Scissione societaria e conseguenze penali: la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
02 Marzo 2018
Massima
In tema di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, anche una singola operazione di scissione societaria può essere idonea, se valutata in relazione non soltanto al momento in cui l'atto di scissione viene posto in essere, ma anche in relazione alle vicende successive alla scissione, a costituire quell'atto negoziale fraudolento e/o simulato idoneo ad integrare il reato in questione. Il caso
Nel corso di un procedimento penale per violazione dell'art. 11, D.lgs. n. 74/2000, si accertava che una società, debitrice nei confronti dell'erario di somme considerevoli, aveva posto in essere un atto di scissione parziale con costituzione di una nuova società interamente riferibile ai primi soci; a seguito della scissione, il patrimonio netto contabile della persona giuridica scissa risultava essersi ridotto di €. 2.215.000,00 ed in particolare i cespiti trasferiti mediante il predetto atto di cessione risultavano essere tutti i crediti non commerciali, un maxi-canone relativo a locazione finanziaria, un debito non precisato e tre fabbricati. Il pubblico ministero riteneva che tale operazione straordinaria non avesse alcuna ragione economica ma fosse stata posta in essere al solo fine di sottrarre risorse alle procedure di riscossione, ossia di sottrarsi alle obbligazioni riferibili alla società scissa. Questa valutazione tuttavia non era condivisa né dal giudice delle indagini preliminari né dal Tribunale del riesame i quali rigettavano l'istanza di sequestro preventivo avanzata dall'accusa sostenendo che un atto di scissione societaria non possa integrare il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ostandovi la previsione dell'art. 2506-quater, ultimo comma, c.c. in base al quale "ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico". Il pubblico ministero ricorreva in cassazione, lamentando in diritto come le conclusioni dei giudici di merito fossero in contrasto con plurime decisioni della Corte di legittimità secondo cui l'operazione di scissione societaria è idonea ad integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e non potendo l'applicazione delle norme penali paralizzata dall'astratta previsione legislativa di responsabilità patrimoniali anche nel caso in cui l'adempimento dei conseguenti obblighi civilistici avrebbe l'effetto di eliminare il danno provocato dal reato, dovendo la valutazione in ordine alla sussistenza del reato dev'essere svolta in concreto, tenendo conto delle circostanze di fatto che possono aver rilievo rispetto alla qualificazione della predetta operazioni di scissione come atto fraudolento e circa la sua idoneità a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva. Inoltre, il pubblico ministero lamentava che i giudici non avessero tenuto in considerazione alcuni profili della vicenda ed in particolare che gli indagati, dopo la scissione, agendo quali soci o amministratori della società originata da tale operazione straordinaria, avessero ulteriormente cercato, con nuove operazioni di scissione e conferimento, cercato di sottrarsi al pagamento delle imposte, impedendo così il concreto operare dell'art. 2506-quater c.c. La questione
L'art. 11 D.lgs. n. 74/2000 punisce il contribuente il quale “al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte appartiene, per così dire, al nucleo storico più remoto del diritto penale tributario, essendo la relativa condotta punita già dall'art. 97, comma 6 del d.P.R. n. 602/1973. Tale disposizione rimase, tuttavia, sostanzialmente disapplicata in ragione della elevata complessità strutturale di una fattispecie che da un lato trascurava tutte quelle condotte poste in essere dal contribuente prima dell'esecuzione di attività di accertamento e comunque prima della notifica di inviti e richieste dell'Amministrazione finanziaria, e dall'altro subordinava la rilevanza penale del fatto alla riscontrata inefficacia, anche parziale, della procedura esecutiva. Queste considerazioni hanno portato il legislatore a modificare la disciplina eliminando quegli aspetti della precedente regolamentazione che avevano