Codice Civile art. 428 - Atti compiuti da persona incapace d'intendere o di volere.Atti compiuti da persona incapace d'intendere o di volere. [I]. Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d'intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all'autore [1425 ss.; 613 c.p.]. [II]. L'annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d'intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell'altro contraente [1425 2]. [III]. L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l'atto o il contratto è stato compiuto [1442]. [IV]. Resta salva ogni diversa disposizione di legge [120, 591 n. 3, 775; 130 trans.]. InquadramentoL'art. 428 fornisce uno strumento di tutela al soggetto che, non formalmente dichiarato interdetto, si è trovato in condizioni di incapacità d'intendere o di volere nel momento in cui ha compiuto un atto di rilievo giuridico. Il mezzo di protezione è costituito dall'annullamento dell'atto, con la conseguente rimozione dei suoi effetti. Non ha importanza la causa dalla quale deriva lo stato di incapacità: essa può essere «qualsiasi», purché abbia escluso, anche in via transitoria, le facoltà intellettive e volitive dell'agente. Il legislatore ha posto, però, delle condizioni, intese a salvaguardare le relazioni giuridiche e l'affidamento dei terzi nelle ordinarie condizioni di capacità di coloro con i quali hanno rapporti negoziali. Queste condizioni, che operano peraltro in ambiti non esattamente coincidenti, come dovrà dirsi, sono le seguenti: - la prova delle condizioni di incapacità, che deve essere fornita dall'incapace, dai suoi eredi o dai suoi aventi causa, quando contestino la validità dell'atto; - dal grave pregiudizio che risulta per l'incapace dal compimento dell'atto; - dalla mala fede dell'altro contraente, nei contratti, risultante dal pregiudizio cagionato o verificabile, dalla qualità del contratto o da altre circostanze («altrimenti»). La causa di annullamento di atti giuridici che ne risulta descritta è la più generica che sia prevista nel nostro ordinamento. L'incapacità del soggetto, detta «naturale» per distinguerla da quella che deriva da un provvedimento («giudiziale» o «legale») costituisce uno degli elementi di una fattispecie complessa, la cui sussistenza richiede i citati elementi di danno e di approfittamento altrui. La ratio giustificatrice della normativa è da alcuni ravvisata direttamente nel difetto del requisito volontaristico nell'azione che conduce alla conclusione del negozio. Per altri va ravvisata nell'alterazione della causa del negozio (Galgano, Dir. civ., 342). Cass. n. 19958/2013 ha affermato che è in re ipsa la differenza degli istituti dell'incapacità legale e dell'incapacità naturale, situazione di diritto l'una, di fatto l'altra: sebbene entrambe abbiano incidenza sulla capacità di agire del soggetto, l'una lascia presumere l'incapacità di una sua cosciente e libera autodeterminazione, l'altra impone l'accertamento in concreto di siffatta incapacità di libera autodeterminazione: l'una opera in via (tendenzialmente) permanente, l'altra anche in via transitoria. Cass. n. 21507/2019 ha precisato che l'art. 75 c.c., nel riferirsi alle persone processualmente incapaci, indica i soggetti privati della capacità di agire in modo assoluto per effetto di una sentenza di interdizione o in modo parziale per effetto di una sentenza di inabilitazione e non fa menzione, invece, dei soggetti colpiti da incapacità naturale che non risultino ancora interdetti o inabilitati nelle forme di legge; in relazione a questi ultimi non si pone l'esigenza di una sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. per il promovimento della procedura di interdizione, posto che la ratio della disposizione di cui all'art. 75 si fonda, da un lato, sull'esigenza che ogni limitazione della capacità di agire possa operare solo all'esito finale di uno specifico procedimento e, dall'altro, sull'altrettanto incontestabile esigenza di impedire che ogni processo possa subire interruzioni o sospensioni sulla base di situazioni di non sollecito ed agevole accertamento, con il conseguente pregiudizio del diritto di tutela giurisdizionale della parte che ha proposto la domanda. Incapacità di intendere o di volereLa condizione di incapacità cui si riferisce l'art. 428 può riguardare, indifferentemente, le facoltà di intendere o quelle di volere. Il fatto che non abbia rilievo la distinzione tra esse ha condotto ad una interpretazione della norma citata estesa a comprendere ogni seria alterazione delle condizioni psichiche, idonea ad impedire al soggetto agente la formazione di una volontà consapevole. Questa alterazione può essere relativa all'una o all'altra di dette facoltà, purché ne risulti compromessa la capacità di autodeterminazione (Galgano, Dir. civ., 341). L'indicazione per cui la causa dell'alterazione non ha importanza e può essere una qualunque ha autorizzato a ritenere che l'incapacità naturale può prescindere da un vero e proprio stato patologico o da una vera e propria malattia. Inoltre, poiché la disposizione citata attribuisce rilievo alla natura anche transitoria dell'alterazione, si è giunti ad affermare l'esser sufficiente ad integrare l'incapacità naturale il turbamento derivante da una malattia suscettibile di risolversi dopo un periodo acuto ed anche lo stato emotivo abnorme che impedisce, nel momento, la seria valutazione degli effetti del negozio. L'incapacità naturale quale causa di annullamento di atti giuridici deve essere tale da determinare, sia pure in via transitoria, una totale privazione dell'idoneità a considerare l'opportunità dell'atto che viene compiuto e le sue ricadute. Dottrina e giurisprudenza hanno cercato un confronto con gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione per