Codice Civile art. 1 - Capacità giuridica (1).


Capacità giuridica (1).

[I]. La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita [22 Cost.].

[II]. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all'evento della nascita [254, 320, 462, 784].

(1) Gli artt. 1 r.d.l. 20 gennaio 1944, n. 25 e 3 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 287 hanno abrogato l'originario comma 3 dell'articolo, che recitava: «Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall'appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali».

 

Inquadramento

L'art. 1 c.c., pur non fornendo una definizione di capacità giuridica, perentoriamente afferma che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, sicché prima di tale evento non si può essere titolari di situazioni giuridiche soggettive; il concepito, quindi, non essendo ancora nato, si rende titolare di diritti soggettivi sospensivamente (o risolutivamente) condizionati all'evento della nascita.

Sebbene il codice civile non esplicita il concetto di capacità giuridica, la dottrina è comunque concorde nel ritenere che essa sia «l'attitudine ... alla titolarità di posizioni giuridiche» (Bianca, 138) ovvero l'idoneità del soggetto ad essere titolare di diritti e doveri e più in generale di situazioni giuridiche soggettive (Falzea, 8; Dogliotti, 13). Si tratta di un concetto tipicamente potenziale, che sta a delineare la posizione generale del soggetto in quanto destinatario degli effetti giuridici (Falzea, 8). Con l'acquisto della capacità giuridica, l'individuo diviene quindi automaticamente titolare di diritti e doveri giuridici. 

Si è al cospetto di un principio, di carattere generale, di fondamentale importanza per il nostro ordinamento, al quale è dedicato, non a caso, il primo articolo del codice civile. L'importanza del principio è peraltro ribadita anche dalla Costituzione, che all'art. 22 sottolinea che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

La capacità giuridica è dunque un principio generale ed assurge a diritto inviolabile dell'uomo, garantito dagli artt. 2 e 3 Cost., che si distingue dalla capacità d'agire definita come l'idoneità del soggetto ad esplicare direttamente la propria autonomia negoziale e processuale.

Alcuni autori hanno sottolineato come la capacità giuridica – intesa come l'idoneità ad essere titolari di poteri e doveri giuridici, cioè a dire situazione giuridiche soggettive o passive – attiene tanto alla persona fisica (che l'acquista al momento della nascita) quanto alla persona giuridica (che l'acquista mediante il riconoscimento) ed è insopprimibile alla luce dell'art. 22 Cost., nel senso che, così facendo, costituisce uno dei criteri identificanti della persona, insieme alla cittadinanza ed al nome (Alpa, 210).

Diversamente, si discorre di “status” per indicare la qualità di un soggetto in funzione dell'appartenenza, tendenzialmente permanente, a determinate collettività o gruppi sociali.

La tradizione romanistica annoverava lo status libertatis, lo status civitatis e lo status familiae.

A parte quest'ultimo, i primi due concetti possono ritenersi definitivamente superati alla luce, da un lato, dell'abolizione della schiavitù e, dall'altro lato, di un concetto di “cittadinanza” ampio, non limitato alla sola cittadinanza italiana (secondo la disciplina dettata dalla l. 5 febbraio 1992, n. 91), ma estesa alla cittadinanza europea, ossia lo status derivante dall'appartenenza del cittadino ad uno Stato membro dell'U.E., così come enunciato dall'art. 9 del T.U.E..

Capacità e soggettività giuridica; capacità generale e incapacità speciali

Il concetto di capacità giuridica, così inteso, si lega saldamente con un altro concetto: la c.d. soggettività giuridica, intesa quale insieme di status di cui può essere titolare il soggetto di diritto (Messineo, 207). In buona sostanza, la soggettività giuridica fa assurgere l'individuo che ne è investito a soggetto di diritto, portatore cioè di interessi giuridicamente tutelati.

Si è discusso se i concetti di soggettività e di capacità giuridica siano tra loro coincidenti.

Per una prima tesi, detta “teoria organica”, vi è piena coincidenza tra questi due concetti (Dogliotti, 14). Al riguardo, è stato rilevato che «la capacità giuridica, identificandosi totalmente con la soggettività giuridica, si acquista con il sorgere stesso del soggetto ed al soggetto, per tutta la sua esistenza, si accompagna immutabile» (così Falzea, 23). Sicché la contrapposizione tra i concetti di capacità e soggettività è stata ricondotta dalla dottrina ad un'esigenza meramente didascalica (così Alpa - Ansaldo, 179). In particolare, è stato sostenuto che la distinzione tra capacità e personalità giuridica – quantomeno in ordine alle persone fisiche – non ha alcuna rilevanza concreta e deve essere abbandonata (Alpa, 213).

Più di recente , si assiste ad una nuova divaricazione tra questi due concetti, poiché, si afferma (Giardina, 275), vi sono alcune ipotesi, soprattutto di recente emersione, in cui il soggetto, seppur dotato di soggettività giuridica, è comunque privo di capacità giuridica; sicché, la nozione di soggettività, più ampia, supera ed eventualmente include in sé anche quello di capacità giuridica. È il caso del concepito, che, secondo alcune autorevoli opinioni dottrinarie, seppur dotato di soggettività giuridica è privo di capacità giuridica (sul tema, si rinvia al par. 2.1); è anche il caso degli enti giuridici privi di riconoscimento, che seppur sforniti di personalità giuridica, si ritengono, per opinione unanime, comunque dotati di soggettività giuridica (Alpa - Ansaldo, 176).