contribuito a limitare fortemente la capacità di presa dell'incriminazione, affidando la ragion d'essere dell'illecito alla idoneità della condotta fraudolenta a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva: si spiega così la scomparsa, nella struttura della disposizione, dell'evento di danno e della necessaria già avvenuta attivazione dell'Amministrazione finanziaria ed il collocamento dell'illecito in discorso in una dimensione di reato di pericolo concreto (sulla nuova disposizione, non modificata in sede di riforma del 2015, ROMANO, Il delitto di sottrazione fraudolenta di imposte (art. 11 d.lg. 74/2000), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1003; LO MONTE, Gli aspetti problematici del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Rass. Trib., 2000, 1136; ZANOTTI, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, ivi, 2001, 771; PRICOLO, TRABACCHI, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in NOCERINO, PUTINATI (a cura di), La riforma dei reati tributari, Torino, 2016, 260). La norma in parola dunque è caratterizzata, rispetto a quanto disposto in precedenza, da un'anticipazione della rilevanza penale del comportamento vietato, giacché per la realizzazione del reato non è più necessaria l'avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche da parte dell'Erario o la notifica degli stessi, né occorre che nei confronti del contribuente sia stata avviata una procedura di riscossione, essendo sufficiente che il privato abbia posto in essere le condotte descritte dalla norma come dotate del requisito di idoneità a frustrare l'(eventuale) procedura di riscossione coattiva, con la finalità di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e dei relativi interessi e sanzioni per il previsto ammontare (Cass. sez. III, 9 aprile 2013, n. 39079; Cass. sez. III, 6 marzo 2008, n. 14720). Si è quindi dinanzi ad un reato di pericolo concreto, che diversi autori ritengono diretto a tutelare – non l'interesse dello Stato alla percezione dei tributi, profilo esterno alla tipicità del fatto, ma – il bene giuridico rappresentato dalla conservazione della garanzia patrimoniale costituita dai beni del contribuente che le condotte di sottrazione fraudolenta pongono immediatamente a rischio. Quanto al soggetto attivo, la norma prevede che il delitto in questione possa essere commesso da chiunque, anche se tale locuzione va riferita ai soli contribuenti che siano debitori d'imposta per un debito già maturato e per un ammontare superiore alla prevista soglia di rilevanza penale. Autore del reato potrà altresì essere l'amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti e persone giuridiche cui sia riferibile il debito di imposta e che ponga in essere comportamenti intesi a sottrarre l'ente collettivo al pagamento di quanto dovuto. È evidentemente possibile – ed anzi assai frequente si verifica tale circostanza – che soggetti diversi dal contribuente debitore d'imposta concorrano nel reato (si pensi ad esempio al caso di chi partecipi come acquirente ad una vendita simulata). La condotta, come già detto, non richiede, quale suo presupposto, che la procedura esecutiva sia stata promossa ma soltanto la preesistenza del debito al cui inadempimento è finalizzata. Quanto al momento in cui può dirsi insorta l'obbligazione nei confronti dell'Erario, alcuni autori sostengono che non sia necessario sia intervenuta la scadenza dei termini per il versamento dell'imposta o finanche per la presentazione della dichiarazione fiscale (PRICOLO – TRABACCHI, Sottrazione fraudolenta, cit., 264). Inoltre, la sussistenza del reato non è esclusa qualora il debito tributario non sia definitivo, né rileva il fatto che lo stesso sia contestato (o possa esserlo) nell'an o nel quantum: sarà dunque il giudice penale a dover accertare l'esistenza del debito ed a determinarne l'ammontare, anche, naturalmente, nella prospettiva del superamento della soglia di punibilità, conformemente al principio del c.d. doppio binario di cui all'art. 20 del DLgs. 74/2000; in ogni caso quale che sia la condotta tenuta dal contribuente, il reato in discorso non può ritenersi integrato se il patrimonio del privato è capiente