ottenerne una definizione dell'importanza dell'incapacità naturale e delle sue caratteristiche di incisività sulle facoltà dell'incapace. Rispetto alle condizioni che legittimano l'interdizione, si afferma, l'incapacità naturale è di gradazione affine ad essa e se ne distingue soltanto perché può essere transeunte (Napoli, 249; Forchielli, 57). Un elemento di sostegno per una opinione in tal senso è desunto dall'ultimo comma dell'art. 427 c.c., per il quale si applicano le disposizioni dell'articolo successivo agli atti compiuti dall'interdicendo prima della nomina del tutore provvisorio. Il rinvio all'art. 428 non vale ad eliminare le differenze nei requisiti dei due istituti (l'art. 414 c.c., ad esempio, richiede l'abitualità dell'infermità, per l'interdizione) ma vale a indicare che l'incapacità naturale deve assumere il grado di incidenza sulle facoltà intellettive o volitive che è rilevante per la pronuncia di interdizione. L'affinità che ne risulta con l'interdizione comporta che l'incapacità naturale sia una condizione più intensa di quella che può condurre alla dichiarazione di inabilitazione, per la quale la condizione di incapacità è soltanto parziale (Spangaro, 444). Una fattispecie di sostanziale applicazione della disposizione dettata dall'art. 428 al rapporto matrimoniale è costituita dall'art. 120 c.c. per il quale il matrimonio può essere impugnato dal coniuge che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio. In proposito Cass. n. 28307/2023 ha affermato non essere sufficiente la mera deficienza caratteriale o l'immaturità del coniuge in quanto l'incapacità di valutare ex ante la rilevanza del vincolo matrimoniale concordatario non si traduce in un deficit psichico ossia in un vero stato patologico idoneo a incidere sulla capacità di intendere o volere del soggetto. Per Cass. n. 13659/2017 ai fini della sussistenza dell'incapacità di intendere e di volere, quale causa di annullamento del negozio ex art. 428, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che esse siano menomate, sì da impedire comunque la formazione di una volontà cosciente; la prova di tale condizione non richiede la dimostrazione che il soggetto, al momento di compiere l'atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che queste erano perturbate al punto da impedirgli una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio e, quindi, il formarsi di una volontà cosciente. La prova dell'incapacità naturale deve essere fornita con specifico riferimento al momento della redazione dell'atto (Cass. VI, n. 12658/2018; Cass. II, n. 27061/2018). Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere ex art. 428 c.c., costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere. Laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia al posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicché occorre verificare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto(Cass. n. 30126/2018). La dottrina si è chiesta se sia annullabile per incapacità naturale il negozio concluso sotto l'effetto di stupefacenti o in stato di ipnosi indotto dalla controparte. L'alternativa è nel senso di ritenere radicalmente nullo il negozio per totale mancanza della volontà, riconducibile ad una forma di costrizione fisica (Galgano, Dir. civ., 326). E in effetti va considerato che il soggetto reso incapace si riduce ad essere un mero strumento inconsapevole dell'azione altrui ed esprime, di conseguenza, una volontà che non è la propria ma è proveniente da altri. Si controverte sull'annullabilità del negozio posto in essere da chi si è posto volontariamente nelle condizioni di incapacità. Si accenna, in proposito all'actio libera in causa nota soprattutto nel diritto penale e che pone il problema della responsabilità di un atto non direttamente voluto ma comunque riconducibile ad un comportamento volontario del soggetto agente. Un elemento di diritto positivo a sostegno dell'opinione di coloro che affermano la piena validità dell'atto è desunto dal testo dell'art. 2046 c.c., per il quale risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi al momento in cui lo ha commesso era incapace se l'incapacità deriva da sua colpa. La Corte di cassazione è conforme nell'affermare che, ai fini dell'annullamento di un negozio per incapacità naturale, non è necessaria una malattia che annulli in modo assoluto le facoltà psichiche del soggetto, essendo sufficiente un turbamento psichico risalente al momento della conclusione del negozio tale da menomare gravemente, anche senza escluderle, le facoltà intellettive e volitive, che devono risultare diminuite in modo da impedire od ostacolare la seria valutazione dell'atto o la formazione della volontà (Cass. n. 7626/2013; Cass. n. 7262/2013; Cass. n. 17977/2011; Cass. n. 515/2004; Cass. n. 4539/2002). L'incapacità naturale prevista dall'art. 428 non postula la totale o sensibile privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la sola loro menomazione, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere (Cass. n. 30126/2018; Cass. n. 22836/2014; Cass. n. 17977/2011). Occorre provare di essersi trovati in uno stato di turbamento psichico, anche parziale, idoneo a impedire od ostacolare la seria valutazione dell'atto e la formazione della volontà (Cass. n. 2500/2017). La giurisprudenza di merito segue questa impostazione: al fine di ritenere fondata la domanda di annullamento di un contratto per incapacità ai sensi del secondo comma dell'art. 428, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la loro menomazione, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente (Trib. Pisa, 13 ottobre 2016, n. 1263, per il quale deve trattarsi di una situazione che impedisce all'agente di cogliere, sia sul piano intellettivo che su quello cognitivo, la