Il concetto di capacità giuridica sin qui illustrato può essere definito «generale»: esso non tollera limitazioni di sorta, in quanto attributo dell'essere umano. Non è quindi concepibile la figura della incapacità giuridica generale (Arena, 910). Alla capacità giuridica generale, quale attributo imprescindibile del soggetto di diritto, non limitabile, si affianca la capacità giuridica speciale, che si riferisce a singole fattispecie. Se la capacità giuridica è sempre generale, ad essa possono affiancarsi alcune eccezionali ipotesi di incapacità giuridica speciale, che impediscono cioè al soggetto di essere titolare di determinati rapporti giuridici (Falzea, 22) si pensi, ad es., alle limitazioni della capacità giuridica in relazione ad alcune qualità, come l'età ( art. 291 c.c. ), la salute ( art. 414 ss. c.c. ), il sesso ( art. 89 c.c. ) e l'onore (artt. 306 e 307 c.c.; art. 348, comma 4, c.c.; art. 384 c.c.; art. 440 c.c.; e secondo alcuni anche l'art. 330 c.c. ). Le incapacità speciali possono essere assolute o relative: le prime comportano una limitazione nella titolarità di situazioni giuridiche soggettive nei confronti della generalità dei consociati; le seconde, al contrario, comportano una limitazione nei confronti di determinati soggetti, e si giustificano in vista della particolare posizione da essi ricoperta (Bianca, 194; Messineo, 222). La specialità di queste ipotesi sta quindi in ciò, che esse, pur se limitate, lasciano sussistere la generale capacità giuridica di ogni individuo, non comprimibile in alcun modo. Così, ad es., costituiscono forme di incapacità giuridica relativa – nei casi cioè in cui la capacità è limitata solo con riguardo ad una ristretta cerchia di soggetti – le ipotesi contemplate negli artt. 87 e 88 c.c. (impedimenti al matrimonio), 293 e 295 (adozione di persone maggiori di età), 350 nn. 2) e 3) (nomina del tutore), 463 ss. (indegnità a succedere), 596 ss. e 779 (incapacità a succedere ed a ricevere liberalità) nonché i divieti di acquisto di cui agli artt. 1471 e 323,378 comma 1 e 396, comma 2 c.c..

La giurisprudenza, pronunciandosi in tema di riconoscimento della personalità giuridica agli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto ai sensi dell'art. 7, comma 2, l. n. 121/1985, ha sostenuto la tesi della profonda diversità tra soggettività giuridica, intesa come idoneità ad essere potenziali titolari di diritti ed obblighi giuridici, e capacità giuridica, che è invece la misura della soggettività, cioè l'effettiva titolarità di diritti e obblighi. I due concetti (soggettività giuridica e capacità giuridica), se coincidono per le persone fisiche, rimangono distinti per le persone giuridiche (Cass. I, n. 14247/2018).

Capacità giuridica e principio di eguaglianza: il caso dello straniero

La capacità giuridica compete, secondo quanto prescrive l'art. 1 c.c., all'essere umano in quanto tale.

In questo senso, «il riconoscimento della capacità giuridica generale a tutte le persone fisiche è quindi la prima condizione del principio di eguaglianza» (Bianca, 196). Esplicito, in direzione è, l'art. 22 Cost., che esclude in radice la privazione della capacità giuridica — oltreché del nome e della cittadinanza — per «motivi politici». Se ne ricava che la capacità giuridica spetta indifferentemente a tutti gli esseri umani, senza alcuna distinzione all'interno della categoria, divenendo essa uno dei criteri identificanti della persona, assieme alla cittadinanza ed al nome (AlpaAnsaldo, 174).

Secondo alcuni (Dogliotti, 20) il problema della capacità deve essere opportunamente inquadrato nella tematica della tutela costituzionale della persona mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 1 c.c. letto in combinato disposto con gli artt. 2, 3 e 22 Cost.

Il principio del riconoscimento indifferenziato della capacità giuridica ad ogni soggetto di diritto è stato poi esplicitato da ulteriori interventi legislativi, resi necessari per adeguare il sistema normativo ai principi contenuti nella Costituzione. A partire dall'art. 1, R.d.l. 20 gennaio 1944, n. 25, con cui si è provveduto ad abolire la legislazione razziale di stampo fascista (con lo stesso provvedimento si è proceduto, altresì, ad eliminare il comma 3 dell'art. 1 c.c.), sono stati via via resi espliciti i principi di matrice costituzionale, volti ad una totale e netta parificazione dell'essere umano, non solo in senso formale (eliminazione di ogni disciplina lato sensu discriminatoria, ai sensi dell'art. 3, comma 1, Cost.) ma anche in senso sostanziale (prescrivendo azioni positive volte alla concreta parificazione delle situazioni giuridiche soggettive, secondo quanto prevede l'art. 3, comma 2, Cost., in tema di uguaglianza sostanziale).

A questo specifico riguardo, lo straniero è chiamato a godere dei medesimi diritti fondamentali riconosciuti al cittadini, primo tra tutti proprio la capacità giuridica. La parificazione dei diritti tra cittadino e straniero, alla luce del superamento di ogni discriminazione fondata sulla provenienza geografica, è stata in realtà una conquista giuridica abbastanza travagliata.