rispetto al debito gravante sul contribuente (Cass., sez. III, 24 febbraio 2016, n. 13233. Si vedano i commenti di SANTORIELLO, Una completa ricostruzione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in Il fisco, 2016, 1780; BOGGIO, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: precisazioni ed accenni per una lettura «costituzionalmente orientata», in Riv. Giust. Trib., 2016, 683; CORSI, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte e rilevanza del patrimonio del contribuente, in Cass. pen., 2017, 300). Come detto, la punibilità della condotta incriminata è subordinata alla sussistenza di una soglia di punibilità che rappresenta un elemento costitutivo del reato ed è riferita al complessivo ammontare del debito erariale. È bene precisare che nella determinazione di tale ammontare possono rientrare cumulativamente le imposte sui redditi e sul valore aggiunto (non le altre imposte), nonché gli interessi e le sanzioni dovute per il mancato pagamento del tributo; inoltre, la soglia deve ritenersi raggiunta anche quando le imposte non pagate si riferiscano ad anni fiscali diversi (SOANA, I reati tributari, Milano 2013, 380). Quanto all'elemento soggettivo, il reato richiede la sussistenza in capo al soggetto agente di un atteggiamento doloso rappresentato dalla consapevolezza della preesistenza di un debito nei confronti dell'erario complessivamente superiore ad € 50.000,00 e dalla coscienza e volontà di realizzare un'alienazione simulata dei propri beni o di commettere sugli stessi atti fraudolenti idonei a pregiudicare la procedura di riscossione, anche se quest'ultima non sia ancora in corso o non ancora stata intrapresa. La volontà del contribuente, inoltre, deve dirigersi verso un ulteriore obiettivo rappresentato dalla finalità – che non deve essere necessariamente esclusiva né deve necessariamente realizzarsi – di sottrarsi al pagamento dell'imposte sui redditi o sul Iva. Le soluzioni giuridiche
La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso del PM, sostenendo che l'affermazione dei giudici di merito secondo cui la presunta operatività del disposto dell'art. 2506 quater c.c. avrebbe reso inidonea la scissione societaria a rendere inefficace la procedura di riscossione era in contrasto con una consolidata giurisprudenza, giusta la quale “in caso di scissione la configurabilità del delitto di cui all'art. 11, D.lgs. n. 74/2000 non può essere esclusa, in via generalizzata ed astratta, sulla base di quanto prevede l'art. 2506 quater, c.c., essendo invece richiesto al giudice penale di analizzare le concrete modalità con cui la scissione viene operata e la verifica degli eventuali effetti di pericolo per la riscossione delle imposte dovute dalla società che si scinde, nella specie mancata”, tant'è vero che in più occasioni si riconosciuto che “la condotta, rilevante come sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte dovute da società, la messa in atto, da parte degli amministratori, di più operazioni di cessioni di aziende e di scissioni societarie simulate finalizzate a conferire ai nuovi soggetti societari immobili, dal momento che nella fattispecie criminosa indicata rientra qualsiasi stratagemma artificioso del contribuente tendente a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario (Cass., sez. III, 9 febbraio 2011, n. 19595; Cass., sez. VI, 30 ottobre 2014, n. 7618, non massimata). In particolare, la Cassazione ricorda – anche a fronte delle osservazioni della difesa secondo l'operazione di scissione, da sola, non sarebbe idonea, ex se, a rivestire natura fraudolenta o simulata e, quindi, ad avere il concreto effetto di rendere, inefficace la procedura di riscossione coattiva – come nel valutare la natura fraudolenta e quindi la rilevanza penale di una operazione di tal fatta debbano considerarsi non solo le circostanze esistenti al momento nella messa in essere dell'operazione ma anche le vicende successive alla scissione idonee a rivestire quell'atto negoziale di matura fraudolenta e/o simulata, con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 11, D.lgs. n. 74/2000. In proposito, nella sentenza della Cassazione vengono richiamate alcune vicende ed