigenze di pubblicità venute meno in relazione al nuovo processo tributario, rimettere alle parti di stabilire se far discutere la controversia in pubblica udienza o in camera di consiglio equivale ad affidare ad esse la tutela di un interesse pur tuttavia giudicato rilevante sul piano pubblicistico ed anche a voler annettere, nel bilanciamento riservato al legislatore, l'equipollenza di detto interesse all'interesse generale ad un più rapido funzionamento della giustizia tributaria, comunque permarrebbe una difficilmente giustificabile disarmonia con lo statuto previgente; soggiunge ancor più criticamente Aiudi, 847, che, se la pubblicità della giurisdizione è un principio cardinale a cui ogni ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare deve necessariamente conformarsi, l'effettiva realizzazione dello steso non può evidentemente essere rimessa alla scelta del singolo, dovendo invece essere una «caratteristica indefettibile del processo»). Recentissima è la questione sottoposta alla Corte (sent. n. 73/2022, con la quale ne ha dichiarato la non fondatezza), di legittimità costituzionale relative all'art. 30, comma 1, lett. g), n. 1), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 e agli artt. 32, comma 3, e 33 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in riferimento agli artt. 101, 111 e 136 Cost., nella parte in cui subordinano la pubblicità dell'udienza tributaria alla presentazione, da almeno una delle parti, di un'apposita istanza di discussione, poiché le disposizioni censurate, definendo un modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali. Ad avviso del giudice a quo (ord. del 7 gennaio 2021 della Commissione tributaria provinciale di Catania), le disposizioni censurate, rimettendo alla valutazione discrezionale delle parti l'individuazione della forma della trattazione nei processi tributari di primo e di secondo grado, avrebbero violato l'art. 101 Cost., in quanto, in tali controversie, la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari – la quale è implicita nel precetto costituzionale che fonda l'amministrazione della giustizia sulla sovranità popolare – non potrebbe essere derogata dalla volontà dei litiganti, stante il carattere indisponibile della pretesa fiscale dedotta in giudizio. Né, a giudizio del Collegio rimettente, l'interesse di rango costituzionale sotteso al principio della pubblicità delle udienze potrebbe essere bilanciato con una finalità, quale quella di economia processuale perseguita dalla normativa in scrutinio, priva di eguale rilevanza. Con la seconda questione era prospettato un vulnus all'art. 111 Cost., poiché, muovendo dal presupposto che la più ampia tutela giurisdizionale si attui attraverso la discussione in pubblica udienza, le norme censurate, nel condizionare la completezza del contraddittorio nel processo tributario all'esercizio di una facoltà che presuppone la disponibilità dell'interesse in contesa, di cui la parte pubblica sarebbe, tuttavia, priva, avrebbero inficiato la piena realizzazione del giusto processo regolato dalla legge. Tale principio costituzionale risulterebbe leso anche nella declinazione oggettiva di garanzia della partecipazione delle parti, quale attività connaturata al processo e fondamentale per l'attuazione della legge da parte del giudice terzo. Era, infine, denunciato il contrasto con l'art. 136 Cost., in quanto l'art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, prevedendo, in assenza della richiesta della pubblica udienza, la trattazione della causa in camera di consiglio, avrebbe violato il giudicato costituzionale, essendo stata già dichiarata costituzionalmente illegittima una norma – espressa dall'art. 39, comma 1, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 – che escludeva l'applicabilità al processo tributario del principio generale di pubblicità dell'udienza di cui all'art. 128 c.p.c. (TRAPUZZANO). Come anticipato, la Consulta ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, poiché le disposizioni censurate, definendo un modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali. I principi espressi dalla Corte possono essere così esposti: - premesso che il principio della pubblicità dei dibattimenti giudiziari, pur trovando fondamento nel precetto racchiuso nell'art. 101, primo comma, Cost., può subire eccezioni in relazione a determinati procedimenti e in presenza di giustificazioni obiettive e razionali, il legislatore ha connotato il giudizio tributario come processo prevalentemente documentale, in particolare dal punto di vista probatorio, tanto che è esclusa l'ammissibilità della prova testimoniale e del giuramento. Così che non è irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte dell'udienza pubblica. In proposito deve essere evidenziato che un meccanismo procedurale, come quello