natura e gli effetti dell'atto che si compie né di prestare, consapevolmente e liberamente, il proprio contributo nella determinazione del regolamento di interessi contenuto nell'atto oggetto di impugnativa); l'incapacità naturale è ravvisabile in ogni stato emotivo abnorme che non necessariamente priva il soggetto delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente una loro menomazione tale da impedire la formazione di una volontà cosciente (Trib. Novara, 11 maggio 2010, n. 48). Non è annullabile il contratto stipulato da un soggetto il cui grado di incapacità di intendere o di volere non sia superiore a quello richiesto per la dichiarazione di inabilitazione (Cass. n. 1745/2013). L'avvenuta dichiarazione di inabilitazione non equivale alla dimostrazione di sussistenza di una incapacità naturale (Cass. n. 1388/1994). In ordine agli stati emotivi e passionali, Cass. n. 4967/2005 ha affermato che l'incapacità naturale deve consistere nella transitoria impossibilità di rendersi conto del contenuto e degli effetti dell'atto giuridico che si compie e che non può conseguire a dispiaceri anche gravi, quale, ad esempio, la consapevolezza di una malattia propria o di un prossimo familiare, salvo che essa abbia cagionato una patologica alterazione mentale. Anche Cass. n. 1036/1989 aveva escluso che lo stato emotivo conseguente alla consapevolezza di una grave malattia possa comportare, di per sé, una situazione di incapacità naturale rilevante ai fini dell'annullabilità del contratto, ove non risulti provato che esso abbia inciso sulla sfera psico-intellettiva del soggetto e prodotto un vero e proprio squilibrio mentale. Nel senso che gli stati passionali non costituiscono, di per sé, causa di riduzione della capacità psichica a meno che provochino nel soggetto un disordine psichico di tale intensità da privarlo della capacità di intendere e volere, si era espressa Cass. n. 3411/1978. Una fattispecie di ripetuto ricorso all'istituto dell'incapacità naturale è costituita dalla richiesta di annullamento delle dimissioni del lavoratore dipendente, sull'assunto che esse furono effettuate in un momento di confusione mentale. In proposito la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato che il lavoratore dipendente, che invochi l'annullamento per incapacità naturale delle dimissioni da lui presentate, deve dimostrare che, al momento di compimento dell'atto, a lui pregiudizievole, si trovava in uno stato di turbamento psichico, anche parziale, idoneo a impedirne od ostacolarne una seria valutazione o la formazione della volontà, nonché di avere subito un grave pregiudizio a causa dell'atto medesimo (Cass. n. 2500/2017). Sono state ritenute annullabili le dimissioni date dal dipendente pubblico in un momento di forte stress lavorativo e di insoddisfazione: lo stato di temporanea alterazione dell'equilibrio psichico in cui versava il lavoratore, infatti, è stato considerato condizione sufficiente per l'annullamento delle dimissioni, senza che a tal fine fosse necessaria l'esistenza di un conclamato stato di incapacità di intendere e di volere (Cass. lav., n. 30126/2018, nel caso di lavoratore dimessosi per via del contesto ambientale connotato da forte stress e insoddisfazione, poi tornato sulla sua decisione a causa del disagio susseguente per la sua famiglia). In particolare, si è precisato che la circostanza che il lavoratore si sia dimesso nel timore dell'irrogazione di un licenziamento per giusta causa non comporta l'annullabilità dell'atto, dovendosi in ogni caso accertare se il recesso del dipendente sia stato reso in una condizione di diminuite capacità intellettive e volitive circa l'esercizio di una opzione cosciente e frutto di una seria valutazione, fra le dimissioni e il licenziamento prospettatogli (Cass. n. 24122/2016, in relazione al caso di un impiegato che aveva dichiarato di essersi dimesso perché se fosse stato licenziato avrebbe avuto difficoltà a cercare un nuovo lavoro). In ogni caso, si è puntualizzato che l'annullamento delle dimissioni del lavoratore, sull'assunto dell'incapacità naturale, presuppone non solo la sussistenza di un quadro psichico connotato da aspetti patologici ma anche l'incidenza causale tra l'alterazione mentale e le ragioni soggettive che hanno spinto il lavoratore al recesso (Cass. n. 1070/2016). Il Trib. Roma 26 giugno 2014, n. 7217) ha affermato che le dimissioni rassegnate da un dipendente e poi dallo stesso ritirate a motivo che lo stesso si trovava in uno stato transitorio d'incapacità d'intendere o di volere, non sono annullabili, ex art. 428, quando non risulta provato, in sede di consulenza tecnica d'ufficio, lo stato di incapacità transitoria. L'accertamento dell'incapacità costituisce valutazione di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (Cass. n. 22836/2014; Cass. n. 7626/2013; Cass. n. 7262/2013; Cass. n. 1745/2013). L'accertamento è affidato ad elementi anche presuntivi. Per Cass. 4316/2016, accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza dell'incapacità naturale conseguente ad infermità psichica è presunta, juris tantum, anche nel periodo intermedio, sì che la parte che sostiene la validità dell'atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia (fattispecie di demenza senile grave). Nello stesso senso: Cass. n. 59/2014. Cass. n. 1770/2012 ha osservato che, ove il giudizio di inabilitazione si concluda con un provvedimento di rigetto, ciò che passa in giudicato è soltanto la statuizione sull'assenza, nel momento in cui la sentenza viene pronunciata, dei requisiti necessari per procedere alla dichiarazione di inabilitazione, ossia di una seria e permanente menomazione delle facoltà mentali dell'interessato. Ciò non toglie, ha aggiunto, che singoli elementi valutati in quel giudizio ai