Si deve però premettere che, ai sensi dell'art. 16 disp. prel. al c.c., lo straniero è ammesso a godere degli stessi diritti fondamentali riconosciuti al cittadino «a condizione di reciprocità», e cioè a condizione che al cittadino italiano sia attribuito, a sua volta, un egual trattamento nel Paese di cittadinanza dello straniero. Successivamente, la materia è confluita nel d.lgs. n. 286/1998, che, all'art. 2 prescrivendo che allo straniero debbono comunque essere riconosciuti «i diritti fondamentali della persona umana» di fonte sia nazionale che sovranazionale (comma 1) e il pieno godimento dei «diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano» (comma 2), sembra fare un passo in avanti nella prospettiva di piena tutela giuridica dello straniero.

Sebbene, l'art. 16 disp. prel. al c.c. non è mai stato abolito, lo stesso è stato oggetto di numerose interpretazioni giurisprudenziali costituzionalmente orientate (art. 10 Cost.), che hanno permesso di superare il limite della reciprocità per vedere attribuiti i diritti inviolabili a chiunque, sia esso cittadino o straniero.

Si vuol dire, cioè, che allo straniero la legge non attribuisce diritti, ma solo il godimento dei diritti attribuiti ai cittadini a condizione di reciprocità, e cioè che il medesimo godimento sia assicurato anche al cittadino italiano nel paese di origine dello straniero. La dottrina evidenzia come tale disposizione debba essere interpretata e controbilanciata dal principio di non discriminazione, sicché allo straniero non è negata la capacità giuridica ma – il che è diverso – allo stesso debbono applicarsi le leggi che nel suo paese sono applicate al cittadino italiano, ed in ciò consiste la cd. Condizione di reciprocità, fatto salvo, in ogni caso, il principio di non discriminazione, che rende applicabili allo straniero alcuni principi cardine su cui si regge l'ordinamento a prescindere dalla reciprocità, come ad es. gli artt. 2,3,10 e 24 Cost. (Alpa, 130).

Successivamente, la materia è confluita nel d.lgs. n. 286/1998, che, all'art. 2d.lgs. n. 286/1998, prescrivendo che allo straniero debbono comunque essere riconosciuti «i diritti fondamentali della persona umana» di fonte sia nazionale che sovranazionale (comma 1) e il pieno godimento dei «diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano» (comma 2), sembra fare un passo in avanti nella prospettiva di piena tutela giuridica dello straniero.

Sicché deve ritenersi che lo straniero munito di permesso di soggiorno non è soggetto alla condizione di reciprocità.

Sebbene, l'art. 16 disp. prel. al c.c non sia mai stato abolito, lo stesso è stato oggetto di numerose interpretazioni giurisprudenziali costituzionalmente orientate (art. 10 Cost.), che hanno permesso di superare il limite della reciprocità per vedere attribuiti i diritti inviolabili a chiunque, sia esso cittadino o straniero.

Di recente, in giurisprudenza, Cass. II, n. 7210/2013, secondo cui deve essere assicurato allo straniero la piena fruibilità dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali, di carattere sia nazionale che sovranazionale, poiché, nonostante l'art. 16 prel. sulla condizione di reciprocità non sia stato oggetto di interventi legislativi a carattere demolitorio, quest'ultimo è applicabile solo ed esclusivamente in relazione ai diritti non fondamentali della persona, atteso che i diritti fondamentali, aventi carattere primario in quanto previsti dalla Costituzione, non possono trovare limitazione nella legge ordinaria (come l'art. 16 prel.); sicché, in questa prospettiva, l'art. 16 prel., nella parte in cui subordina alla condizione di reciprocità l'esercizio dei diritti civili da parte dello straniero, pur essendo tuttora vigente, deve essere oggetto di interpretazione costituzionalmente orientata, che assicuri tutela integrale ai diritti inviolabili. In questo senso, quindi, anche per le relazioni negoziali anteriori al d.lgs. n. 286/1998 lo straniero, se titolare di regolare permesso di soggiorno, è capace di rendersi acquirente di un immobile in deroga al principio di reciprocità, posto che l'accesso alla proprietà privata di un bene è riconosciuta in favore di tutta la collettività ex art. 42 Cost.

Nello stesso senso si pronuncia anche Cass. III, n. 23432/2014, in cui si ribadisce che l'art. 16 prel., pur essendo tuttora vigente, deve essere interpretato in modo costituzionalmente orientato, alla stregua dell'art. 2 Cost., affinché venga assicurata tutela integrale dei diritti inviolabili degli stranieri, per cui essi saranno certamente legittimati ad avvalersi della tutela risarcitoria (per lesione dei propri diritti inviolabili) a prescindere da qualsiasi condizione di reciprocità (conformi: Cass. III, n. 8212/2013; Cass. III, n. 1493/2012; per la giurisprudenza di merito si veda, Trib. S. Maria Capua V., n. 1805/2016).

L'acquisto della capacità giuridica: la nascita

Il definitivo acquisto della capacità giuridica coincide con l'evento della nascita, stante il chiaro disposto dell' art. 1, comma 1, c.c. (Mazzoni - Piccinni, 70: «È con la nascita – evento naturale – che il diritto assegna anche la nascita – giuridica – del soggetto o persona»).