delineato dall'art. 33 del D.Lgs. 546 del 1992, che consente ad entrambe le parti, pubblica e privata, di valutare caso per caso la reale necessità di avvalersi della discussione in pubblica udienza, persegue un ragionevole fine di elasticità, in forza del quale le risorse offerte dall'ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela, e non interferisce con la cura dell'interesse pubblico al prelievo fiscale; - non ricorre la violazione dell'art. 136 Cost., poiché le disposizioni censurate non mantengono in vita o ripristinano gli effetti della medesima struttura normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale. Infatti, la sentenza n. 50 del 1989 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 39 del d.P.R. n. 636 del 1972, nella parte in cui escludeva l'applicabilità al processo tributario dell'art. 128 c.p.c., contenente l'enunciazione del principio di pubblicità dell'udienza. Per contro, l'art. 33 del d.lgs. n. 546/1992, oggetto di doglianza, prevede espressamente la pubblicità dell'udienza tributaria, sia pure condizionandola alla presentazione, da almeno una delle parti, di un'apposita istanza di discussione, e prescrivendo, in mancanza di tale richiesta, la trattazione della controversia in camera di consiglio. Sicché nell'attuale assetto normativo del processo tributario, alla stregua della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 546/1992, nel nuovo processo tributario i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternatività; - è compatibile la disciplina in esame con l'art. 111 Cost., in quanto la facoltà di scelta sulla forma del contraddittorio, cartolare o in presenza, attribuita alle parti dall'art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, non rileva ai fini della disponibilità della pretesa impositiva che forma oggetto del processo tributario. Un siffatto meccanismo procedurale, che consente ad entrambe le parti, pubblica e privata, di valutare caso per caso la reale necessità di avvalersi della discussione in pubblica udienza, realizza un modello elastico – in forza del quale le risorse offerte dall'ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela – e non interferisce con la cura dell'interesse pubblico al prelievo fiscale. Secondo la Corte, parimenti non fondata è la ulteriore censura con la quale è stata denunciata la lesione del principio del giusto processo, nell'accezione di garanzia della partecipazione dialettica delle parti, quale momento fondamentale per l'attuazione della legge da parte del giudice terzo. E tanto perché l'attuazione del contraddittorio non implica necessariamente che il confronto dialettico tra i litiganti si svolga in modo esplicito e contestuale, potendo dispiegarsi anche in tempi successivi, purché anteriori all'assunzione del carattere della definitività della decisione, e come momento soltanto eventuale del processo. Se dunque, in via generale, il principio del contraddittorio consacrato nell'art. 111, comma 2, Cost. impone esclusivamente di garantire che ogni giudizio si svolga in modo tale da assicurare alle parti la possibilità di incidere, con mezzi paritetici, sul convincimento del giudice, spettando al legislatore configurarne le specifiche modalità attuative, deve coerentemente escludersi che sussista un'unica forma in cui il confronto dialettico possa estrinsecarsi e che questa vada necessariamente identificata nella difesa orale. Infatti, non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità. Alla luce di tali considerazioni, la Consulta ha affermato che neanche nel processo tributario la previsione, come regola, della trattazione scritta è di ostacolo a una piena attuazione del contraddittorio. Ciò in quanto le disposizioni censurate, per un verso, non escludono la discussione in pubblica udienza, ma ne subordinano lo svolgimento alla tempestiva richiesta di almeno una delle parti e, per altro verso, attribuendo ai litiganti la facoltà di depositare, oltre alle memorie illustrative, ulteriori memorie di replica in un identico termine in parallelo, garantiscono un'adeguata e paritetica possibilità di difesa. Al contempo, la trattazione camerale soddisfa primarie esigenze di celerità e di economia processuale, particolarmente avvertite in un processo, come quello tributario, che attiene alla fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l'esercizio delle sue funzioni attraverso l'attività dell'Amministrazione finanziaria (TRAPUZZANO). Proposizione dell'istanza di discussione in pubblica udienzaSin dall'entrata in vigore del “nuovo” processo tributario, erano sorti dubbi circa l'atto con cui la parte può avanzare la richiesta di pubblica udienza: c'era chi sosteneva che fosse possibile solo con un'apposita istanza da depositare in segreteria e da notificare alle altri parti costituite e chi, invece, ammetteva che tale