fini del rigetto dell'istanza possano essere tenuti in considerazione alla luce del complessivo quadro psichico dell'interessato per risalire ad eventuali altri fatti ignoti, quale, ad esempio, la sussistenza di uno stato di incapacità naturale rilevante ai fini dell'art. 428. Cass. n. 10505/1997 ha ritenuto congruamente motivata la pronuncia che aveva considerato non decisiva, ai fini della ricorrenza dell'incapacità naturale, la presenza di uno stato d'ansia, per quanto marcato, e di una personalità fornita di eccesso di affettività, trattandosi di circostanze non idonee a far parlare di turbe della personalità così gravi da integrare il requisito richiesto dall'art. 428. Il giudizio compiuto dal notaio rogante in sede di stipula dell'atto pubblico non è vincolante nella valutazione che deve compiere il giudice per verificare la sussistenza o meno della capacità naturale del soggetto stipulante (Cass. n. 7626/2013). Prova dell'incapacitàLa condizione di incapacità naturale deve essere dimostrata, secondo le regole che nel giudizio riguardano gli oneri probatori dei fatti costitutivi della domanda. La prova compete all'incapace, ritornato in condizioni normali o rappresentato dal tutore, ai suoi eredi e ai suoi eventi causa. La prova può essere fornita con ogni mezzo, non essendo previste limitazioni esplicite e non avendo l'azione ad oggetto diritti indisponibili. La prova è riferita alle condizioni in cui il soggetto si trovava al momento del compimento dell'atto di cui è chiesto l'annullamento. Per apprezzarla può avere rilevanza l'accertamento di episodi pregressi e successivi, rispetto all'esecuzione dell'atto, dai quali desumere, per presunzioni o per conoscenze mediche, lo stato esistito nel frattempo. Compete alla controparte la prova del c.d. lucido intervallo (Napoli, 285, il quale rileva che l'impostazione ammissiva in tal senso privilegia le possibilità recuperatorie dell'incapace ma finisce per addossare alla controparte un onere difficilmente superabile: la negazione dell'incapacità). La valutazione della prova spetta al giudice di merito e sfugge al sindacato di legittimità se congruamente motivata. La prova non può essere costituita dalla presunzione fondata sulla circostanza che il soggetto fosse, in un periodo precedente, affetto da una patologia relativamente alla quale non venga determinata clinicamente la concomitanza di una situazione di totale compromissione della sfera cognitiva e volitiva. Soltanto in presenza di un infermità psichica permanente o abituale si determina l'inversione dell'onere della prova, con la conseguenza che solo in tal caso occorre provare che nel momento della redazione dell'atto il soggetto fosse in un momento di lucidità. Compete alla parte che esercita l'azione di annullamento fornire la prova dell'incapacità naturale; spetta alla controparte la dimostrazione di sussistenza del c.d. lucido intervallo (Cass. n. 17130/2011). In proposito la Corte di cassazione ha affermato che in tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica (nella specie: demenza arteriosclerotica ingravescente), una volta accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita da presunzione iuris tantum, sicché in concreto si verifica l'inversione dell'onere della prova, dovendo essere dimostrato dalla parte interessata che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo (Cass. II, ord. n. 35466/2022). In particolare, in tema di annullamento di procura a vendere e del successivo contratto di compravendita per incapacità naturale del rappresentato all'atto del conferimento della procura, la presunzione di incapacità intermedia conseguente alla dimostrazione della stessa con riguardo ad un momento successivo e precedente postula in ogni caso il carattere rigoroso della valutazione della prova da parte del giudice con riferimento all'incapacità naturale successiva e precedente l'atto oggetto di impugnazione, senza che, del resto, possa ritenersi a tal fine sufficiente l'esistenza di un giudicato penale con cui sia stata dichiarata l'incapacità naturale del rappresentato giacché, in applicazione del principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e qualificazioni del giudice penale. La prova dell'incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità; in proposito il giudice è libero di utilizzare, per il proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altri soggetti (Cass. n. 13659/2017; Cass. n. 4539/2002 ; Cass. n. 909/1989). Tra tali risultanze possono essere utilizzati gli accertamenti peritali effettuati nel corso del procedimento per circonvenzione di persona incapace, in relazione agli stessi atti e fatti dedotti nel giudizio civile (Cass. n. 2327/1994). Cass. n. 4344/2000 ha osservato che lo stato di incapacità di intendere o di volere del soggetto che ha stipulato l'atto del quale si chiede l'annullamento è una condizione personale dell'individuo che solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provata in modo diretto; il più delle volte va invece accertata in base a indizi e presunzioni, che anche da soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità. In assenza di una pronuncia di interdizione passata in giudicato al momento dell'atto deve escludersi che l'infermità di mente possa essere desunta direttamente dalla successiva pronuncia di interdizione (Cass. n.1770/2024). La prova dell'incapacità non deve necessariamente essere riferita alla situazione esistente al momento in cui l'atto impugnato è stato posto in essere, essendo possibile cogliere tale momento dalla redazione dell'atto, traendo da circostanze note, mediante prove logiche, elementi probatori conseguenti (Cass. n. 7914/1990). La prova può essere ricavata da circostanze induttive costituite dalle condizioni del soggetto