Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 37 - Pubblicazione e comunicazione della sentenza 1 2 .

Andrea Antonio Salemme

Pubblicazione e comunicazione della sentenza12.

1. La sentenza è resa pubblica, nel testo integrale originale, mediante deposito telematico nella segreteria della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado entro trenta giorni dalla data della deliberazione. Il segretario fa risultare l'avvenuto deposito della sentenza apponendovi la propria firma digitale e la data, dandone comunicazione alle parti costituite entro tre giorni dal deposito3.

[2. Il dispositivo della sentenza è comunicato alle parti costituite entro dieci giorni dal deposito di cui al precedente comma.]4

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 86 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

Inquadramento

L’art. 37 applicabile ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato fino al 1° settembre 2024.

Il processo si chiude con la sentenza, che è l'atto con il quale il giudice si pronuncia sulla domanda delle parti. Essa è emanata in nome del popolo italiano ed è composta da due elementi, la motivazione ed il dispositivo: la motivazione contiene il percorso logico giuridico che ha condotto il giudice alla decisione e quindi i motivi di fatto e di diritto sulla quale la decisione si fonda, rappresentando lo strumento di controllo interno ed esterno dell'operato del giudice medesimo; il dispositivo, invece, è la pronuncia in senso stretto e può consistere nell'accoglimento totale o parziale o nel rigetto del ricorso.

Dopo la deliberazione, che investe il dispositivo, la sentenza, completa di motivazione e dispositivo, deve essere depositata presso la segreteria; il solo dispositivo, nei dieci giorni, è comunicato alle parti costituite, le uniche che hanno manifestato interesse per il giudizio e dunque per la decisione.

Deposito, pubblicazione e comunicazione della sentenza

Il comma 1 dell'art. 37 in commento – cui si correla nel processo civile ordinario il comma 1 ed alla prima parte del comma 2 dell'art. 133 c.p.c., a termini dei quali, rispettivamente, «la sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata» e «il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma”– prevede che, entro trenta giorni dalla deliberazione, la sentenza sia resa pubblica, nel testo integrale originale, mediante deposito in segreteria: se ne trae che il deposito è la fonte di pubblicità della sentenza, purché, però, redatta per intero in originale. Il segretario fa risultare l'avvenuto deposito apponendo sulla sentenza la propria firma e la data. Il termine di trenta giorni è ordinatorio, sicché la sua violazione, eventualmente rilevante in sede disciplinare per il giudice relatore (che, senza giustificato motivo, omette di redigere le motivazioni) o anche per il presidente (che, senza giustificato motivo, omette di apporre la propria sottoscrizione), non produce conseguenze sul piano processuale.

Il dispositivo, sottoscritto dal presidente e depositato in segreteria, assume rilevanza esterna, quale atto di chiusura del procedimento deliberatorio conoscibile dalle parti, ma non integra (né può sostituire) la decisione medesima senza il successivo deposito altresì della motivazione, in uno alle ulteriori indicazioni di legge: trattasi di elementi tutti indispensabili per la sussistenza della sentenza e per la sua attitudine ad incidere sul rapporto dedotto in causa, con la conseguenza che la presenza del solo dispositivo si traduce nell'inesistenza (e non nella semplice nullità) della decisione.

Il comma 2 dell'art. 37 in commento – che si lascia accomunare alla seconda parte del comma 2 dell'art. 133 c.p.c., secondo cui, a seguito delle interpolazioni dovute all'art. 45 d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv., con modif., in l. 11 agosto 2014, n. 114, «il cancelliere ..., entro cinque giorni [dal deposito], mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti che si sono costituite. La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 – prevede che il dispositivo della sentenza sia comunicato alle parti costituite entro 10 giorni dall'avvenuto deposito della sentenza. Anche il termine di 10 giorni è ordinatorio».

La comunicazione del dispositivo della sentenza è eseguita: 1) con posta elettronica certificata (v. art. 16 bis d.lgs.n. 546/1992 e decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 26/04/2012); 2) con avviso della segreteria consegnato a mano o utilizzando la spedizione postale (art. 16, comma 1 d.lgs. n. 546/1992). Tale modalità di comunicazione,  si applicano esclusivamente per le comunicazioni nell'ambito dei processi tributari per i quali non vige l'obbligo della modalità telematica (controversie inferiori ai 3.000 euro). Tuttavia se nel ricorso depositato presso la Commissione tributaria è indicato un indirizzo di posta elettronica certificata, le comunicazioni sono inviate all'indirizzo PEC.   