richiesta potesse essere presentata già con gli atti introduttivi (Gianoncelli, 716). In effetti, rispetto alla seconda tesi, una delle ragioni di maggiore perplessità deriva da ciò che l'ammissibilità della richiesta di trattazione in pubblica udienza sin dalla fase introduttiva del giudizio non elide la necessità di notificazione della stessa alle altre parti, a questo punto, in dispregio del tenore del comma 1 dell'art. 33 in commento, a prescindere dalla circostanza che le stesse siano già costituite (Alemanno, 2933); oltretutto, se è la parte resistente a chiedere la pubblica udienza nelle controdeduzioni, esse pure, in difformità dal regime ordinario che ne prescrive il solo deposito in segreteria, devono essere notificate (Santi Di Paola, 686), viepiù per il sol fatto di ospitare una richiesta che non appartiene al contenuto che le tipizza (Glendi, 3370). Dal punto di vista degli atti di prassi, il MEF, in un primo momento, aveva sostenuto che l'istanza dovesse essere proposta autonomamente, in ragione della diversa procedura prevista per la notificazione della stessa rispetto a quanto stabilito dall'art. 21 d.lgs. n. 546/1992 per il ricorso. Nel dettaglio, la circ. 18 dicembre 1996, n. 291/E, faceva rilevare come il comma 1 dell'art. 33 in commento sembrerebbe alludere ad un'“apposita istanza», viepiù da notificarsi alle «altre parti costituite», per chiedere la discussione in pubblica udienza, in guisa da far ritenere che l'istanza presupponesse la già avvenuta costituzione. La posizione del MEF è però cambiata con la circ. del 21 ottobre 1998, n. 242/E. Essa – in adesione a quella dottrina propensa per la tesi che, con la dicitura «apposita istanza», il legislatore ha inteso semplicemente imporre alla parte l'onere di rendere esplicita la determinazione di far trattare la controversia in pubblica udienza, talché detta determinazione ben può essere formulata con atto separato ovvero con il ricorso o altri atti processuali, a condizione che detti atti siano notificati alle controparti parti, in specie se costituite (Cantillo, Forma e modalità dell'istanza di trattazione in pubblica udienza, in Rass. trib., 1998, 2, 601; Russo, 1996, 485) – si è infine determinata a prevedere che, «nonostante l'interpretazione letterale della norma, è da ritenersi del tutto ammissibile la proposizione dell'istanza di discussione in pubblica udienza sin dal primo atto processuale». La giurisprudenza da sempre è attestata su un'interpretazione dichiaratamente non formalistica, sancendo che, «per il principio della libertà delle forme processuali, l'istanza della parte che opti per la trattazione della controversia innanzi alla commissione tributaria in pubblica udienza può essere formulata in un qualunque atto del processo (atto introduttivo, memoria o ricorso d'appello principale o incidentale) ed il suo mancato accoglimento, purché il suddetto atto che la contiene sia depositato presso la segretaria della Commissione e venga notificato alla controparte, determina violazione del diritto di difesa – ex art. 24 Cost. – e non mera irregolarità» (Cass. V, n. 5986/2001, ribadita da ultimo da Cass. V, n. 1139/2008). La legittimità costituzionale della subordinazione dell’udienza pubblica all’istanza di parte Sulla legittimità della subordinazione dell'udienza pubblica all'istanza di parte si è espressa di recente la Corte costituzionale. Con la sentenza n. 73 del 2022 la Corte ha dichiarato la non fondatezza, in riferimento agli artt. 101, 111 e 136 Cost., delle questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 30, comma 1, lett. g), n. 1), della l. 30 dicembre 1991, n. 413 e agli artt. 32, comma 3, e 33 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui subordinano la pubblicità dell'udienza tributaria alla presentazione, da almeno una delle parti, di un'apposita istanza di discussione, poiché le disposizioni censurate, definendo un modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali. Nel caso di specie, ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate, rimettendo alla valutazione discrezionale delle parti l'individuazione della forma della trattazione nei processi tributari di primo e di secondo grado, avrebbero violato l'art. 101 Cost., in quanto, in tali controversie, la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari – la quale è implicita nel precetto costituzionale che fonda l'amministrazione della giustizia sulla sovranità popolare – non potrebbe essere derogata dalla volontà dei litiganti, stante il carattere indisponibile della pretesa fiscale dedotta in giudizio. Né, a giudizio del Collegio rimettente, l'interesse di rango costituzionale sotteso al principio della pubblicità delle udienze potrebbe essere bilanciato con una finalità, quale quella di economia processuale perseguita dalla normativa in scrutinio, priva