antecedenti o successive al compimento dell'atto pregiudizievole (Cass. n. 2212/1990). Una situazione particolare si verifica in relazione ad atti che fanno fede fino a querela di falso, quali quelli redatti dal notaio. Essi fanno fede relativamente alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato, alle dichiarazioni rese in sua presenza ed agli altri fatti avvenuti davanti a lui ma non anche con riguardo ai giudizi valutativi eventualmente espressi, tra i quali va compreso quello relativo al possesso, da parte dei contraenti, della capacità di intendere e volere. Ne segue che, qualora il contratto sia stato stipulato dinanzi a un notaio con le forme dell'atto pubblico, la prova dell'incapacità naturale di uno dei contraenti può essere data con ogni mezzo e il relativo apprezzamento costituisce un giudizio riservato al giudice di merito (così Cass. II, ord. n. 27489/2019). Grave pregiudizio
Distinzioni L'art. 428 accenna, nel primo comma, agli «atti» compiuti dal soggetto in stato di incapacità naturale; e riferisce le disposizioni di cui al secondo comma, specificamente, ai contratti. Da questa diversità testuale la giurisprudenza ha desunto ragioni per un orientamento interpretativo ormai consolidato e che determina una rilevante differenza applicativa. Essa distingue gli atti unilaterali dai contratti e riferisce soltanto a questi ultimi il dettato del secondo comma, che per l'annullamento richiede, oltre al grave pregiudizio, anche la mala fede dell'altro contraente. La distinzione è necessitata: soltanto negli atti bilaterali esiste una controparte della quale debba indicarsi la mala fede. L'orientamento in questione comporta una conseguenza, fondata sul testo normativo. L'elemento del grave pregiudizio derivante dall'atto è requisito necessario riconducibile soltanto agli atti unilaterali. Per i contratti esso è un indice dal quale, unitamente ad altri (la qualità del contratto o altre circostanze), può ricavarsi la sussistenza della mala fede (si veda, però, sub 4.3). .Grave pregiudizio e atti unilaterali Il dato costituito dal grave pregiudizio è inteso in senso ampio e generico. Non è necessario che esso consista in un pregiudizio patrimoniale; può consistere in qualunque risvolto negativo, giuridicamente apprezzabile, che si ripercuote sulle condizioni dell'agente. Il dato costituito dal grave pregiudizio è inteso in senso ampio e generico. Non è necessario che esso consista in un pregiudizio patrimoniale; può consistere in qualunque risvolto negativo, giuridicamente apprezzabile, che si ripercuote sulle condizioni dell'agente. Per la dottrina non è possibile indicare parametri o criteri di individuazione e quantificazione del danno. Si tratta di valutazioni di tipo relativo, caso per caso, per le quali mancano riferimenti utili, quali quello rappresentato dall'equivalenza delle prestazioni nei contratti (Forchielli, 61). La necessità che si produca un grave danno protegge l'incapace soltanto dai pregiudizi di cui egli sia causa e che abbiano un rilevante effetto di nocumento. Egli è tutelato non già perché si è trovato in situazioni di incapacità ma perché viene leso gravemente nei suoi interessi. Sino a questo limite è consentito il vantaggio conseguito dal terzo. Ai fini dell’annullamento degli atti unilaterali per incapacità naturale, l’accertamento dell’idoneità a recare grave pregiudizio al suo autore va effettuato, secondo Cass. III, n. 11272/2020, con particolare rigore, avuto riguardo alla situazione di incapacità del soggetto e sulla base di una valutazione ex ante, nella quale occorre tener conto di tutte le caratteristiche strutturali del negozio, idonee a disvelarne la potenzialità lesiva. L’atto interruttivo della prescrizione, quale mero atto unilaterale recettizio, produce effetti anche quando il suo destinatario sia un incapace naturale, purché gli pervenga nel rispetto delle previsioni di cui agli artt. 1334 e 1335 c.c. (Cass. VI, ord. n. 12658/2018).D’altra parte, si afferma, i casi di sospensione della prescrizione sono tassativamente indicati dalla legge e sono insuscettibili di applicazione analogica e di interpretazione estensiva, in quanto il legislatore regola inderogabilmente le cause di sospensione limitandole a quelle che consistono in veri e propri impedimenti di ordine giuridico, con esclusione degli impedimenti di mero fatto; ne consegue che l’espressa previsione dell’interdizione per infermità di mente come causa di sospensione impedisce l’estensione della medesima disciplina all’incapacità naturale (Cass. VI, n. 11004/2018). Grave pregiudizio e contratti La giurisprudenza afferma che, ai fini dell'annullamento dei contratti per incapacità naturale, è sufficiente la prova della mala fede dell'altro contraente e non è strettamente necessaria anche la prova del grave pregiudizio. Questo pregiudizio non costituisce un elemento costitutivo dell'azione, per quanto si riferisce specificamente all'annullamento dei contratti: ma soltanto un indizio rivelatore della mala fede, vero requisito essenziale per un siffatto annullamento. Il danno, di per sé solo, non è idoneo a provare la mala fede della controparte, in quanto non è univoco nel dimostrare il turbamento e la menomazione della sfera intellettuale e volitiva del soggetto agente; e neppure a provare l'intento di approfittamento della controparte. La prova della mala fede deve derivare da una pluralità di dati concordanti, anche presuntivi e indiziari. Una parte della dottrina contesta questa ricostruzione e afferma che essa è frutto di una lettura arbitraria dell'art. 428. Il primo comma è inteso erroneamente come riferito agli atti unilaterali, mentre in esso deve leggersi, invece, il richiamo più generico a tutti gli atti giuridici. Tale primo comma pone, si afferma, una disciplina