Nel processo tributario, le variazioni del domicilio eletto o della residenza o della sede, sono efficaci, nei confronti delle controparti costituite, dal decimo giorno successivo a quello in cui sia stata loro notificata la denuncia di variazione. Detto onere è previsto per il domicilio autonomamente eletto dalla parte. Per contro, l'elezione del domicilio operata dalla parte presso lo studio del procuratore ha la mera funzione di indicare la sede dello studio del procuratore medesimo. In questo caso, il difensore domiciliatario non ha, a sua volta, l'onere di comunicare il cambiamento di indirizzo del proprio studio ed è il notificante, per contro, ad avere l'onere di effettuare apposite ricerche per individuare il nuovo luogo di notificazione, ove quello a sua conoscenza sia mutato.

Un ipotesi peculiare è quella della comunicazione del dispositivo delle sentenza effettuata nel domicilio eletto del difensore sospeso dall'esercizio della professione.

Nel giudizio tributario, l'elezione di domicilio è solo eventuale e può essere effettuata presso qualunque soggetto, non necessariamente presso il difensore e laddove effettuata presso quest'ultimo, non viene meno con l'estinzione del rapporto professionale o con la cancellazione dall'albo del domiciliatario. Di talché la notifica dell'avviso di trattazione, ex art. 31, d.lgs n. 546/1992 e la comunicazione del dispositivo della sentenza, ex art. 37, comma 2, d.lgs n. 546/1992, effettuate dalla Segreteria della C.T.R. (come dedotto dalla controricorrente), nel domicilio eletto, conservavano validità ed efficacia anche nel caso di sospensione del difensore dall'esercizio della professione (Cass. VI – 5, ord., n. 14965/2017).

La mancanza nel testo del comma 2 dell'art. 37 in commento della specificazione di cui all'ultima frase introdotta nel comma 2 dell' art. 133 c.p.c. dalla legge n. 114/2014 potrebbe ingenerare il sospetto di una diversità di disciplina del processo tributario rispetto al processo civile ordinario.

Non è così. Infatti vale che, «in tema di impugnazione delle sentenze delle commissioni tributarie, per le quali, ai sensi dell'art. 37 d.lgs. n. 546/1992, “il dispositivo della sentenza è comunicato alle parti costituite entro dieci giorni dal deposito, trova applicazione il termine annuale di impugnazione delle sentenze, previsto in generale dall'art. 327 c.p.c., il quale decorre dalla pubblicazione della sentenza e quindi dal deposito di essa in segreteria, e non già dalla predetta comunicazione, rimanendo tale ultima attività estranea al procedimento di pubblicazione; va al riguardo escluso ogni profilo di contrasto con gli artt. 24 e 3 Cost., poiché — anche alla luce delle indicazioni della sentenza Corte cost. n. 584/1980 — una diversa disciplina del termine in argomento altererebbe il sistema delle impugnazioni, nel quale la decorrenza fissata con riferimento alla pubblicazione è un corollario del principio secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sentenza ad istanza di parte, sicché lo spostamento del dies a quo dalla data di pubblicazione a quella di comunicazione non solo sarebbe contraddittorio con la logica del processo ma restringerebbe irrazionalmente il campo di applicazione del termine lungo di impugnazione alle parti costituite in giudizio, alle quali soltanto la sentenza è comunicata ex officio; quanto al possibile contrasto con l'art. 3 Cost. deve, poi, escludersi che rispetto al termine particolarmente ampio di cui al citato art. 327 possano operare come tertium comparationis termini particolarmente brevi (quali ad es. quelli propri della materia fallimentare: artt. 26, 98 comma 1, e 100, comma 1, l. fall.) il cui decorso, a seguito di declaratoria di incostituzionalità, è legato alla comunicazione, attesa la diversità del provvedimento impugnato e la differente durata dei termini prescritti» [Cass. V, n. 24913/2008; successivamente, esattamente in termini, Cass. V, n. 21164/2009; in senso comunque conforme, tra le tante, Cass. V, n. 12441/2011, secondo cui, «in tema di contenzioso tributario, il termine annuale di cui all'art. 327 c.p.c. per l'impugnazione della sentenza deve essere osservato anche nell'ipotesi in cui alla parte non sia stata comunicata la data dell'udienza di discussione, determinando la mancata comunicazione dell'udienza una nullità della sentenza che si converte in motivo di impugnazione e non potendo tale vizio indurre ignoranza del giudizio in capo al ricorrente»; in senso invece difforme, l'isolata Cass. VI, n. 6048/2013, secondo cui, «n tema di processo tributario, nelle controversie in cui non risulti applicabile l'istituto della rimessione in termini dell'art. 153, comma 2, c.p.c. (introdotto dalle l. 18 giugno 2009, n. 69), il termine lungo per l'impugnazione delle sentenze di cui al primo comma dell'art. 327 c.p.c. decorre, per la parte cui non siano stati debitamente comunicati né l'avviso di trattazione dell'udienza (ex art. 22 del d.lgs. n. 546/1992), né il dispositivo della sentenza (ex art. 37 del d.lgs. cit.), dalla data in cui essa ha avuto conoscenza di tali sentenze”].