Anche la nascita non è definita dal codice ma, per unanime opinione (Bianca, 199), essa è stata fatta coincidere con l'inizio della respirazione polmonare, a seguito della separazione del feto dal grembo materno, che i criteri medico-legali della c.d. «docimasia polmonare» sono diretti ad accertare. Quindi «può dirsi nato soltanto chi ha respirato» (Scardulla, Nascita, 520).

Non è richiesto alcun altro requisito, sicché, a differenza del precedente codice civile del 1865, non è necessario accertare ulteriormente la vitalità, e cioè l'idoneità alla sopravvivenza, la cui sussistenza non è necessaria per l'acquisto della capacità giuridica come chiaramente desumibile dal dettato normativo di cui all'art. 1 in commento.

A ciò consegue che anche il nato, deceduto dopo breve tempo dal parto, abbia acquistato la capacità giuridica “piena”.

Pertanto, qualora il soggetto sia nato, anche solo per un secondo, per poi perdere immediatamente la vita – non sia cioè «sopravvissuto» – si aprirà la successione nei suoi confronti, in quanto, pur se per un solo istante, avrà acquisito i lasciti fatti in suo favore, che di conseguenza verranno trasmessi ai suoi eredi iure successionis.

Questa sottile differenza è stata ben messa in rilievo dal legislatore, nell'art. 37, d.P.R. n. 396/2000, ove si è avuto cura di precisare che se il «bambino è nato morto l'ufficiale dello stato civile forma il solo atto di nascita», mentre nel caso in cui il «bambino è morto posteriormente alla nascita» l'ufficiale dello stato civile forma anche quello di morte.

In giurisprudenza, App. Torino, IV, 3 giugno 2016 , secondo cui, però, anche se la respirazione spontanea, l'emissione del primo vagito, tradizionalmente è sicuro indice della venuta in vita di un nuovo essere, in alcuni casi questo meccanismo può essere alterato da varie cause, non sempre identificabili; in ogni caso, nel momento in cui per l'effetto di intervento medico si stabilizza per il neonato una condizione di funzionalità degli organi vitali, non può dubitarsi che egli sia venuto in esistenza ed abbia acquisito, con lo status di persona fisica, la capacità giuridica e con essa la possibilità di essere centro di imputazione di interessi e di diritti soggettivi. Nel medesimo senso, in passato, Cass. III, n. 11503/1993 .

La giurisprudenza riconosce in favore del nascituro o concepito un'autonoma soggettività giuridica (specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che dir si voglia) perché titolare, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta (quali il diritto alla vita, il diritto alla salute o integrità psico-fisica, il diritto all'onore o alla reputazione, il diritto all'identità personale) sospensivamente condizionati all'evento della nascita ex art. 1 c.c., comma 2 sulla base dei due presupposti della fuoriuscita del feto dall'alveo materno ed il compimento di un atto respiratorio, con l'eccezione per la rilevanza giuridica del concepito, anche sul piano patrimoniale, in relazione alla successione mortis causa ex art. 462 c.c. ed alla donazione ex art. 784 c.c. (Cass. III, n. 10741/2009).

Segue. La condizione giuridica del concepito

L'ordinamento, però, tutela l'inizio della vita umana anche prima dell'espulsione del feto dal grembo materno, in un momento cioè anteriore alla nascita. Il soggetto, non potendo definirsi nato, viene indicato in questo caso con il termine «concepito».

Alla figura del nascituro concepito fa chiaramente riferimento l'art. 1, comma 2, c.c., che lo abilita ad essere titolare di taluni diritti lui indirizzati, soggiungendo però che questi ultimi «sono subordinati all'evento della nascita». Diversa la figura del nascituro non concepito, che solo eccezionalmente può essere considerato astrattamente titolare di posizioni giuridiche soggettive: al riguardo, gli artt. 462 e 784 c.c., rispettivamente in tema di capacità a succedere e a donare, ammettono la riferibilità di acquisti per atto inter vivos (donazione) o mortis causa (testamento) a favore dei non concepiti, a condizione che essi siano «figli di una determinata persona vivente» al tempo in cui si fece l'atto di donazione ovvero nel momento coincidente con la morte del testatore.

Appare dunque chiaro come solo il nascituro concepito possa essere eventualmente considerato, dal nostro ordinamento, fornito di una sia pur limitata capacità giuridica. Tant'è vero che, secondo quanto disposto dagli artt. 462 e 784 c.c., essi sono pienamente capaci sia di succedere per testamento sia di ricevere per atto donativo, senza alcuna limitazione, se non quella dello loro effettiva nascita, essendo tali atti subordinati alla sola condizione (secondo alcuni sospensiva, secondo altri risolutiva) della nascita.

In realtà, la questione è controversa in dottrina.

Secondo l'impostazione più tradizionale, non si può parlare in questo caso, di una (sia pur attenuata) capacità giuridica, poiché la capacità è un dato che non ammette graduazioni, o c'è o non c'è (Rescigno, 220; Messineo, 208, secondo cui, prima della nascita, il soggetto è solo una «speranza di uomo»). Alla tesi che nega la soggettività giuridica del nascituro concepito, essendo il requisito in esame collegato intimamente con l'evento della nascita, aderisce anche altra autorevole dottrina, secondo cui «il concepito è sì un essere in formazione, ma di quest'ultima rimane incerto il completamento e quindi, ad un tempo, la nascita e l'acquisto della capacità giuridica» (così Scardulla, Nascituro, 538; Santoro Passarelli, 26, parla di «centro autonomo di rapporti giuridici in previsione ed in attesa della persona»).