in particolare alcuni comportamenti tenuti dagli imputati dopo l'operazione di scissione (dopo la quale comunque in capo la società scissa rimanevano tutti gli elementi passivi, in primis l'ingente debito tributario, e residui elementi attivi, essenzialmente costituiti da crediti, privi di significativo valore, mentre in capo alla nuova società veniva trasferiti i principali se non unici elementi attivi), come il repentino trasferimento delle quote sociali relative alla società derivante dalla scissione ad altri soggetti, la circostanza che la società scissa viene abbandonata e presenta un rilevante passivo, tra cui il debito tributario ed un unico elemento attivo costituito dal magazzino, di dubbia consistenza, nonché il fatto che quest'ultima, dopo aver ricevuto la richiesta ex art. 2506 quater c.c. di pagare parte dei debiti tributari, anziché soddisfarli con la propria ricchezza, abbia impugnato le cartelle esattoriali e, dopo il rigetto del ricorso da parte della CTP, sia stata costituita una nuova società cui è stato conferito un ramo d'azienda facente capo alla società nata dalla scissione, la quale dunque a sua volta veniva svuotata in modo da rendere inefficace la procedura esecutiva. Osservazioni
La decisione della Cassazione è senz'altro condivisibile ed è soprattutto apprezzabile perché cerca di essere coerente con la precedente giurisprudenza in tema di sottrazione fraudolenta pagamento delle imposte. Per comprendere questa nostra osservazione va ricordato che il principale profilo problematico del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte attiene alla ricostruzione dell'elemento oggettivo del reato ovvero alla definizione dei confini della condotta vietata. La fattispecie, sotto il profilo materiale, è descritta dal legislatore da un lato tipizzando un'ipotesi di comportamento vietato – la alienazione simulata di beni del contribuente -, di cui risultano individuabili tanto il significato che le modalità esecutive –, dall'altro utilizzando una tipica clausola di chiusura, venendo richiamata genericamente la commissione di “atti fraudolenti” – formula lessicale dalle potenzialità interpretative talmente vaste da suscitare in alcuni dubbi di compatibilità con i principi di tassatività e determinatezza (NANNUCCI, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, inD'AVIRRO – NANNUCCI, La riforma del diritto penale tributario, Padova 2000, 303). Prima di soffermarsi sulla ricostruzione della nozione di atti fraudolenti è tuttavia opportuno esaminare le ragioni per cui il legislatore ha inteso configurare in questi termini il comportamento vietato. La ratio sottostante tale opzione normativa è facilmente arguibile ed è risiede nella necessità di rinvenire un bilanciamento fra due contrapposte posizioni ovvero l'interesse dell'erario alla soddisfazione del proprio credito ed il diritto del singolo di esercitare pienamente le facoltà connesse al suo status giuridico di proprietario o titolare di un diritto reale: sotto un profilo naturalistico la condotta del contribuente che disponga di un proprio bene non presenta, di per sé, alcun profilo di illiceità ed anzi rappresenta una tipica modalità con cui il proprietario esercita le facoltà riconnesse a tale diritto e tale considerazione non muta anche quando in conseguenza di tale comportamento l'Erario veda diminuire le possibilità di soddisfarsi sul patrimonio del singolo; la medesima vicenda diventa invece penalmente rilevante se nella gestione del bene da parte del singolo sono presenti profili di frode, che per l'appunto il legislatore rinviene nell'ipotesi di alienazione simulata di beni o in caso di adozione di atti fraudolenti. Quanto alle due circostanze in presenza delle quali la condotta del privato presenta profili di rilievo penale, iniziando l'esame dalla figura della alienazione simulata, dovendosi trattare di un atto simulato, sono evidentemente fuori dall'ambito di applicazione della disposizione incriminatrice in esame tutte le condotte consistenti in una alienazione effettiva, nelle quali cioè, sotto ogni profilo, vi è congruità tra volontà dichiarata e volontà effettiva, ancorché possa risultarne pregiudicata la procedura