Pubblicità

È ritenuto applicabile al processo tributario l'art. 120, comma 1, c.p.c. a mente del quale, «nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, compreso quello derivante per effetto di quanto previsto all'articolo 96, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estratto, ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamente indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet da lui designati».

L'art. 120, comma 1, c.p.c. indica un mezzo di risarcimento in forma specifica, caratterizzato da una forte efficacia riparatoria, tradita dalla capacità di «riparare il danno», ma anche all'occorrenza una pronta efficacia restitutoria, in quanto la pubblicazione della sentenza ha il fine di far sì che la collettività conosca la reintegrazione del diritto dell'offeso.

Lo strumento descritto non va comunque confuso con la pubblicazione della sentenza di condanna prevista, a fronte della commissione di un fatto di reato, dall'art. 186 c.p., che tendenzialmente funge da riparazione parziale di un danno non patrimoniale, ma manifesta altresì un collegamento con l'esigenza di tutelare il superiore interesse alla circolazione di notizie non false: talché – a differenza di quanto avviene nel processo civile ordinario e per estensione in quello tributario – l'ordine di pubblicazione è consentito anche in assenza di uno specifico danno da risarcire.

Apposizione di una doppia data

La questione dell'apposizione di una doppia data alla sentenza comporta conseguenze gravemente problematiche anche sul piano costituzionale. Essa, purtroppo, si è posta frequentemente nel tempo, dando origine ad una copiosa e non univoca giurisprudenza di legittimità, nonostante l'ovvia centralità della data della sentenza ai fini dell'esercizio del diritto di impugnazione (Russo, 1445).

La prima considerazione da svolgere attiene al rilievo che le ripetute pronunce sulla questione – la quale, negli annali di giurisprudenza, appartiene per lo più al processo civile ordinario, ma evidentemente è comune anche a quello tributario – riguardano la diffusissima prassi per cui, in calce alla sentenza, sogliono essere apposte dal cancelliere (nel processo tributario: segretario) due date, individuate rispettivamente come di deposito e di pubblicazione, con un comportamento costituente una patologia procedimentale grave: ancor più grave se si pensa che tutte le pronunce in argomento, pur divergenti tra loro su aspetti tecnici anche non secondari, sono da sempre concordi nello stigmatizzare incondizionatamente tale prassi, che, senza alcun fondamento di legge, introduce dubbi e ambiguità in un momento processuale di massimo rilievo.

Una seconda considerazione attiene alla giustificazione della complessità del quadro giurisprudenziale, che promana dall'esigenza di ricondurre a razionalità ed univocità il sistema con riguardo all'individuazione del momento di perfezionamento dell'esito del giudizio nel grado, cioè del momento

– “nel quale” la sentenza diviene perfetta, esistente, efficace ed irretrattabile e quindi insensibile ai mutamenti legislativi ed alle vicende esistenziali del suo autore

– e “a partire dal quale”, simmetricamente, per le parti, cominciano a decorrere i termini per l'impugnazione.