A favore della tesi che vede il concepito non come soggetto di diritto (criterio di imputazione), ma piuttosto come oggetto di tutela (criterio di protezione) per l'ordinamento, si esprime altra parte della dottrina (Cricenti, 465). Per questa tesi, il tentativo di elevare il concepito a soggetto di diritto costituisce, in realtà, il risultato di un abuso della soggettività giuridica.

Per altri, il verificarsi dell'evento della nascita, in quanto tale, quale condizione risolutiva all'eventuale acquisto — nel senso che non verificandosi l'evento nascita, l'atto di autonomia privata sarà definitivamente caducato, e si considera quindi come mai esistito — non impedisce comunque di considerare la capacità del concepito come «provvisoria», che, in base a quanto previsto dall'art. 320 c.c., in tema di amministrazione dei beni del concepito da parte dei suoi rappresentanti legali, richiede concreti atti di gestione, da compiere immediatamente e non già dopo la nascita (Bianca, 202, secondo cui è fuorviante parlare di capacità sospensivamente condizionata, trattandosi piuttosto di cd. capacità prenatale, seppur provvisoria, essendo il concepito portatore di interessi che devono essere fatti valere attualmente).

Una tesi intermedia, invece, parla di «fattispecie a formazione progressiva», per indicare che in realtà si è in presenza di una situazione di attesa, che si risolve in una tutela meramente conservativa di un patrimonio destinato senza titolare (così Gazzoni, 181, secondo cui «non è sufficiente il concepimento, ma è necessaria anche la nascita (art. 1 capoverso c.c.) e solo al momento della nascita può dirsi che la fattispecie sia perfetta»).

L'orientamento contrario al riconoscimento della capacità giuridica in capo al concepito, in realtà, è stato oggetto di revisione da parte della più recente dottrina, anche alla luce di importanti interventi legislativi (a partire dalla fondamentale legge, che, all'art. 1, comma 1, l. n. 194/1978 enuncia come lo Stato tuteli la vita umana fin dal suo inizio, e quindi a partire dal concepimento, sino alla l. n. 40/2004, in tema di procreazione assistita, che agli artt. 1 e 13 l. n. 40/2004, tutela anche i diritti del concepito e dell'embrione). D'altra parte, in relazione ai diritti di natura non patrimoniale, l'art. 254 c.c., ammettendo la riconoscibilità del figlio naturale anche prima della nascita, e dopo il concepimento, implicitamente dimostra come il nostro ordinamento, seppur limitatamente ad interessi a carattere personale, fornisca tutela anche a chi, seppur non nato, sia soltanto concepito.

Proprio alla luce di tale ultimo dato normativo, è stato sostenuto come il concepito, già al livello fetale, goda della tutela che generalmente l'ordinamento accorda ai diritti fondamentali legati alla sfera esistenziale, con riconoscimento quindi della sua piena soggettività giuridica, almeno nel campo dei diritti a carattere non patrimoniale. La tutela della vita del nascituro concepito, e la tutela del suo status giuridico di figlio (come si ricava dall'art. 254 c.c., che ammette il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio «posteriore ... al concepimento»), dimostrano con nitidezza che, al di fuori dei rapporti strettamente patrimoniali, il concepito è certamente dotato di soggettività giuridica (Giardina, 258; contra, però, Gazzoni, 195). Al contrario, la tutela degli interessi strettamente patrimoniali del concepito, come detto, si traduce in una aspettativa giuridica, con funzione conservativa e di garanzia.

Vi è poi chi, senza necessariamente prendere posizione in merito alla disputa, ritenuta nominalistica, del riconoscimento di piena capacità giuridica del concepito, ritiene che la questione vada trattata esclusivamente alla luce del dettato costituzionale, dal quale si evince come la tutela della vita prenatale sia stata elevata ad interesse generale, sicché «il nostro, come tutti i sistemi giuridici occidentali, conosce forme di tutela che sono indipendenti dalla titolarità dei diritti che potrebbero essere fatti valere» (in questo senso, Mazzoni — Piccinni, 87, secondo cui ciò che conta è la «tutela materiale» del concepito, inteso quale essere umano «in quanto tale»; così essenzialmente anche Bessone — Ferrando, 193)

L'approccio della giurisprudenza al delicato tema in oggetto è stato, in tempi anche piuttosto recenti, piuttosto ondivago.

In particolare la giurisprudenza, pronunciatasi con riguardo al danno c.d. «da nascita indesiderata» (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo da parte del sanitario dell'esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di abortire), ed al diritto del nascituro «a nascere sano» (o addirittura «a non nascere se non sano»), inteso come diritto del nato a non subire lesioni all'atto del parto o prima di esso, se potevano essere tempestivamente diagnosticate e curate, si registrano diversi e contrastanti orientamenti.

