Legge - 27/07/2000 - n. 212 art. 10 - Tutela dell'affidamento e della buona fede. Errori del contribuente (A).Tutela dell'affidamento e della buona fede. Errori del contribuente (A). 1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede. 2. Non sono irrogate sanzioni nè richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria, ancorchè successivamente modificate dall'amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'amministrazione stessa. Limitatamente ai tributi unionali, non sono altresì dovuti i tributi nel caso in cui gli orientamenti interpretativi dell'amministrazione finanziaria, conformi alla giurisprudenza unionale ovvero ad atti delle istituzioni unionali e che hanno indotto un legittimo affidamento nel contribuente, vengono successivamente modificati per effetto di un mutamento della predetta giurisprudenza o dei predetti atti 1. 3. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto 2. --------------- (A) In riferimento al presente articolo vedi: Risoluzione del Ministero dell'Economia e delle Finanze 23 giugno 2014, n. 1/DF. [1] Comma modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera l), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219. Per l'applicazione vedi l'articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 219/2023 medesimo. [2] Comma modificato dall'articolo 1 del D.L. 17 giugno 2005, n. 106. InquadramentoOltre al richiamo esplicito agli artt. 3,23 e 53 Cost., lo Statuto dei diritti del contribuente fa riferimento anche all'art. 97, per il quale «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione». La giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. sez. trib., n. 3559/2009) ha affermato che «l'Amministrazione finanziaria non è un qualsiasi soggetto giuridico, ma è una pubblica amministrazione. Tale veste, come le attribuisce speciali diritti funzionali che assicurino nella maniera più ampia e spedita il perseguimento delle sue finalità nell'interesse collettivo, così, per la stessa ragione, la obbliga all'osservanza di particolari doveri prima fra tutti quelli dell'imparzialità espressamente sancito dall'art. 97 della Costituzione». Quindi, il principio del legittimo affidamento del cittadino nell'operato della pubblica amministrazione è mutuato da quelli civilistici della buona fede e dell'affidamento incolpevole nei rapporti fondati sulla autonomia privata, ed è implicito in tutti i rapporti di diritto pubblico e, quindi, anche in quelli tributari, essendo espressione di principi generali di rango costituzionale. L'attività legislativa nonché quella amministrativa e dunque quella tributaria, trovano in tale principio la chiave interpretativa dei rapporti tra cittadino e fisco. I commi 2 e 3 della norma sono in sostanza anche un corollario del principio generale sopra richiamato e che recentemente si sta trasformando nell'invocazione di una compliance sistematica nei rapporti fra soggetto impositore e contribuente, affermandosi il principio che non possono applicarsi sanzioni quando il contribuente si è contenuto secondo buona fede obbedendo agli indirizzi ed alle indicazioni dell'amministrazione e quando – anche fuori del caso precedente – si verta in condizioni di tale oggettiva incertezza nell'applicazione delle norme tributarie che è possibile commettere un errore scusabile. Il principio di buona fede e le obiettive condizioni d'incertezzaI concetti di buona fede e di affidamento, seppure intimamente collegati tra loro, non sono da considerarsi sovrapponibili fino ad essere omologhi. Per affidamento, infatti, si intende lo stato psicologico di chi ha fiducia in qualcosa o in qualcuno. L'espressione buona fede, invece, può essere intesa sia in senso soggettivo che oggettivo. Può, quindi, indicare: · lo stato psicologico di chi ritiene di avere agito secondo diritto (c.d. buona fede soggettiva); · una regola di correttezza che impone condotte leali, non capziose e, in particolare, di non tradire le aspettative ingenerate in altri quale conseguenza di un proprio comportamento (c.d. buona fede oggettiva). La norma enuclea un principio a carattere generale, nonché le applicazioni che lo stesso può avere, avuto riguardo a delle modalità operative che possono essere individuate attraverso: · la codificazione della tutela dell'affidamento (art. 10, comma 2 della l. n. 212/2000), con previsione del divieto di irrogare sanzioni e pretendere interessi moratori dal contribuente qualora lo stesso abbia posto in essere comportamenti indotti dall'Amministrazione finanziaria; · la limitazione, rispetto ai tributi unionali, i quali non sono dovuti nel caso in cui gli orientamenti interpretativi dell'amministrazione finanziaria, conformi alla giurisprudenza unionale ovvero ad atti delle istituzioni unionali e che hanno indotto un legittimo affidamento nel contribuente, vengano successivamente modificati per effetto di un mutamento della predetta giurisprudenza o dei predetti atti (art. 10, comma 2, ultimo periodo, aggiunto dall'dall'art. 1, comma 1, lett. l), d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 219, in attuazione della l. n. 111 del 2023 di delega per la riforma fiscale, che, all'art. 4, comma 1, lettera b), prevede espressamente, quale principio direttivo, di valorizzare il principio del legittimo affidamento del contribuente e il principio di certezza del diritto); · la conferma della regola, già presente altrove nell'ordinamento (cfr. art. 8 del d.lgs. n. 546/1992 e art. 6 comma 2 del d.lgs. n. 472/1997), secondo