generale mentre il comma successivo è dedicato specificamente ai soli contratti. Se ne desume che anche per i contratti è necessario il requisito del grave pregiudizio, in aggiunta a quello della mala fede. Il grave pregiudizio è un requisito comune; la mala fede non può che riguardare gli atti bilaterali (Galgano, Dir. civ., 70; Forchielli, 63). In ogni caso, quale elemento utile a evidenziare la mala fede altrui, il grave danno va apprezzato dalle circostanze di fatto. Esso può essere desunto dalle disuguaglianze sostanziali nella posizione delle parti del contratto (Napoli, 290) e, per farne accertamento, può servire quale criterio guida il principio dell'equivalenza delle prestazioni contrattuali che, se pure non opera in via generale nel nostro ordinamento, pure fornisce un ragionevole metro di giudizio (Galgano, Dir. civ., 344). Un quesito che aveva diviso la dottrina ha riguardato l'annullabilità degli atti negoziali di «contrattualità minima», compiuti nella vita quotidiana e per la vita quotidiana, quali l'acquisto dei generi alimentari, dei giornali, dei libri e del vestiario indispensabile. La mancanza di un grave pregiudizio in questa attività negoziale minima faceva considerare i relativi contratti quali atti non soggetti all'annullabilità. La l. n. 6/2004, introduttiva dell'amministrazione di sostegno, ha mutato il testo dell'art. 409 c.c., il quale, al secondo comma, dispone che il beneficiario del provvedimento può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. Sebbene la situazione soggettiva sia indubitabilmente diversa, questa norma è apprezzata come indice di una considerazione giuridica trasferibile alla posizione dell'interdetto: la validità sussiste almeno sino a che l'atto quotidiano perda il suo carattere di ordinarietà e diventi compulsivo, sproporzionato ed eccessivo. Si fa l'esempio dell'acquisto di quantità di cibo facilmente deperibile in quantità ossessive, o di abiti costosi e sicuramente superflui. La giurisprudenza afferma che, ai fini dell'annullamento di un contratto, perché concluso in stato di incapacità naturale, il gravissimo pregiudizio a carico dell'incapace costituisce elemento indiziario dell'ulteriore requisito della mala fede dell'altro contraente ma, di per sé, non è idoneo a costituirne la prova (Cass. n. 29962/2022; Cass. n. 19458/2015 ; Cass. n. 4677/2009 ; Cass. n. 17583/2007 ; Cass. n. 7403/2003; Cass. n. 907/1998 ; Cass. n. 5402/1998). Ai fini dell'annullamento del contratto per incapacità naturale - a differenza di quanto previsto per l'annullamento dell'atto unilaterale - non rileva, di per sé, il pregiudizio che il contratto provochi o possa provocare all'incapace, poiché tale pregiudizio rappresenta solamente un indizio della malafede dell'altro contraente; la diversità di disciplina contenuta nell'art. 428 c.c., infatti, sottende la diversa rilevanza sociale degli atti unilaterali rispetto a quella dei contratti, poiché nei primi è preminente l'interesse dell'incapace a controllare le conseguenze degli atti compiuti, mentre nei secondi è prioritario l'interesse alla certezza del contratto e alla tutela dell'affidamento della controparte che, non essendo in mala fede, abbia confidato sulla sua validità (Cass. I, ord. n. 29962/2022). La mala fede, con riguardo ai contrattiLa mala fede cui si riferisce l'art. 428, secondo comma, consiste nella consapevolezza che l'altro contraente ha della condizioni di incapacità in cui si trova, nel momento della conclusione del contratto, il soggetto con il quale stringe il rapporto negoziale. Nella nozione di mala fede è insito un contenuto di approfittamento; ma la dottrina concorda nell'affermare che è sufficiente la conoscenza dell'incapacità naturale della controparte. La richiesta di una condotta in mala fede è rivolta a tutelare l'affidamento della controparte: la quale ha l'aspettativa di confidare nella generale capacità delle persone di agire giuridicamente, sino a che risulti il contrario. In proposito si richiede al soggetto che ha rapporto con l'incapace naturale un comportamento di ordinaria diligenza. L'indagine sulla mala fede riguarda un atteggiamento psicologico interno al soggetto e non può essere effettuata se non attraverso un apprezzamento di fatto desumibile da tutte le circostanze della specifica vicenda. I requisiti necessari per l'annullamento del contratto sono l'incapacità naturale di un contraente e la malafede dell'altro; la prova dell'incapacità non deve necessariamente essere riferita alla situazione esistente al momento in cui l'atto impugnato venne posto in essere, essendo possibile cogliere tale situazione da un quadro generale – anteriore e posteriore – al momento della redazione dell'atto, traendo da circostanze note, mediante prova logica, elementi probatori conseguenti (Cass. II, n. 27061/2018, la quale aggiunge che la mala fede deve intendersi come conoscenza dell'altrui condizione di incapacità). La malafede, di cui all'art. 428, comma 2, consiste nella consapevolezza dello stato di incapacità del contraente; l'annullamento del contratto per incapacità prescinde da un comportamento tenuto dall'altro contraente per influenzare la determinazione dell'incapace (Cass. n. 7626/2013; Trib. Roma 7 luglio 2017, n. 16888). In ambito contrattuale l'annullamento del contratto ai sensi dell'art. 428, comma 2, può essere pronunziato a condizione che il pregiudizio, reale o potenziale, subito dalla persona incapace di intendere o di volere sia conseguenza della malafede dell'altro contraente: malafede consistente nella consapevolezza di contrattare con una persona incapace di esprimere una volontà negoziale libera e non viziata (Trib. Arezzo, 26 gennaio 2015, n. 84). Cass. n. 17381/2021 ha dichiarato che, ove la domanda di annullamento abbia ad