Una prima opinione, di carattere tradizionale, si è mostrata contraria al riconoscimento di una autonoma soggettività giuridica in capo al concepitoCass. III, n. 3467/1973, nel senso dell'eccezionalità delle disposizioni di legge che, in deroga al principio generale dettato dall'art. 1, primo comma, prevedono la tutela dei diritti del nascituro, sulla base del fatto che la personalità giuridica è acquisita dal soggetto per effetto della nascita, e solo a partire da questo momento). Così, secondo la Cass. III, n. 14488/2004, in virtù del contratto di ricovero ospedaliero, intercorso tra la partoriente e l'ente ospedaliero, esplicante effetti protettivi a favore del terzo (e cioè nei confronti del nato, alla cui tutela tende quell'obbligazione accessoria), ancorché le prestazioni debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla nascita, è solo con la nascita che il soggetto acquista la capacità giuridica, e quindi può agire per far valere la responsabilità contrattuale per l'inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con terzi (conforme: Cass. III, n. 16123/2006).

In senso opposto , si registra ( Cass. III, n. 10741/2009 ) la diversa tesi secondo cui il concepito sarebbe dotato di «soggettività giuridica» - intesa in senso decisamente più ampio rispetto al diverso concetto di capacità giuridica delle persone fisiche (che si acquista con la nascita ex art. 1 c.p.c., comma 1) e di quella di personalità giuridica (con riferimento agli enti riconosciuti, dotati conseguentemente di autonomia "perfetta" sul piano patrimoniale) – limitatamente però alla titolarità di alcuni interessi personali protetti, tra cui appunto figura il diritto al risarcimento del danno a seguito di malformazioni imputabili ad errore del medico (c.d. diritto «a nascere sano»). La S.C. giunge a ritenere il concepito comunque «dotato di autonoma soggettività giuridica», in quanto titolare, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta (come, ad es., il diritto alla vita, il diritto alla salute o integrità psico-fisica), rispetto ai quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita è però condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. È poi radicalmente esclusa la configurabilità di un «diritto a non nascere (se non sano)», dato che l'ordinamento tutela la persona esclusivamente con proiezione verso la vita, e non verso la morte.

In posizione intermedia si pongono tutte quelle pronunce che, pur non arrivando a riconoscere autonoma soggettività giuridica al concepito, lo ritengono comunque oggetto di tutela da parte dell'ordinamento giuridico. In questo senso già la Cass. I, n. 11503/1993 , sino ad arrivare alla fondamentale Cass. III, n. 9700/2011 , che, in tema di risarcimento del danno derivante dalla perdita di un genitore da parte del figlio, non ancora nato al momento dell'infausto evento, ne riconobbe la legittimazione (retroattiva) ad agire in proprio, statuendo che con l'acquisto della personalità giuridica «sorge e deve essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento». Questa tesi è stata sostenuta con vigore anche da Cass. III, n. 16754/2012 , secondo cui «l'intero plesso normativo, ordinario e costituzionale, sembra muovere nella direzione del concepito inteso come oggetto di tutela e non anche come soggetto di diritto»; in particolare, per quest'ultima pronuncia l'inadempimento del medico – concretatosi nell'omissione di informazioni alla gestante in merito all'esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali rispetto a quello in concreto prescelto, impedendole così di accertare l'esistenza d'una malformazione congenita del concepito – legittima quest'ultimo, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ad agire per ottenere il risarcimento del danno, cagionato dal sanitario, consistente nell'essere nato non sano.

Quest'ultima tesi è stata, in seguito, recepita dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. , n. 25767/2015 ).

Secondo la S.C., sebbene sussista l'astratta titolarità attiva dell'individuo, pur quando l'illecito sia consumato prima della sua nascita, non è configurabile, nel nostro ordinamento, il diritto del nascituro, venuto alla luce, a chiedere al sanitario il risarcimento del danno da vita “ingiusta”: il nostro ordinamento ignora il diritto a non nascere se non sano, e, comunque, non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita, tanto più che la “non vita” non costituisce un “bene della vita”: val quanto dire anche che per il bambino nato con una patologia grave è insostenibile la tesi del diritto a non nascere, ossia a rifiutare una vita segnata da malformazioni, tare e malattie e, come tale, indegna di essere vissuta.

Tuttavia, non è affatto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato cioè di capacità giuridica – contro il chiaro dettato dell' art. 1 c.c. – per confermare l'astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno patito in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Può infatti essere riconosciuta al minore la legittimazione attiva ad agire per il risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione, in quanto oggetto di tutela, anche senza essere soggetto dotato di capacità giuridica ai sensi dell'art. 1; la domanda risarcitoria va poi scrutinata in concreto, potendo mancare un danno conseguenza, quale consacrato dall' art. 1223 c.c. , con conseguente rigetto della richiesta a tal fine formulata per mancanza in concreto del nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso.

Le Sezioni Unite (Cass. S.U. , n. 25767/2015 ) si sono altresì espresse in tema di ripartizione dell'onere della prova, giungendo a sostenere che, a questo scopo, occorre che l'interruzione della gravidanza sia stata all'epoca legalmente consentita, cioè a dire lecita, e che venga provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza in presenza di tali specifiche condizioni facoltizzanti. In applicazione dell' art. 2697 c.c. , in tema di vicinanza della prova, sarà la madre a dover assolvere tale onere probatorio, potendosi però avvalere anche della prova presuntiva.

La successiva giurisprudenza pare essersi uniformata al dictum delle Sezioni Unite : così, App. Catania, n. 536/2016 , secondo cui spetta al genitore che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale, potendo tale onere probatorio essere assolto anche in via presuntiva (conformi: Trib. Salerno, n. 2984/2016 e Cass. III, n. 6793/2016 ).