la quale le sanzioni non sono irrogate se la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza. L'articolo in commento è fra i più utilizzati dalla Suprema Corte e dalle Corti di merito per dirimere delicate vicende tributarie, in cui oltre all'indagine sullo stretto merito tributario si devono prendere in considerazione elementi che attengono alla volizione e all'elemento soggettivo in cui l'interpretazione e l'applicazione della disposizione tributaria si inquadrano. La Corte di legittimità non si è limitata ad affermare che «in sede di interpretazione ed applicazione delle norme tributarie (anche anteriormente vigenti) il giudice deve fare riferimento allo Statuto e risolvere eventuali dubbi ermeneutici nel senso più conforme ai principi dallo stesso espressi» (Cass. sez. trib., n. 9407/2005), ma applica la disposizione concretamente e coordinatamente agli altri precetti scaturenti dallo Statuto nella nuova ottica a cui vengono ricondotti i rapporti tra fisco e contribuente. La Corte ha rinvenuto «un nuovo assetto dei rapporti tra amministrazione e contribuente, ispirato essenzialmente a principi di collaborazione, di cooperazione e di buona fede, che permeano tutto il tessuto normativo dello Statuto e che, se pur non sono in grado, in linea di principio, di produrre veri e propri obblighi a carico dell'amministrazione anteriormente all'entrata in vigore della legge, costituiscono, tuttavia, come si è detto, criteri guida per orientare l'interprete nell'esegesi delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti». Come già esposto, in coordinazione con i principi di collaborazione e di buona fede si colloca il disposto del 3° comma dell'art. 10 secondo il quale «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta»; «in ogni caso, soggiunge lo stesso comma, non determina obiettive condizioni di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria». Con riferimento alle diverse disposizioni che sanciscono la non debenza delle sanzioni amministrative per «obiettive condizioni di incertezza» (l'art. 8 del d.lgs. n. 546/ 1992, l'art. 6 del d.lgs. n. 472/1997 e lo stesso art. 10 dello Statuto), la Corte di Cassazione (ex multis Cass. sez. trib., n. 24670/2007) ha anche individuato le «obiettive condizioni di incertezza», alla luce dei «sintomi» dell'incertezza normativa quali, ad esempio: 1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative, dovuta al difetto di esplicite previsioni di legge; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) la mancanza di una prassi amministrativa o l'adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti: 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l'adozione di norme d'interpretazione autentica. Quindi le obiettive condizioni di incertezza sono una esimente, vale a dire una causa di non punibilità oggettiva, che prescinde da qualsiasi valutazione sulla colpevolezza o sulla redarguibilità del contribuente e che impediscono l'applicazione delle sanzioni; «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipenda da incertezza normativa oggettiva tributaria, cioè dal risultato equivoco dell'interpretazione delle norme tributarie accertato dal giudice anche di legittimità» (Cass. n. 24670/2007). Dell'incertezza normativa deve dare prova il contribuente: «l'onere di allegare la ricorrenza di siffatti elementi di confusione, se esistenti, grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d'ufficio l'applicabilità dell'esimente, né, per conseguenza, che sia ammissibile una censura avente ad oggetto la mancata pronuncia d'ufficio sul punto». L'esenzione dalla responsabilità amministrativa «postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l'insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento dell'interpretazione normativa riferibile non già ad un generico contribuente o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all'ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell'ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione» (Cass. sez. trib., n. 14897/2009). La Cass. V, n. 4685/2012: «in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, per incertezza normativa obiettiva, quale causa di esenzione del contribuente da responsabilità, deve intendersi la situazione che si crea per effetto dell'azione di tutti i formanti del diritto, tra i quali, in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione delle norme, il cui accertamento è rimesso all'esclusiva valutazione del giudice. Ne consegue che detta incertezza è ravvisabile, allorché risultino difficoltà di individuazione delle disposizioni normative dovute al difetto di esplicite previsioni di legge, ovvero oscurità o ambiguità del testo normativo». (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che aveva affermato la sussistenza di una situazione di incertezza normativa obiettiva in tema di IVA dovuta per la vendita di un terreno edificabile effettuata nel 1997 da parte di società che, nel medesimo anno, non aveva svolto attività agricola, attesa la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative applicabili «ratione temporis»). Le pronunce della giurisprudenza di legittimità si sono susseguite fino a giungere a Cass. S.U., n. 19667/2014, la quale dalla necessità di collaborazione inferisce anche quella del c.d. contraddittorio endoprocedimentale, a sua volta parametro di legalità dell'azione amministrativa tributaria: «Dal complesso di norme recate dagli artt. 5,6,7,10, primo comma, e 