L'opinione maggioritaria identifica il momento di cui di tratta con il deposito, dal quale, pertanto, cominciano a decorrere i termini per l'impugnazione, trattandosi di un passaggio in cui è determinante l'intervento del giudice, posto che origina dall'estrinsecazione di un'attività volitiva al medesimo riferibile, nel senso di definitivamente allontanare la sentenza dalla propria sfera materiale per consegnarla alla segreteria. Ne deriva che la data in cui il cancelliere-segretario dà atto di detta attività del giudice deve coincidere con quella dell'effettivo deposito, senza che l'eventuale apposizione di una data ulteriore possa giammai incidere su un “fatto” (l'avvenuto deposito) già verificatosi. In particolare, Cass. S.U., n. 13794/2012 (in Corr. mer. 2012, 11, 1018 con nota di Travaglino), con riferimento agli artt. 133 e 327 c.p.c. nella versione ratione temporis vigente, enuncia taluni punti fermi, non tutti confermati nelle elaborazioni successive: le norme che disciplinano il deposito della sentenza attribuiscono al giudice la responsabilità di stabilire il momento di compimento dell'ultima fase dell'attività giurisdizionale di pertinenza e non lasciano al cancelliere-segretario alcuna discrezionalità in ordine al momento in cui darne atto; il procedimento di pubblicazione della sentenza si compie con la certificazione del deposito mediante l'apposizione in calce alla sentenza della data di esso e della firma del cancelliere-segretario; la predetta apposizione di data e firma devono essere entrambe contemporanee alla data di consegna ufficiale della sentenza al cancelliere-segretario da parte del giudice, dovendo perciò escludersi che questi possa attestare che una sentenza, già pubblicata per effetto del suo deposito debitamente certificato, venga pubblicata in una data successiva; conseguentemente, «se sulla sentenza sono apposte due date, delle quali la prima venga indicata come data di deposito (senza indicare che il documento depositato contiene solo la minuta [– anziché l'originale –] della sentenza), tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono da questa data». Dalla lettura coordinata dei vari passaggi della decisione delle Sezioni Unite si deduce che, se, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, è necessario ma anche sufficiente, il mero deposito della sentenza attestato dal cancelliere-segretario, ben potendo ogni ulteriore adempimento intervenire successivamente, non occorre che detto termine cominci a decorrere da quando la parte abbia effettiva possibilità di conoscenza dell'avvenuto deposito, bastando la semplice possibilità di conoscenza, con l'unico correttivo costituito dall'eventualità del ricorso, anche d'ufficio, al rimedio della rimessione in termini, ma solo qualora il giudice dell'impugnazione ravvisi una grave difficoltà per l'esercizio del diritto di difesa determinato dall'avere il cancelliere-segretario non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della successiva data attestante la “pubblicazione” della medesima, avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l'impugnazione.

Ed è proprio nel cono d'ombra proiettato dalla citata decisione che si inserisce Cass. II, n. 26251/2013, la quale, non condividendo l'avviso espresso dalle Sezioni Unite, siccome in tesi frutto di una interpretazione lesiva della pienezza e della certezza del diritto di difesa delle parti costituite, ha ritenuto di non investire nuovamente della questione le medesime Sezioni Unite, ma, assumendo l'interpretazione da queste fornita come «diritto vivente», ne ha invocato una verifica sul piano costituzionale, chiedendo al giudice delle leggi di verificarne la compatibilità con gli artt. 3 e 24 Cost.