Il Trib. Milano, IX, ord. 31 maggio 2016, in tema di accertamento giudiziale di paternità, ha sostenuto la legittimazione attiva del nascituro – successivamente all'evento della nascita – anche in seguito al decesso del presunto padre biologico, pur trattandosi di un interesse non rappresentato da un soggetto attuale: «il concepito è l'essere umano nella fase primordiale dello sviluppo biologico e, dunque, non è ancora persona fisica».

In senso conforme all'indirizzo delineato dalle Sezioni Unite, si v. Cass. III, n. 25849/2017 la quale ha affermato che il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale, gravando sul medico la prova contraria (i.e. che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale).  

Secondo Cass. III, n. 24189/2018, il principio dell'irrisarcibilità del preteso "diritto a non nascere se non sano" può essere esteso anche al caso dello stato vegetativo permanente, in quanto anche chi versi in stato vegetativo è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie (e ciò a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedere autonomamente), il che porta a concludere che anche rispetto a tale condizione la “non vita” non possa essere qualificata bene della vita, con conseguente esclusione in radice della configurabilità del danno ingiusto.

La Perdita della capacità giuridica: la morte.

La morte segna la fine dell’esistenza di una persona e, con essa, viene meno la capacità giuridica. Si rinvia al commento sub art. 4.

Le persone giuridiche.

Il fenomeno associativo per il perseguimento di finalità non lucrative (non profit), in origine visto con occhio di sospetto, trova oggi piena copertura costituzionale.

Con l'entrata in vigore della Costituzione, è stato ribadito che «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale» (art. 18, comma 1, Cost., che al comma 2 vieta la costituzione di associazioni segrete e quelle a carattere politico che si servono di organizzazioni a carattere militare); è stato altresì sancito il principio secondo cui «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo [...] nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità». Estrinsecazioni del principio della libertà associativa sono da rinvenire negli artt. 19 (in tema di libertà associativa per fini di culto), 39 (con riguardo alla libertà associativa per fini sindacali), e 49 (con riguardo alla libertà associativa per fini politici) Cost..

In passato, invece, vigente il vecchio art. 17 c.c., legato al superato sistema «concessorio», erano posti rilevanti limiti agli atti dispositivi compiuti dalle persone giuridiche, tanto che era comunemente sostenuta in dottrina la tesi della capacità limitata, quanto agli acquisti, delle persone giuridiche.

Infatti, secondo il previgente art. 17 c.c. «La persona giuridica non può acquistare beni immobili, né accettare donazioni, o eredità né consentire legati senza l'autorizzazione governativa», la quale ultima è condizione di efficacia dei predetti atti dispositivi. Peraltro, erano previsti limiti ancor più rigorosi per gli enti non riconosciuti, ai quali era precluso accettare lasciti ereditari, o ricevere per donazione, se non fosse stato contestualmente attivato il procedimento di riconoscimento (artt. 600 e 786 c.c.). A maggior ragione, si riteneva che agli enti non riconosciute fosse precluso in senso assoluto l'acquisto di beni immobili.

  Questo quadro normativo ha fatto da sfondo alle tradizionali teorie secondo cui le persone giuridiche hanno una capacità «parziale» rispetto alle persone fisiche, dato che risulta poco agevole adattare un concetto puramente naturalistico – la capacità giuridica e d'agire – ad enti privi di fisicità: è quindi stato sostenuto, per ovviare a questo inconveniente, che nel rapporto organico balza in primo piano un fenomeno di capacità non dell'ente in prima persona, ma bensì dell'organo-soggetto, «che perciò il diritto considera, sotto il profilo psicologico, come l'unico autore dell'atto» (Falzea, 16, aderendo alla teoria organica, ha sostenuto che «l'elaborazione di un concetto di organo distinto da quello di rappresentante, risponde dunque alla esigenza indeclinabile di permettere agli enti collettivi di diventare titolari di fattispecie giuridiche, oltre che di effetti giuridici: di essere cioè fonti di produzione di fattispecie giuridiche»).

Alcuni illustri studiosi (Messineo, 286), sono giunti a sostenere che «la persona giuridica civile ha capacità giuridica limitata», proprio a causa della necessità per la stessa di ottenere l'autorizzazione per il compimento dei più importanti atti della vita civile. Altri autori, pur ritenendo che non è ravvisabile una diversa estensione della capacità delle persone giuridiche, hanno sostenuto «la tesi che, a differenza della capacità delle persone fisiche, la capacità delle persone giuridiche sia, in linea di principio, graduabile, e che, in concreto, di solito la sua ampiezza muti secondo il tipo di ente cui si riferisce» (così Basile - Falzea, 245, che discorrono al riguardo di una sorta di «capacità speciale»).

Ad oggi, a seguito dell'abrogazione delle predette disposizioni normative (con la l. 15 maggio 1997, n. 127), ed a seguito dell'introduzione del regime «misto» di riconoscimento della personalità giuridica (con il d.P.R., 10 febbraio 2000, n. 361), il quadro in precedenza delineato può dirsi nettamente superato.