12, secondo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), la cui precipua funzione è quella di improntare l'attività dell'Amministrazione finanziaria alle regole dell'efficienza e della trasparenza, nonché quella di assicurare l'effettività della tutela del contribuente nella fase del procedimento tributario, emerge chiaramente che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una «decisione partecipata» mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra l'Amministrazione finanziaria e il contribuente (anche) nella fase precontenziosa o endoprocedimentale, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili, atteso che il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell'emanazione di questo, realizza l'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento della pubblica Amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost.» Degna di nota anche la recente Cass. V, n. 12636/2017, sempre in termini: «Il legittimo affidamento del contribuente comporta, ai sensi dell'art. 10, commi 1 e 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l'esclusione degli aspetti sanzionatori risarcitori ed accessori conseguenti all'inadempimento colpevole dell'obbligazione tributaria, ma non incide sulla debenza del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni manifestate dalle parti del rapporto fiscale, dipendendo esclusivamente dall'obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi. Le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscono fonte di diritti ed obblighi e, pertanto, qualora il contribuente si sia conformato ad una interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione Finanziarla, è esclusa soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall'adempimento dell'obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell'affidamento, espressamente sancito dall'art. 10, comma 2 della legge 27 luglio 2000, n. 212.» Distingue esattamente fra esenzione dalle sanzioni ed esenzione (non consentita, specie se si discorre di applicazione di circolari e non di norme primarie aventi forza di legge) dai tributi Cass. V, n. 12635/2017 : «Le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscono fonte di diritti ed obblighi e, pertanto, qualora il contribuente si sia conformato ad un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione finanziaria, è esclusa soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall'adempimento dell'obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell'affidamento, espressamente sancito dall'art. 10, comma 2, della legge n. 212 del 2000.» La Corte di Cassazione di recente sta assumendo una serie di posizioni che, seppur in linea con i principi generali sopra richiamati, cerca anche di ricondurli ad un sistema casistico regolato; si vedano ad esempio Cass. VI, ord., n. 8981/2017, secondo cui «In tema di sanzioni tributarie, la violazione ha carattere meramente formale per cui non è punibile ai sensi dell'art. 10 dello Statuto del contribuente ove essa non comporti un pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo e, al contempo, non incida sulla determinazione della base imponibile dell'imposta e sul versamento del tributo.», Cass. V, n. 5105/2017, «Nell'ordinamento tributario l'errore scusabile, da intendersi quale incertezza normativa oggettiva, costituisce espressione del principio di collaborazione e di buona fede al quale sono improntati i rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria ed è riferibile esclusivamente agli istituti sanzionatori, restando, invece, sempre dovuto il tributo, né può essere invocato per giustificare l'errore sulla scadenza di un termine decadenziale per potersi avvalere di un istituto clemenziale (nella specie il condono di cui all'art. 9-bis della l. n. 289 del 2002)», Cass. V ord., n. 12304/2017 «In tema di ICI, qualora l'immobile sia adibito a negozio o bottega direttamente dal soggetto passivo dell'imposta, ed il comune, con apposito regolamento, abbia stabilito, per tali casi, il diritto a fruire di aliquota agevolata (nei limiti di quanto previsto dall'art. 6 del d.lgs. n. 504 del 1992) ove il contribuente presenti una dichiarazione attestante la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi per il godimento dell'agevolazione, essa spetta comunque al contribuente ancorché questi non abbia presentato la suddetta dichiarazione, poiché, tenuto conto del principio di collaborazione e buona fede che deve improntare i rapporti tra ente impositore e contribuente — sancito dall'art. 10, comma 1, della l. n. 212 del 2000 (cd. Statuto del contribuente), di cui costituisce espressione la previsione dell'art. 6, comma 4, della stessa legge — a quest'ultimo non può essere chiesta la prova di fatti già documentalmente noti al comune.» In conclusione l'amministrazione non può, sempre in esercizio della regola della collaborazione, negare un diritto che spetta al contribuente per i dati di cui essa già dispone, né può al riguardo invocare decadenze. Secondo Corrado, (op. cit.), la non perfetta corrispondenza tra littera e ratio legis costituisce la punta di grimaldello che permette al contribuente di aggirare la fattispecie legale: l'elusione è quindi l'effetto di due concause, l'una imputabile al Legislatore (la violazione dell'onere di formulare norme in modo coerente con il loro spirito, l'altra al contribuente (la violazione del dovere di individuare e salvaguardare lo spirito della norma). Poiché i principi di buona fede, ragionevolezza e proporzionalità