oggetto un contratto di compravendita, implica vizio di motivazione della sentenza il fatto che il giudice di merito non abbia tenuto conto del divario tra il prezzo di mercato ed il prezzo esposto nel contratto, in quanto tale elemento, se accertato, costituisce un importante sintomo rivelatore della mala fede dell'altro contraente. Conformi Cass. n. 1770/2012; Cass. n. 17583/2007. Cass. n. 20603/2017 e Cass. n. 19458/2015 hanno affermato che non può dirsi accertata per la sola presenza di un pregiudizio per una delle parti del contratto la malafede dell'altro contraente, in quanto diverse possono essere le ragioni per le quali un soggetto si determina a stipulare un contratto per lui svantaggioso — ragioni che la controparte non è tenuta a indagare, a meno che risulti evidente o almeno percepibile con l'ordinaria diligenza che la determinazione della controparte costituisce l'estrinsecazione di turbe o menomazioni della sfera intellettiva o volitiva. La prova per presunzioni della consapevolezza dell'incapacità naturale altrui necessita di una pluralità di elementi indiziari precisi e concordanti (Cass. n. 21050/2004; Cass. n. 5402/1998). Gli atti annullabiliL'art. 428 indica, quali annullabili, se compiuti dall'incapace naturale, gli atti e i contratti. Se per la nozione dei contratti non sono sorte questioni interpretative, si è discusso se in quella di atti possano rientrare soltanto gli atti negoziali o vi siano compresi anche gli atti giuridici in senso stretto (quali i pagamenti, l'adempimento del debito, la remissione, le dimissioni). Per una parte della dottrina sono annullabili tutti gli atti di rilievo giuridico nei quali viene in rilievo la volontà, siano essi atti negoziali oppure atti in senso stretto. Per l'opinione prevalente sono annullabili unicamente gli atti negoziali perché soltanto in essi è ravvisabile il possibile requisito del grave pregiudizio (ad es.: Galgano, Dir. civ., 344). La discussione dottrinaria si è accentrata attorno alle figure degli atti di diritto familiare e, in particolare, a quella del riconoscimento del figlio naturale. Ad essi si nega, da alcuni, natura negoziale e li si riconducono alle dichiarazioni di scienza (Galgano, Dir. civ., 87; Forchielli, 61). Un quesito è sorto anche a proposito della possibilità di annullamento degli atti a contenuto non patrimoniale. In prevalenza si afferma che essi sono annullabili perché la normativa non pone distinzioni dipendenti dal contenuto dell'atto. Ma si tratta poi di stabilire se anche per essi valga il requisito del grave danno e, inoltre, se tale danno debba avere un contenuto economico o possa limitarsi ad un pregiudizio soltanto morale. Un limite all'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 428 proviene da norme previste in riferimento a situazioni specifiche, regolate autonomamente. In materia matrimoniale il regime di impugnazione degli atti negoziali compiuti dall'incapace di intendere e di volere è disciplinato dalle norme appositamente stabilite dall'art. 120 c.c. Norme specifiche sono imposte per l'impugnazione del testamento redatto dall'incapace, ai sensi dell'art. 591 c.c. Con disposizione autonoma è regolata l'azione di annullamento della donazione fatta da persona incapace di intendere o di volere (art. 775 c.c.). L'impugnazione del consenso all'adozione per incapacità dell'adottante è disciplinata dall'art. 313, secondo comma, c.c. L'obbligazione fideiussoria, pur derivando da un contratto unilaterale, con obbligazioni a carico di una sola parte, ha natura contrattuale, sicché, ai fini dell'annullabilità per incapacità naturale, si applica l'art. 428, comma 2, (Cass. n. 19270/2016). L'art. 428 che disciplina il regime di impugnazione degli atti negoziali compiuti da persona incapace di intendere o di volere, non si applica in ambito matrimoniale, il cui regime delle invalidità è regolato da norme speciali, le quali, nel bilanciamento tra il diritto personalissimo del soggetto di autodeterminarsi in ordine al matrimonio e l'interesse degli eredi a far valere l'incapacità del de cuius allo scopo di ottenere l'annullamento del suo matrimonio, assegnano preminenza, in modo non irragionevole, all'esigenza di tutela del primo e, quindi, della dignità di colui che, non interdetto, ha contratto matrimonio (Cass. n. 14794/2014). Cass. II, n. 4653/2018 ha affermato che in tema di impugnative matrimoniali l’azione per impugnare il matrimonio affetto da incapacità di intendere o volere o vizi della volontà di uno dei coniugi ha carattere personale ed è trasmissibile agli eredi solo qualora il relativo giudizio sia già pendente al momento della morte di detto coniuge, il quale è titolare esclusivo del potere di decidere se impugnare il proprio matrimonio. L'art. 428 non trova applicazione allo scopo di far valere l'incapacità naturale dell'adottante al momento della manifestazione del consenso, in quanto i soggetti legittimati all'esercizio dell'azione sono soltanto coloro che sono indicati dall'art. 313, secondo comma, c.c. e, quindi, soggetti diversi dai legittimati di cui al citato art. 428 (Cass. n. 12556/2012; Cass. n. 4694/ 1992; Cass. n. 4461/1983). L'atto di riconoscimento di figlio naturale non è annullabile ex art. 428 per incapacità di intendere o di volere (Cass. n. 7292/2008). La sentenza che accoglie l'azione di annullamento del negozio, ex art. 428, ha natura retroattiva e comporta il ripristino della situazione di fatto e di diritto preesistente al negozio annullato (Cass. n. 6756/1995). In particolare, nel caso di annullamento delle dimissioni del lavoratore, il diritto alle retribuzioni maturate sorge dalla data della domanda giudiziale, in applicazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice; deve escludersi un effetto totalmente ripristinatorio