Tanto è vero che, costituisce ormai opinione costante sia in dottrina che in giurisprudenza quella secondo cui la soggettività spetta a tutti gli enti, a prescindere dal loro riconoscimento, i quali, in aderenza al disposto di cui all' art. 2 Cost., sono sempre dotati di capacità giuridica e capacità d'agire, incidendo il riconoscimento solo sull'autonomia patrimoniale (cfr. il commento sub art. 14 c.c.). Viene in definitiva delineata «una nozione di soggettività molto più estesa di quella tecnico-legislativa nota come personalità giuridica» (così De Giorgi, 342, secondo cui «la soggettività – la caratteristica cui si ricollegano i più rilevanti effetti – non è più concessa e non è più legata alla personalità giuridica, ma spetta agli enti per il solo fatto di essersi costituiti»; così anche Gallo, 838: «la soggettività giuridica, vale a dire la capacità di essere centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, è riconosciuta non solo alle persone fisiche, ma anche ad entità di altra natura, vale a dire le persone giuridiche», ancorché senza che vi sia una perfetta coincidenza tra la capacità giuridica delle persone fisiche e quella delle persone giuridiche; Galgano, 392).

In questo senso anche la giurisprudenza cfr. Cass. I, n. 1476/2007, per la quale l'associazione non riconosciuta, ancorché sfornita di personalità giuridica, è considerata dall'ordinamento come centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati, cui sono analogicamente applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute o di società.

Nel medesimo senso, Cass. I, n. 17683/2010, secondo cui Lo studio professionale associato anche se privo di personalità giuridica rientra a pieno titolo nel novero di quei fenomeni di aggregazione di interessi (quali le società personali, le associazioni non riconosciute, i condomini edilizi, i consorzi con attività esterna e i gruppi europei di interesse economico di cui anche i liberi professionisti possono essere membri) cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici e che sono perciò dotati di capacità di stare in giudizio come tali, in persona dei loro componenti o di chi, comunque, ne abbia la legale rappresentanza secondo il paradigma indicato dall' art. 36 c.c., fermo restando che il suddetto studio professionale associato non può legittimamente sostituirsi ai singoli professionisti nei rapporti con la clientela, ove si tratti di prestazioni per l'espletamento delle quali la legge richiede particolari titoli di abilitazione di cui soltanto il singolo può essere in possesso (Principio affermato dalla S.C. relativamente ad azione revocatoria rivolta nei confronti di studio professionale associato relativa ad un pagamento eseguito con assegno intestato a professionista).

  Le associazioni non riconosciute sono definite in dottrina come quelle «unioni o raggruppamenti di persone fisiche per il raggiungimento di uno scopo comune di carattere superindividuale ed il conseguimento di vantaggi, non necessariamente economici, ragguagliati, in misura non predeterminata e costante, per ciascun associato» (Persico, 878).

Con l'abrogazione degli artt. 600 e 786 c.c., ad opera della l. 15 maggio 1997, n. 127, sono venute meno le tradizionali limitazioni che contraddistinguevano le associazioni non riconosciute. In passato, queste ultime potevano accettare disposizioni per causa di morte (art. 600 c.c.), ovvero rendersi beneficiarie di atti di liberalità ( art. 786 c.c.), a condizione di attivare il procedimento di riconoscimento. Peraltro, anche ottenuto il riconoscimento, vi era l'ulteriore limite costituito dall' art. 17 c.c., secondo cui le persone giuridiche non possono rendersi acquirenti di beni immobili, né accettare donazioni, o eredità né consentire legati senza l'autorizzazione governativa.

Venute meno queste disposizioni normative, ad oggi le associazioni non riconosciute vengono comunemente ritenute soggetti di diritto, ancorché in assenza di formale riconoscimento.

Anche se è indubbio che l'associazione non riconosciuta, in quanto priva del formale riconoscimento, non può dirsi munita di personalità giuridica, essa possiede la soggettività giuridica, nonché la capacità necessaria per operare nel mondo del diritto.  

Diritto internazionale privato.

La Legge 31 maggio 1995 n. 218 di riforma del diritto internazionale privato dedica alla capacità giuridica l'art. 20, secondo cui la capacità giuridica delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale: si adotta, dunque, il criterio di collegamento della legge nazionale.

Così, l'acquisto come la perdita della capacità giuridica sono disciplinate, di regola, dalla legge nazionale della persona.

Ai sensi dell'art. 20, comma 2, tuttavia, le condizioni speciali di capacità, prescritte dalla legge regolatrice di un rapporto, sono disciplinate dalla stessa legge.

Va dunque distinta, a questi fini, la capacità giuridica generale (soggetta al criterio della legge nazionale) dalla capacità giuridica speciale, così come espressamente regolata dalla legge (è il caso dell'art. 291 c.c. sulla differenza di età che deve sussistere tra adottante e adottato, ovvero dell'art. 463 c.c. sull'indegnità a succedere e dell'art. 86 c.c., che richiede lo stato libero per contrarre matrimonio), per la quale viene in rilievo il differente criterio dalla lex causae, intesa come legge regolatrice dello specifico rapporto in questione (Daniele 1239 ss.).

Fanno eccezione gli artt. 27 (capacità di contrarre matrimonio), 35 comma 2 (capacità di riconoscere il figlio naturale) e 47 (capacità di testare), per i quali, pur trattandosi di capacità speciali, continua ad applicarsi il criterio della lex patriae.

Bibliografia

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