di eguale rilevanza. Con la seconda questione era prospettato un vulnus all'art. 111 Cost., poiché, muovendo dal presupposto che la più ampia tutela giurisdizionale si attui attraverso la discussione in pubblica udienza, le norme censurate, nel condizionare la completezza del contraddittorio nel processo tributario all'esercizio di una facoltà che presuppone la disponibilità dell'interesse in contesa, di cui la parte pubblica sarebbe, tuttavia, priva, avrebbero inficiato la piena realizzazione del giusto processo regolato dalla legge. Tale principio costituzionale risulterebbe leso anche nella declinazione oggettiva di garanzia della partecipazione delle parti, quale attività connaturata al processo e fondamentale per l'attuazione della legge da parte del giudice terzo. Era, infine, denunciato il contrasto con l'art. 136 Cost., in quanto l'art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, prevedendo, in assenza della richiesta della pubblica udienza, la trattazione della causa in camera di consiglio, avrebbe violato il giudicato costituzionale, essendo stata già dichiarata costituzionalmente illegittima una norma – espressa dall'art. 39, comma 1, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 – che escludeva l'applicabilità al processo tributario del principio generale di pubblicità dell'udienza di cui all'art. 128 c.p.c.Con sentenza in commento la Consulta ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 30, comma 1, lett. g), n. 1), della legge n. 413 del 1991, 32, comma 3, e 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, poiché le disposizioni censurate, definendo un modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali. In via prioritaria la Corte ha negato la ricorrenza della violazione dell'art. 136 Cost., poiché le disposizioni censurate non mantengono in vita o ripristinano gli effetti della medesima struttura normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale. Infatti, la sentenza n. 50 del 1989 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 39 del d.P.R. n. 636 del 1972, nella parte in cui escludeva l'applicabilità al processo tributario dell'art. 128 c.p.c., contenente l'enunciazione del principio di pubblicità dell'udienza. Per contro, l'art. 33 del d.lgs. n. 546/1992, oggetto di doglianza, prevede espressamente la pubblicità dell'udienza tributaria, sia pure condizionandola alla presentazione, da almeno una delle parti, di un'apposita istanza di discussione, e prescrivendo, in mancanza di tale richiesta, la trattazione della controversia in camera di consiglio. Sicché nell'attuale assetto normativo del processo tributario, alla stregua della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 546/1992, nel nuovo processo tributario i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternatività. Il Giudice delle leggi ha altresì disatteso la questione di legittimità costituzionale sollevata in ordine all'art. 101 Cost. Al riguardo, ha ribadito che il principio della pubblicità dei dibattimenti giudiziari, pur trovando fondamento nel precetto racchiuso nell'art. 101, comma 1, Cost., può subire eccezioni in relazione a determinati procedimenti e in presenza di giustificazioni obiettive e razionali. E nella fattispecie la pubblicità dell'udienza risulta non già esclusa, come accadeva nella normativa previgente, bensì condizionata alla presentazione, da almeno una delle parti, di un'apposita istanza di discussione. A questo punto la Corte ha ritenuto che il siffatto principio conservi validità pur nel mutato quadro costituzionale. E ciò perché, alla luce dell'assetto normativo disegnato dalle disposizioni scrutinate, la pubblica udienza non è affatto esclusa, ma è espressamente contemplata dall'art. 33, D.Lgs. n. 546/1992, sia pure come forma di trattazione condizionata alla sollecitazione di parte. In questa prospettiva la Corte ha già avuto modo di osservare, per di più con riferimento al processo penale, in cui l'udienza pubblica assume un valore ancora più pregnante, che una siffatta modalità operativa, imperniata sulla scelta della parte, è idonea a soddisfare adeguatamente l'esigenza di controllo popolare sottesa al principio di pubblicità dei giudizi. Ad avviso della Consulta, avuto anche riguardo alla circostanza che il legislatore ha connotato il giudizio tributario come processo prevalentemente documentale, in particolare dal punto di vista probatorio, tanto che è esclusa l'ammissibilità della prova testimoniale e del giuramento ex art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, non è irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte dell'udienza pubblica, posto che, in assenza della discussione, la trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa, cioè ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle questioni oggetto del giudizio, è comunque