impongono che ciascuno si attivi «ragionevolmente, nell'esercizio dei suoi doveri e poteri, e nel limite del sacrificio accettabile per preservare le ragioni dell'altra parte», si configura una ipotesi di concorso di colpa che impedisce l'applicazione della sanzione (lato sensu) a carico di un solo soggetto (il contribuente). Il dovere di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, ricompreso tra quelli inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale ex art. 2 Cost., impone la corresponsione del tributo sulla fattispecie elusa, ma «sembra precluso affermare che tale dovere di solidarietà implichi anche il dovere di «integrare» contra se delle disposizioni di legge, in contrasto con il loro significato, con effetti sanzionatori di tipo punitivo in caso di inadempimento». «In conclusione, la inconfigurabilità e la inesigibilità del dovere del contribuente di adeguarsi alla fattispecie elusa precludono la sanzionabilità amministrativa della condotta; queste argomentazioni valgono a fortiori ratione qualora la ripresa a tassazione scaturisca dall'applicazione di un principio generale antielusivo di elaborazione pretoria, nato dal travisamento della giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all'abuso del diritto comunitario e privo di un fondamento normativo interno.». Una sorta, in sostanza, di concorrente responsabilità fra erario e contribuente, al quale non si può chiedere altro rispetto al puro pagamento del dovuto, senza sanzioni: in verità, anche senza ricorrere a questo schema, può ben dirsi che ove sia la P.A. — sia per condotta propria, ma anche putativamente, come nel caso non sempre totalmente oggettivo di incertezza normativa — a dara causa ad un affidamento del contribuente la causa di giustificazione della sua condotta diviene causa di non punibilità in riferimento alla sanzione. Si vedano anche Cass. V, n. 23845/2016: «In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l'incertezza normativa oggettiva che, ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell'art. 6, comma 2 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e dell'art. 10, comma 3 della l. 27 luglio 2000, n. 212, costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, richiede una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l'insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento di interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale sono capaci di interpretazione normativa qualificata, e tantomeno all'Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell'ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione.», Cass. V, n. 8326/2016 «In tema di violazioni tributarie, l'art. 6, comma 5-bis del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, ha definito la nozione di «mera violazione formale» non punibile ai sensi dell'art. 10, comma 3 .della l. 27 luglio 2000, n. 212, stabilendo che essa sussiste allorché la violazione sia priva di incidenza sulla determinazione della base imponibile dell'imposta e sul versamento del tributo e sia inidonea ad arrecare pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo. Tali requisiti, peraltro, devono ricorrere congiuntamente ai fini della non sanzionabilità delle violazioni meramente formali.», Cass. V, n. 2605/2016 «Il ritardo nella fatturazione integra una violazione sostanziale e non formale dell'art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto arreca pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo, di talché è punibile anche quando non determina omesso versamento dell'IVA. La violazione, invero, ha carattere meramente formale ed è, pertanto, non punibile ex art. 10 della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente) solo qualora non comporta un pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo e, nel contempo, non incide sul versamento del tributo.» e Cass. V, n. 15294/2015 «La disapplicazione, da parte del giudice, delle sanzioni per violazioni di norme tributarie, ai sensi degli artt. 8 d.lgs. n. 546 del 1992, 6, comma 2, d.lgs. n. 472 del 1997 e 10, comma 3, l. n. 212 del 2000, qualora accerti che le stesse sono state commesse in presenza ed in connessione con una situazione di oggettiva incertezza nell'interpretazione normativa da riferire non al contribuente, né all'Ufficio, bensì al giudice stesso è possibile, anche in sede di legittimità, solo se domandata dal contribuente nei modi e nei termini processuali appropriati, cioè, secondo i principi generali in tema di processo tributario, sin dal ricorso introduttivo.». Ricaviamo da queste massime anche altri principi utili: il contribuente deve tenere comunque una condotta qualificabile di buona fede e non lesiva, cioè che non incida sulla determinazione del dovuto e non arrechi pregiudizio (mediante reticenze e asserzioni non vere) all'esercizio delle funzioni di controllo e, non meno rilevante, affinché al Giudice – persino in sede di legittimità – sia consentita la disapplicazione delle sanzioni occorre che essa, secondo gli ordinari principi processuali, sia stata chiesta ritualmente nel ricorso introduttivo della lite tributaria, in quanto l'officiosità discrezionale della decisione non supera tuttavia il principio che il giudice anche tributario decide secondo la domanda che viene proposta e iuxta alligata et probata. (non si dimentichi che è il contribuente/ricorrente a dover dare la prova anche dell'esistenza della causa di non sanzionabilità). 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