esecutiva: ciò significa quindi che non merita alcuna qualificazione di illiceità non solo la vendita dell'immobile con conseguente monetizzazione del relativo valore – scelta che rende evidentemente il patrimonio del contribuente meno facilmente aggredibile a mezzo di esecuzione forzata -, ma anche qualsiasi altro atto che pur traducendosi in una perdita netta di consistenza delle disponibilità economiche del singolo, come in caso di donazione o di qualsiasi altro atto di liberalità, sia comunque effettivo ovvero a seguito del quale il bene non rientri più nella disponibilità dell'originario titolare. A tale approdo è giunta oramai anche la giurisprudenza che in diverse occasioni ha per l'appunto sostenuto che la condotta vietata non si esaurisce nella semplice diminuzione del valore del patrimonio del contribuente, sì da far temere che le pretese dell'Erario possano rimanere insoddisfatte, necessitandosi anche che tale condotta “si caratterizzi per la natura simulata dell'alienazione del bene o per la natura fraudolenta degli atti compiuti sui propri beni” posto che solo un atto di disposizione del patrimonio che si caratterizzi per tali modalità può essere idoneo a pregiudicare le legittime aspettative dell'Amministrazione finanziaria, non potendosi sanzionare “in contrasto con il diritto di proprietà, costituzionalmente garantito, ogni possibile condotta di disponibilità dei beni allo stesso diritto di proprietà strettamente connaturata” (Cass., sez. III, 24 febbraio 2016 (dep. 1 aprile 2016), n. 13233; Cass., sez. III, 16 maggio 2012, Caneva, n. 25677; Cass., sez. II, 25 marzo 2015, n. 15804; Cass., sez. III, 28 settembre 2016, n. 8041). La seconda ipotesi in presenza della quale la condotta di disposizione di beni da parte del contribuente può assumere rilievo penale ricorre laddove l'esercizio di tale diritto sia accompagnato dall'adozione di “atti fraudolenti”. Mentre nessuna incertezza di significato si pone con riferimento alla nozione di alienazione simulata – essendo sufficiente in proposito far, quanto meno, riferimento alla disciplina dettata in proposito dal codice civile -, ben diversa è la situazione con riferimento alla circostanza in esame. In effetti, all'interno della categoria di “atti fraudolenti” può farsi rientrare qualsiasi condotta che sia semplicemente idonea – pur senza presentare alcun profilo di criminosità – ad attentare le ragioni dell'Erario: ciò, ad esempio, è quanto sostenuto da coloro secondo cui il connotato della fraudolenza richiesto dalla disposizione in parola andrebbe inteso in senso meramente soggettivo – essendo richiesto solo che il soggetto agente agisca allo scopo di sottrarsi al pagamento coattivo delle imposte (TRAVERSI - GENNAI, I nuovi delitti tributari, Milano 2000, 295) -, con la conseguenza che sarebbe penalmente rilevante, sulla scorta di una considerazione riferita al solo atteggiamento soggettivo del soggetto agente, ogni atto che comporti un indebolimento delle garanzie patrimoniali del contribuente (ZANNOTTI, Sottrazione fraudolenta al pagamento cit., 216). A nostro parere, tuttavia, le sovra esposte conclusioni non sono condivisibili giacché la ricostruzione del significato della formula “atti fraudolenti” deve essere operata considerando come tale espressione sia richiamata in un ambito - quale quello descritto dall'art. 11 d.lg. N. 74 del 2000 - in cui la condotta descritta dal legislatore è rappresentata da un atto di disposizione del singolo su beni rientranti nel proprio patrimonio. Ciò comporta, dunque, che la nozione di atto fraudolento coincide – e quindi deve inevitabilmente sovrapporsi – con quella di atto negoziale simulato, in quanto tale caratterizzato da un contrasto fra la dichiarazione e l'effettiva intenzione di chi fa una dichiarazione, come peraltro desumibile anche dal disposto di cui alla lett. g-ter dell'art. 1 d.lg. N. 74 del 2000 che definisce i “mezzi fraudolenti” come le “condotte artificiose … realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà”. Quindi, nonostante l'art. 11 d.lg. n. 74 del 2000 sembri differenziare la fattispecie di alienazione simulata dall'assunzione di atti fraudolenti è da ritenere che in tale seconda