La Corte cost., chiamata per l'effetto a pronunciarsi sulla q.l.c. degli artt. 133, commi 1 e 2, e 327, comma 1, c.p.c., nel testo anteriore alla modifica apportata dall'art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009 n. 69, con la sentenza 22 gennaio 2015, n. 3, premesso che una norma può essere dichiarata costituzionalmente illegittima soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme alla Costituzione, ha ritenuto la questione non fondata, tuttavia fornendo la corretta interpretazione da seguire. Osserva la Corte che la separazione temporale dei due passaggi in cui si articola la procedura di pubblicazione della sentenza (deposito da parte del giudice e presa d'atto del cancelliere-segretario), comprovata dall'apposizione di date differenti, costituisce, alla stregua di quanto poc'anzi anticipato, una vera e propria patologia, gravemente incidente sulle situazioni giuridiche degli interessati, giacché riflette il tardivo adempimento, da parte del cancelliere-segretario, delle operazioni previste dalla pertinente disciplina legislativa e regolamentare, in specie quanto all'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico con attribuzione del numero identificativo. Evidenzia poi che solo con il compimento di tutte le operazioni prescritte dalla legge può dirsi realizzata quella pubblicità alla quale è subordinata la titolarità in capo ai potenziali interessati di puntuali situazioni giuridiche, tra cui proceduralmente il potere di prendere visione degli atti giust'appunto pubblicati e di estrarne copia. Conclude, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata del diritto vivente, che «per costituire dies a quo del termine per l'impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere[-segretario] deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzato esclusivamente in corrispondenza di quest'ultima, con la conseguenza che il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende inoperante la dichiarazione dell'intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa». Precisa, ulteriormente, che il ricorso all'istituto della rimessione in termini per causa non imputabile nella conformazione ante legge n. 69/2009 (che pure in situazioni particolari – come sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità – può costituire un utile strumento di chiusura equitativa del sistema) va inteso come doveroso riconoscimento d'ufficio di uno stato di fatto contra legem, il quale, in quanto addebitabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all'impugnazione, riducendone i termini previsti, talvolta anche in misura significativa.

La statuizione di non fondatezza della q.l.c. «nei termini indicati in motivazione» l'interprete all'adozione di una lettura tra l'altro anche dell'art. 37, comma 1, in commento che garantisca la conoscibilità (dell'esistenza) della sentenza e quindi del suo deposito quale dies a quo del termine per impugnare e conseguentemente riconosca la decorrenza di detto termine solo a partire dal compimento delle attività (sostanzialmente di inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze con attribuzione del relativo numero identificativo) idonee ad assicurare la suddetta conoscibilità.

La storia non è finita. Poco tempo dopo, Cass. S.U., n. 18569/2016 (in Corr. Giur., 2017, 1, 75, con nota di Auletta, La «sciagurata consuetudine di apporre una doppia data in calce alle sentenze civili»: dalle Sezioni Unite cure peggiori del male) sono tornate nuovamente sul tema, ribadendo, in primo luogo, che la pubblicazione della sentenza non è un posterius o comunque un'attività diversa dal deposito, ma si identifica con esso, atteso che il deposito è anzi l'atto per mezzo del quale la sentenza è resa pubblica, talché non può neppure ipotizzarsi una pubblicazione come attività meramente autonoma del cancelliere-segretario diversa e successiva rispetto a quella di deposito; in secondo luogo, che, ai fini della pubblicazione, non è però necessario che dell'avvenuto deposito si dia notizia alle parti costituite, essendo tale attività espressamente prevista come ulteriore rispetto alla pubblicazione mediante deposito, tant'è che deve intervenire dopo di essa, entro un termine all'evidenza ordinatorio; in terzo luogo, che l'identificazione del deposito come atto attraverso il quale si realizza la pubblicazione ed a partire dal quale si determina la decorrenza dei termini di impugnazione e di quelli, speculari, di formazione del giudicato è funzionale alla necessità che tali conseguenze siano collegabili ad un momento di estrinsecazione della volizione del giudice, il quale, ritenuta la sentenza completa, la rende definitiva ed irretrattabile con il deposito (ipotesi, questa, da non confondere con quella, peraltro ormai del tutto residuale, di mero deposito in minuta, diversamente regolamentata).

In definitiva, «il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione. Qualora, peraltro, tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, il giudice deve accertare — attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all'impugnante provare la tempestività della propria impugnazione — quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo».

Correzione degli errori materiali

Il procedimento di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., ammesso nel processo tributario, ex art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, è diretto non a decidere una controversia bensì solo ad eliminare un errore commesso nell'esposizione di quanto deciso, senza investire il processo formativo del convincimento del giudice. La sentenza, una volta corretta, resta del tutto inalterata nella sua portata precettiva; l'istituto della correzione della sentenza non comprende, infatti, il vizio della volontà del giudice, gli errori di giudizio e gli errori nella formazione del giudizio (Turchi, 601; Ferrari, 1390).

Occorre distinguere tra i diversi errori (Lucariello).