dell'annullamento del negozio unilaterale riferito alla retribuzione, posto che questa, salva diversa disposizione di legge, non è dovuta in assenza dell'attività lavorativa (Cass. n. 8886/2010). In senso difforme Cass. lav., n. 21701/2018 per la quale le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità delle dimissioni (nella specie rese in stato di incapacità del lavoratore) in quanto la regola secondo cui l’annullamento di un negozio ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro che, stante la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, non sono dovute in mancanza della prestazione, salvo espressa disposizione di legge. Più in generale si è affermato che l'esonero dalla ripetizione della prestazione ricevuta dalla parte incapace, in ipotesi di annullamento del contratto per sua incapacità, prescinde dalla buona o mala fede dell'altro contraente e dipende esclusivamente dalla circostanza oggettiva che detto annullamento sia avvenuto in conseguenza di tale incapacità, presumendo la legge che l'incapace abbia mal disposto del suo patrimonio e dissipato la prestazione conseguita, non traendone profitto; grava, pertanto, su tale altro contraente, che intenda ottenere la restituzione della prestazione corrisposta, l'onere di dimostrare che l'incapace ne ha tratto vantaggio, indipendentemente dal proprio stato soggettivo (Cass. n. 16888/2017). Legittimazione attiva all'azione di annullamentoLa legittimazione attiva all'azione di annullamento è tassativamente indicata nel primo comma dell'art. 428. I soggetti menzionati costituiscono quella che potremmo definire la «parte lesa» nel rapporto concluso dall'incapace ed a favore della quale è apprestata la difesa costituita dall'azione suddetta. La disposizione non indica preferenze o ordini di subordinazione tra i soggetti legittimati. Ne segue che ciascuno di essi può assumere l'iniziativa, senza dover attendere l'attività altrui e senza che ciò comporti un frazionamento dell'azione, con conseguente riduzione del contenuto del negozio. Gli atti posti in essere da un incapace naturale sono annullabili solo su istanza della persona che assume essere stata incapace al momento del compimento dell'atto o dai suoi eredi o aventi causa (Cass. n. 1475/2003). L'incapacità naturale investe l'atto nella sua interezza per ogni conseguenziale effetto, sì che esso non può essere contemporaneamente valido per taluni dei legittimati e invalido per altri (Cass. n. 2858/1993). L'azione esercitata dai coeredi o dagli aventi causa deve tutelare interessi essenzialmente patrimoniali (Cass. n. 4694/1992, che ha negato legittimazione al coerede ad impugnare per incapacità naturale il consenso dell'adottante, dato il carattere personalissimo ed essenzialmente morale del vincolo adottivo). L'azione intrapresa da uno degli eredi, sebbene possa essere esercitata da uno di loro anche in contrasto con altri, implica il litisconsorzio necessario di tutti perché l'annullamento investe l'atto nella sua interezza e l'eventuale restituzione non può avvenire pro quota (Cass. II, n. 19807/2020). Il Trib. Lucca 12 agosto 2017, n. 1574, ha ritenuto legittimato a dimostrare il grave pregiudizio e chiedere l'annullamento dell'atto anche il legatario, quale avente causa dell'incapace. La parte convenuta per l'esecuzione del contratto può far valere, in via di eccezione e anche per la prima volta in appello, il vizio di incapacità del contraente determinante l'annullabilità del contratto (Cass. n. 7469/2024). Prescrizione dell'azioneL'azione di annullamento per incapacità naturale si prescrive in cinque anni, a decorrere dal giorno in cui l'atto o il contratto è stato compiuto. Non ha rilevanza il momento, eventualmente diverso, nel quale si verifica il grave pregiudizio per l'incapace o viene accertata la mala fede dell'altro contraente. Il legislatore ha indicato un riferimento temporale preciso, a garanzia della chiarezza nei rapporti giuridici, che nella situazione in oggetto coinvolgono l'affidamento dei terzi in situazioni di menomazione di capacità intellettive e volitive che sono di non sempre facile visibilità e possono servire da pretesto liberatorio da impegni. L'art. 428 pone un principio necessariamente diverso rispetto al più generale disposto dell'art. 1442 c.c., per il quale la decorrenza dell'azione è fissata al momento in cui è cessata l'interdizione o l'inabilitazione. Nell'incapacità naturale manca un formale provvedimento che ne accerti la cessazione. Cass. n. 121/2016 ha osservato che con riferimento al diritto potestativo dell'incapace di intendere o di volere di impugnare il negozio o l'atto compiuto in detta condizione di transitoria incapacità, la situazione giuridica rappresentata da tale diritto potestativo può essere esercitata e trovare soddisfazione o con l'azione giudiziale di impugnazione per annullabilità del negozio oppure dell'atto o ricercando un accordo con la controparte e provvedendo attraverso un nuovo negozio ad eliminare quello invalido. Il diritto non è suscettibile di essere esercitato mediante un atto stragiudiziale di messa in mora in quanto consiste nella soggezione della controparte all'altrui impugnativa e non in un obbligo di prestazione cui la controparte deve adempiere. Ed ha conseguentemente affermato che la prescrizione del diritto potestativo suddetto può essere interrotta soltanto con l'esercizio dell'azione giudiziale e non con un semplice atto di messa in mora. Nello stesso senso: Cass. n. 11020/2000. BibliografiaAmadio, Macario, Diritto di famiglia, Milano 2016; Bianca, Diritto civile, I, Milano, 2002;Bonilini, Amministrazione di sostegno e interdizione giudiziale, in Pers. Fam. Succ. 2007, 488; Bruscuglia, Interdizione, in Enc. giur. 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