nozione possano rientrare (tendenzialmente) solo condotte negoziali – ed in particolare la conclusione di negozi giuridici diversi dalla compravendita – simulate e fittizie (PRICOLO – TRABACCHI, Sottrazione fraudolenta, cit., 264). Saranno dunque penalmente rilevanti solo gli atti di disposizione posti in essere dal singolo contribuente che consistano in manovre che facciano apparire, contrariamente al vero, come insuscettibili di costituire oggetto di soddisfazione della pretesa esecutiva i suoi beni, come accade – ad esempio – allorquando si proceda ad una accensione di un'ipoteca su un immobile a garanzia di un credito fittizio ovvero nel caso – oggetto di una decisione della Cassazione (Cass., sez. III, 6 marzo 2008, X, in Rass. Trib., 2008, 1137) - di alienazione dei beni da parte del contribuente ad una società di leasing con l'obbligo di cederli in locazione ad una società di persone in cui sono soci i figli del medesimo contribuente oppure – secondo quanto accennato in precedenza – allorquando la simulazione riguardi non l'effettività della cessione ma il corrispettivo della stessa o il titolo giuridico il base al quale il contribuente “riconosce” ad altri la disponibilità su un proprio bene. Inoltre, nella nozione di “atti fraudolenti” possono, a nostro parere, essere ricomprese anche mere attività materiali di occultamento dei beni (si pensi, in particolare, ad una ipotesi particolarmente ricorrente: il singolo contribuente, esercente una attività commerciale, matura un rilevante debito d'I.V.A. conseguente all'alienazione di beni a terzi soggetti ed invece di versare le relative somme ricevute dagli acquirenti, sottragga le stesse conferendo loro una destinazione sconosciuta). Anche nel caso in esame infatti si viene a creare, in capo al contribuente e relativamente alla valutazione che può farne l'Erario, una situazione economica divergente rispetto a quella effettiva, giacché anche in tale ipotesi si assiste a condotte in conseguenza delle quali l'amministrazione finanziaria è erroneamente indotta a ritenere inesistenti nel patrimonio del contribuente disponibilità economiche che invece ne fanno parte e che potrebbero essere perciò oggetto della procedura di riscossione coattiva (in questo senso, BELLAGAMBA – CARITI, I nuovi reati tributari, Milano 2000, 122; TRAVERSI – GENNAI, I nuovi reati cit., 295; MASTROGIACOMO, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Fisco 2000, 10279). Evidentemente, tanto il carattere di alienazione simulata che di atto fraudolento sono difficilmente rinvenibili in presenza di una operazione di scissione societaria, la quale, da un lato – per raggiungere i suoi effetti – non può che essere realmente voluta dalle parti e dall'altro, stante gli adempimenti pubblici con cui va posta in essere e che ne determinano la possibile conoscenza in capo a tutti i soggetti interessati, non è condotta indicata ad essere qualificato come fraudolenta. Per tali ragioni, dunque, si sarebbe potuto ritenere, come effettivamente sostenuto dalla difesa, che in presenza di un'operazione di scissione, non si sarebbe potuto parlare di sottrazione fraudolenta pagamento delle imposte a meno di non contraddire l'elaborazione giurisprudenziale su cui sopra ci si è ampiamente soffermati. La Cassazione però supera tale obiezione con una argomentazione assolutamente fondata. La Corte Suprema infatti sottolinea che se eventualmente può ritenersi che un'operazione di scissione, da sola, non è idonea, ex se, a rivestire natura fraudolenta o simulata e, quindi, ad avere il concreto effetto di rendere, in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, il giudizio sulla rilevanza penale di tale condotta può cambiare alla luce delle circostanze complessive della vicenda, ivi compreso quanto accaduto dopo l'operazione di scissione, dovendosi valutare la sussistenza del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte “non soltanto [in relazione] al momento in cui l'atto di scissione viene posto in essere, ma anche in relazione alle vicende successive alla scissione, [la cui considerazione può far ritenere] quell'atto negoziale fraudolento e/o simulato idoneo ad integrare il reato in questione”. |