L'errore materiale è quello che interviene, non nella formazione del giudizio, ma nella semplice estrinsecazione del testo della sentenza (si pensi al caso elementare in cui nell'intestazione è trascritto il solo cognome di un membro del collegio). Esso non dà luogo a nullità, ma è emendabile con il procedimento di correzione, rispetto al quale emerge la natura non impugnatoria.

L'errore materiale si distingue dall'errore di fatto, che – ai sensi dell'art. 395, n. 4), c.p.c. (secondo cui «le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione ... 4) se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare») – provoca l'impugnazione per revocazione e si risolve in una divergenza tra ciò che risulta dalla sentenza e la realtà processuale. Mentre l'errore materiale, come già accennato, non importa nullità della sentenza e può essere corretto in ogni tempo l'errore revocatorio, che affligge la sentenza come vizio, può essere fatto valere esclusivamente entro gli stretti tempi previsti per la revocazione, in difetto della cui introduzione il giudicato stabilizza la sentenza indipendentemente dal vizio stesso.

Gli errori emendabili con il procedimento di correzione non riguardano la sostanza del giudizio, ma consistono in una divergenza fortuita tra l'idea e la rappresentazione, in una mera disattenzione o in una svista nella redazione della sentenza rilevabile ictu oculi. La necessità o l'opportunità di un'indagine sulla volontà del giudice di per se stesse escludono la materialità.

Il procedimento di correzione richiede l'istanza di parte, non essendo ammissibile una correzione d'ufficio. Legittimate sono tutte le parti, anche quelle a cui vantaggio si rivolgono l'errore o l'omissione materiale. L'istanza va proposta allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza da correggere. Sembra di potersi aderire all'opinione prevalente per cui sono correggibili anche le sentenze delle commissioni tributarie provinciali non appellate ma ancora appellabili; peraltro, una volta proposto l'atto d'appello, contenente (anche) l'istanza di correzione, spetta alla commissione tributaria regionale esaminare il punto della correzione della sentenza di primo grado prima dell'esame dell'impugnazione vera e propria, che, viceversa, è rivolta alla riforma in sé della decisione; una volta proposto l'appello, la correzione non è più ammissibile dinanzi alla commissione tributaria provinciale, in quanto pienamente assorbita dall'appello, il quale, come mezzo di critica della sentenza, copre ogni errore in cui è caduto il primo giudice, rientrando l'eventuale correzione nei compiti di revisione generalmente devoluti con l'impugnazione, ma nei limiti di essa, al giudice del gravame. È ammissibile la correzione della sentenza della commissione tributaria regionale da parte della stessa.

La Corte di Cassazione non può correggere gli errori materiali contenuti nella gravata sentenza di merito, essendo giudice di legittimità; nell'ipotesi di ricorso per cassazione la richiesta di correzione va presentata al giudice a quo (ribadisce infatti Cass. III, n. 10289/2001, che «la speciale disciplina dettata dagli artt. 287 e ss. c.p.c. per la correzione degli errori materiali incidenti sulla sentenza, la quale attribuisce la competenza all'emanazione del provvedimento correttivo allo stesso giudice che ha emesso la decisione da correggere, mentre non è applicabile quando contro la decisione stessa sia già stato proposto appello dinanzi al giudice di merito, in quanto l'impugnazione assorbe anche la correzione di errori, è invece da osservarsi rispetto alle decisioni impugnate con ricorso per cassazione, perché il giudizio relativo a tale ultima impugnazione è di mera legittimità e la Corte di Cassazione non può correggere errori materiali contenuti nella sentenza del giudice di merito, al quale va, pertanto, rivolta l'istanza di correzione, anche dopo la presentazione del ricorso per cassazione).

Nell'ipotesi di accordo delle parti in merito all'istanza, il presidente della commissione tributaria, o su sua delega il presidente di sezione ovvero ancora il presidente di collegio, provvede con decreto, che non va notificato alle parti stesse, ma deve essere annotato in calce all'originale della sentenza. Se non c'è accordo delle parti, è necessaria l'instaurazione del contraddittorio e sull'istanza il collegio provvede con ordinanza, che va notificata alle parti stesse e deve come d'ordinario essere annotata in calce all'originale della sentenza.