riprodotto nella decisione e reso conoscibile alla generalità con il deposito della stessa. D'altronde, ha soggiunto la Corte, il rito camerale rinviene una coerente e logica motivazione nell'interesse generale ad un più rapido funzionamento del processo, interesse che assume particolare rilievo per il processo tributario, gravato da un contenzioso di dimensioni particolarmente ingenti. Per l'effetto, il Giudice delle leggi ha reputato compatibile la disciplina in esame con l'art. 111 Cost., in quanto la facoltà di scelta sulla forma del contraddittorio, cartolare o in presenza, attribuita alle parti dall'art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, non rileva ai fini della disponibilità della pretesa impositiva che forma oggetto del processo tributario. Un siffatto meccanismo procedurale, che consente ad entrambe le parti, pubblica e privata, di valutare caso per caso la reale necessità di avvalersi della discussione in pubblica udienza, realizza un modello elastico – in forza del quale le risorse offerte dall'ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela – e non interferisce con la cura dell'interesse pubblico al prelievo fiscale. Secondo la Corte, parimenti non fondata è la ulteriore censura con la quale è stata denunciata la lesione del principio del giusto processo, nell'accezione di garanzia della partecipazione dialettica delle parti, quale momento fondamentale per l'attuazione della legge da parte del giudice terzo. E tanto perché l'attuazione del contraddittorio non implica necessariamente che il confronto dialettico tra i litiganti si svolga in modo esplicito e contestuale, potendo dispiegarsi anche in tempi successivi, purché anteriori all'assunzione del carattere della definitività della decisione, e come momento soltanto eventuale del processo. Se dunque, in via generale, il principio del contraddittorio consacrato nell'art. 111, comma 2, Cost. impone esclusivamente di garantire che ogni giudizio si svolga in modo tale da assicurare alle parti la possibilità di incidere, con mezzi paritetici, sul convincimento del giudice, spettando al legislatore configurarne le specifiche modalità attuative, deve coerentemente escludersi che sussista un'unica forma in cui il confronto dialettico possa estrinsecarsi e che questa vada necessariamente identificata nella difesa orale. Infatti, non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità. Con riferimento a tale assunto la Corte ha richiamato, con specifico riguardo al processo civile, la giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'esclusione della difesa orale non menoma il diritto di difesa, la cui concreta disciplina può essere variamente configurata dalla legge, potendo la regola generale della pubblicità subire eccezioni per determinati procedimenti, quando esse abbiano obiettiva e razionale giustificazione (Cass. I, ord., n. 11315/2005); ed inoltre la garanzia del contraddittorio, necessaria in quanto costituente il nucleo indefettibile del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato dagli artt. 24 e 111 Cost., è comunque assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni (che, del resto, devono essere già compiutamente declinate con il ricorso per quanto riguarda, segnatamente, i motivi dell'impugnazione), non solo in funzione delle difese svolte dalla controparte (Cass. VI, ord., n. 395/2017). Alla luce di tali considerazioni, la Consulta ha affermato che neanche nel processo tributario la previsione, come regola, della trattazione scritta è di ostacolo a una piena attuazione del contraddittorio. Ciò in quanto le disposizioni censurate, per un verso, non escludono la discussione in pubblica udienza, ma ne subordinano lo svolgimento alla tempestiva richiesta di almeno una delle parti e, per altro verso, attribuendo ai litiganti la facoltà di depositare, oltre alle memorie illustrative, ulteriori memorie di replica in un identico termine in parallelo, garantiscono un'adeguata e paritetica possibilità di difesa. Al contempo, la trattazione camerale soddisfa primarie esigenze di celerità e di economia processuale, particolarmente avvertite in un processo, come quello tributario, che attiene alla fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l'esercizio delle sue funzioni attraverso l'attività dell'Amministrazione finanziaria. Obbligo di trattazione in pubblica udienza a seguito dell'istanzaSe l'istanza di trattazione in pubblica udienza è rituale, la trattazione della controversia, appunto, in pubblica udienza, è obbligatoria, in quanto il giudice non ha, in merito, alcun potere discrezionale. Qualora la causa sia trattata con il rito camerale nonostante la richiesta di pubblica udienza, la sentenza emessa è nulla per violazione del diritto di difesa e tale vizio deve essere fatto valere come motivo d'appello affinché