Il provvedimento di correzione ha natura sostanzialmente amministrativa e carattere ordinatorio: pertanto ne è ammissibile la revocabilità e la modificabilità. Finanche l'ordinanza che dispone la correzione di una sentenza conserva siffatta natura sostanzialmente amministrativa e comunque non decisoria, talché non è di per se stessa impugnabile; resta però ferma la facoltà di impugnare la sentenza corretta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 288, ultimo comma, e 325 c.p.c., con decorrenza dei termini dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione. Invero – come riconosciuto dalla S.C. – la correzione comporta una riammissione in termine della parte che ne soffre pregiudizio per l'impugnazione; nondimeno, la riapertura del termine o la rimessione in termine per l'impugnazione è limitata ai casi in cui il procedimento di correzione riveli nei riguardi della parte soccombente errores in iudicando o in procedendo intrinseci alle statuizioni e rimasti latenti prima della correzione stessa (Cass. II, n. 192/1999). Conseguentemente nessuna rimessione in termine si verifica quanto la correzione assume il carattere di una semplice rettifica, che non altera il contenuto logico-giuridico della sentenza, non potendo una rinnovata impugnabilità realizzare un'inammissibile estensione del potere d'impugnazione avverso una sentenza ormai passata in giudicato. Va da sé, nondimeno, che la previsione di impugnabilità della sentenza corretta mira altresì a verificare che di converso nel caso concreto non sia stato violato il giudicato ormai formatosi attraverso l'utilizzo del procedimento di correzione per incidere su errori di giudizio.

Pubblicazione e ius superveniens: il principio del favor rei

Rispetto al regime di “stabilità” della sentenza, con specifico riferimento al tema delle sanzioni, il cui proprium è caratterizzato da un'afflittività che le avvicina alla pena, rileva la quaestio intorno alla possibilità che le stesse siano applicate retroattivamente. Invero le sanzioni tributarie hanno natura amministrativa, con la conseguenza che, rispetto ad esse, non trova applicazione la disposizione di cui all'art. 25, comma 2, Cost., la quale sancisce l'irretroattività della sola sanzione penale. I principi penalistici sono recuperati alla materia del diritto tributario per il tramite del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il cui art. 3, infatti, prevede che «nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione» (comma 1); «salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato» (comma 2); «se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo» (comma 3).

Quanto specificamente al comma 3, si ritiene che lo stesso «fiss[i] una regola di diritto intertemporale e, appunto per questo, postul[i] che sia entrata in vigore la disposizione successiva, che modifica o abroga quella precedente .... Il diritto intertemporale, in generale, designa il complesso delle norme e dei principi che regolano la successione delle leggi nel tempo e va a dirimere il relativo conflitto, mediante l'individuazione della norma concretamente applicabile alla fattispecie; la regola di diritto intertemporale stabilita dal d.lgs. n. 472/1997, art. 3, comma 3, in particolare, comporta che, qualora una norma sanzionatoria più favorevole faccia seguito ad una meno favorevole, si debba applicare quella più favorevole, anche se successiva al compimento del fatto» (da ultimo Cass. V, n. 9670/2017). La norma sopravvenuta più favorevole, purché non si sia cristallizzata la definitività del provvedimento sanzionatorio, esige di essere applicata, eventualmente d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, anche nel giudizio di legittimità (Cass. V, n. 4408/2001; Cass. V, n. 1945/2001, con nota di Lippi, 411)

Fermo quanto precede, una differenza profonda permane tra diritto penale e diritto tributario: infatti, mentre quanto al primo, il principio del favor rei ha rilievo costituzionale e, quindi, non è derogabile dal legislatore ordinario, quanto al secondo, la legge ordinaria è svincolata da alcuna prescrizione costituzionale espressa, per quanto un'eventuale deroga del principio debba comunque essere improntata a ragionevolezza.

Nel senso attenuato cui da ultimo si è accennato deve dunque intendersi l'affermazione per cui, al di fuori dei confini del diritto penale, il principio del favor rei assume rilievo costituzionale, non in via diretta, ma indiretta: esso, secondo quanto stabilito da Corte cost. 20 maggio 1980, n. 74, può subire limitazioni e deroghe da parte del legislatore ordinario, purché, però, le medesime siano giustificabili alla luce della necessità di salvaguardare principi di rilievo costituzionale degni di forme di tutela quantomeno equivalenti alle forme di tutela di cui godono i diritti, in varie guise fondamentali, dell'individuo.