la commissione tributaria regionale annulli la sentenza così emanata e rimetta la causa in primo grado. Infatti, integrando una violazione del diritto di difesa, il rifiuto di consentire la discussione orale alla parte che ne abbia fatto regolarmente richiesta comporta il vizio radicale della nullità, che, attraverso la sequela degli atti del processo, si comunica a quello conclusivo, ossia la sentenza (tale è ad es. la posizione, oltreché di Cass. V, n. 5986/2001, cit., più recentemente, di Cass. V, n. 27162/2011). Con la precisione che, se pur travolgendo la successiva sentenza per violazione del diritto di difesa, detta nullità non determina, una volta dedotta e rilevata in appello, la "retrocessione" del giudizio in primo grado, poiché tale ipotesi non rientra tra quelle tassativamente previste dall'art. 59 del detto d.lgs. l'appello costituisce, anche nel processo tributario, un gravame generale a carattere sostitutivo che impone al giudice dell'impugnazione di pronunciarsi e decidere sul merito della controversia (Cass. V, ord., n. 19579/2018). Ciò nondimeno, con specifico riguardo al giudizio d'appello, si è anche, più sfumatamente, sostenuto che «l'omessa fissazione, nel giudizio dinanzi alla commissione tributaria regionale, dell'udienza di discussione orale, pur ritualmente richiesta dalla parte, non comporta necessariamente la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, atteso che l'art. 360 n. 4 c.p.c., nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo, onde, poiché la discussione della causa nel giudizio d'appello ha una funzione meramente illustrativa delle posizioni già assunte e delle tesi già svolte nei precedenti atti difensivi e non è sostitutiva delle difese scritte, per configurare una lesione del diritto di difesa non basta affermare, genericamente, che la mancata discussione ha impedito al ricorrente di esporre meglio la propria linea difensiva, ma è necessario indicare quali siano gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o di approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi» (Cass. V, n. 2948/2006; conf. Cass. I, n. 18618/2003). Rispetto alla posizione più sfumata della giurisprudenza testé accennata, è stato fatto osservare (Randazzo, 1439) che, se è vero che la possibilità di trattazione pubblica dell'udienza è prioritariamente funzionale all'esercizio del diritto di difesa, il quale pertanto costituisce il parametro su cui vagliare la legittimità della pronuncia emessa in camera di consiglio nonostante la richiesta di pubblicità di taluna delle parti, essa, tuttavia, serve anche ad assicurare un contatto diretto delle parti con il giudice e, di conseguenza, una corretta acquisizione dei fatti allegati in giudizio sulla base di un rapporto di immediatezza. Detti profili attengono alla completezza del contraddittorio soggettivo, che trova la massima opportunità di estrinsecazione quando il giudice rileva d'ufficio una questione non sollevata dalle parti: l'interlocuzione con le parti serve a non coglierle di sorpresa con la decisione e, nel frattempo, arricchisce il bagaglio di conoscenze del giudice intorno alla res controversa, evitandogli errori. Ad ogni buon conto, conviene osservare, per chiarezza, che la segreteria della commissione tributaria ha il solo obbligo, ex art. 31 d.lgs. n. 546/1992, di comunicare la data di trattazione della causa, la quale avverrà poi in camera di consiglio, o in pubblica udienza, a seconda che una delle parti presenti, o meno, l'istanza di cui all'art. 33, per modo che anche nella seconda evenienza nessun'altra comunicazione è di per sé dovuta, in quanto (salva l'ipotesi di differimento) l'udienza è destinata ad essere celebrata nel giorno indicato nell'avviso previsto dall'art. 31 (Cass. V, n. 3936/2002). In punto di deposito dell'istanza di trattazione in pubblica udienza, che teoricamente dovrebbe finanche precedere la notificazione alle altre parti costituite, rilevasi che, sebbene l'interpretazione a sostegno della validità dell'istanza nonostante l'omissione di detto deposito sia condivisibile, comunque gli oneri imposti dal comma 1 dell'art. 33 in commento rispondono altresì alla funzione di salvaguardare le esigenze organizzative degli uffici giudiziari, i quali devono essere messi in grado di conoscere in anticipo con quale rito si svolgerà la trattazione. Processo verbale dell'udienzaDell'udienza è redatto verbale dal segretario. Questo è atto, appunto, del segretario e, pertanto, la mancata sottoscrizione di esso da parte del presidente non è prevista da alcuna norma come motivo di nullità (così Cass. V, n. 15553/2009). Ad ogni buon conto, in mancanza di regole specifiche, si applicano le disposizioni dettate in materia dal codice di procedura civile (soprattutto sub artt. 126 e 130). 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