Lo scandaglio dell'incidenza delle prospettive che ne occupano sul regime di venuta a giuridica esistenza della sentenza chiama in causa prioritariamente l'individuazione del termine oltre il quale il principio del favor rei, ovvero la giustificata statuizione limitativa o derogatoria dello stesso, è destinato a non operare più. Detto termine è facilmente individuabile, quanto al giudizio considerato nel suo complesso, nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che decide la controversia; quanto ai singoli gradi di giudizio, nel momento della pubblicazione della sentenza che, a prescindere dall'impugnazione, conclude il grado.

Ciò corrisponde all'ovvia considerazione a termini della quale, oltre la barriera temporale della pubblicazione della sentenza, il giudice non può più rimettere in discussione la decisione in essa rassegnata né a fortiori rielaborarla per tener conto dello ius superveniens; di converso, però, fino al momento della pubblicazione della sentenza, il giudice ha il dovere di applicare lo ius superveniens, per tale dovendosi intendere anche eventuali pronunce d'incostituzionalità nel frattempo pubblicate (Buscema, 5; Andrioli, 241).

L’art. 37 applicabile ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato dopo al 1° settembre 2024. La riscrittura dell'art.37

L'art. 1, comma 1, lett. r), nn. 1), 2) e 3), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, recante “Disposizioni in materia di contenzioso tributario”, in attuazione della l. n. 111/2023 (recante delega per la riforma fiscale), è intervenuto sulla disciplina prevista dall'articolo 37 in commento, in cui si prevede, al comma 1, che la sentenza è depositata nella segreteria della corte, mentre il comma 2 stabilisce i termini di comunicazione del dispositivo della sentenza. La legislazione attuale prescrive che la sentenza sia depositata entro trenta giorni dalla deliberazione e che la comunicazione alle parti da parte della segreteria della corte del deposito avvenga entro dieci giorni.

La novella legislativa, in attuazione del criterio direttivo di cui all'articolo 19, comma 1, lettera e), l. n. 111/2023 in tema di pubblicazione e comunicazione alle parti del dispositivo dei provvedimenti giurisdizionali di oltre che del criterio direttivo cui all'articolo 19, comma 1, lettera b) (ampliare e potenziare l'informatizzazione della giustizia tributaria), n. 1), 2) e 3), prevede il deposito telematico della sentenza nonché l'apposizione sulla stessa della firma digitale da parte del segretario il quale provvede a dare successiva comunicazione alle parti costituite entro tre giorni dal deposito medesimo. Viene, poi, abrogato l'attuale secondo comma dell'art. 37.

All'esito di tali modifiche, il nuovo testo dell'art. 37 è il seguente: “1. La sentenza è resa pubblica, nel testo integrale originale, mediante deposito telematico nella segreteria della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado entro trenta giorni dalla data della deliberazione. Il segretario fa risultare l'avvenuto deposito della sentenza apponendovi la propria firma digitale e la data, dandone comunicazione alle parti costituite entro tre giorni dal deposito.”.

Ai sensi di quanto disposto dall'art. 4, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 220/2023, le modifiche suddette si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024.

Bibliografia

Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 241; Auletta, La «sciagurata consuetudine di apporre una doppia data in calce alle sentenze civili»: dalle Sezioni Unite cure peggiori del male, in Corr. giur. 2017, 1, 75; Buscema, Il favor rei è applicabile d'ufficio dal giudice tributario, in Cont. e proc. trib. 2008, 2, 5; Ferrari, Alcune considerazioni in tema di correzione della sentenza, in Giur. it., 2003, 7, 1390 Glendi, Commento alla Circolare dell'Agenzia delle Entrate del 31-03-2010, n. 17/E, in Corr. trib. 2010, 2571; Lippi, Brevi osservazioni in tema di jus superveniens, abolizione di sanzioni e favor rei, in Riv. dir. trib. 2001, II, 5, 411; Lucariello, Ultimi orientamenti sulla correzione delle sentenze delle commissioni tributarie, in Cont. e proc. trib. 23 febbraio 2008; Travaglino, Pubblicazione della sentenza e attività certificativa del cancelliere, in Corr. mer., 2012, 11, 1018; Turchi, L'errore del giudice tributario tra correzione e revocazione della sentenza, in Giur. it. 2014, 3, 601.

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