Codice Civile art. 414 - Persone che possono essere interdette (1).

Francesco Bartolini

Persone che possono essere interdette (1).

[I]. Il maggiore di età [2] e il minore emancipato [390], i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti [417 ss., 429; 40 att.; 643 c.p.] quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 4 2 l. 9 gennaio 2004, n. 6. Il testo precedente recitava: «Persone che devono essere interdette. [I]. Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti».

Inquadramento

Nel momento dell'entrata in vigore del codice civile l'interdizione giudiziale assolveva ad una funzione di esclusione dalla vita sociale che in parte risentiva della natura afflittiva dell'interdizione legale quale pena accessoria nel diritto penale. Analogo ne era l'effetto, nei due ambiti dell'ordinamento. Quello dell'isolamento dell'incapace e della conseguente difesa della società. Le persone insane di mente dovevano essere sottoposte ad un regime giuridico specifico e la responsabilità delle loro azioni doveva essere affidata a soggetti idonei ad assicurare che esse non nuocessero né a loro stesse né agli altri. In progressione, e in una società divenuta più assistenziale, l'interdizione e la meno severa inabilitazione hanno acquisito la diversa finalità di proteggere l'incapace. Interdizione e inabilitazione sono divenuti istituti di protezione di coloro che, per le condizioni di età avanzata, di menomazione fisica o psichica o per altre circostanze ad effetto invalidante necessitano di un aiuto perché possano provvedere ai loro interessi in modo ordinato e senza procurarsi danni..

L'evoluzione in questo senso è passata attraverso la constatazione della necessità oggettiva di disporre di strumenti validi per superare le insufficienze dei soggetti incapaci di destreggiarsi nelle relazioni di rilevanza giuridica; per poi comprendere che occorreva non soltanto colmare dei vuoti di capacità di agire ma anche e soprattutto di fornire un appoggio e un aiuto ai meno fortunati. È maturata in questo più consapevole contesto l'introduzione dell'amministrazione di sostegno, istituto che già nella sua denominazione evidenzia un aggiornato approccio al problema delle incapacità a compiere gli ordinari atti giuridici.

L'inserimento di questo istituto ha reso necessario un ridimensionamento dell'ambito di applicazione dell'interdizione. La l. 6/2004 , istitutiva dell'amministrazione di sostegno, ha sostituito il testo dell'art. 414, che indicava i presupposti dell'interdizione, allo specifico scopo di indicare i reciproci limiti applicativi di questi due strumenti protettivi degli incapaci. L'aggiungersi di questa nuova figura giuridica ha necessariamente occupato spazi che appartenevano alla sfera di interesse di quella preesistente. Inoltre, il chiaro intento di sussidio che ha motivato l'intervento innovativo ha posto l'esigenza di riconsiderare, in modo altrettanto nuovo, il tradizionale istituto dell'interdizione.

Con il citato intervento legislativo le nozioni delucidate dalla dottrina tradizionale sono divenute obsolete e in larga parte inservibili. Gli studiosi hanno dovuto assumere un atteggiamento del tutto diverso per l'interpretazione del testo delle norme risultanti dalle modifiche normative. La giurisprudenza ha superato molte delle questioni sorte sulla base dei risultati di un confronto diretto tra le finalità da riconoscere all'amministrazione di sostegno e quelle da riservare all'interdizione.

Resta ferma la distinzione da farsi tra la formale interdizione e l'incapacità naturale. In proposito Cass. III, ord. n. 17914/2022 ha affermato che l'art. 75 c.p.c. nell'escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state private della capacità di agire con una sentenza di interdizione o di inabilitazione, ovvero con provvedimento di nomina di un rappresentante e non anche a quelle colpite da incapacità naturale, ma non interdette o inabilitate. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che non aveva verificato d'ufficio la validità della procura "ad litem" conferita dal disabile, affetto da grave deficit sensoriale, motorio ed intellettuale, che era parte danneggiata nella causa di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità medica).

I confini applicativi tra amministrazione di sostegno e interdizione

L‘introduzione nel nostro ordinamento processuale dell’istituto dell’amministrazione di sostegno ha posto il problema relativo alle differenze e alla determinazione dei confini di applicazione rispetto alla preesistente figura dell’interdizione.

I presupposti per il ricorso all'amministrazione di sostegno sono indicati nell'art. 404 c.c. e possono essere sintetizzati come segue:

- impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi

- per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica.

L'amministratore di sostegno può dunque essere nominato anche per situazioni contingenti di impossibilità se derivante da situazioni di infermità o comunque da menomazioni sia fisiche che psichiche.

I presupposti per far luogo all'interdizione, sono, invece:

- l'abituale infermità di mente

- che rende incapaci di provvedere ai propri interessi

- e rende necessario il provvedimento per assicurare una adeguata protezione all’incapace.

L’interdizione è pertanto strumento tipico di protezione di soggetti affetti da infermità mentale, abituale e di gravità tale da renderli incapaci, in prospettiva e nel tempo, di badare ai loro interessi.

Il confronto tra le due normative evidenzia le differenze. Il secondo dei due istituti costituisce un rimedio con il quale ovviare alla totale incapacità derivante da situazioni stabili di infermità di mente; l'altro può essere utilizzato a favore di soggetti in condizioni di incapacità che possono dipendere da menomazioni anche fisiche e che possono essere dovute a circostanze suscettibili di evolversi nel tempo. Entro questi estremi, possono poi darsi elementi che avvicinano le due figure e impongono di operare distinzioni e precisazioni. Ad esempio, si afferma che l'abitualità dell''infermità mentale giustificante l'interdizione può non essere permanente o definitiva, posto che l'interdizione è revocabile per i mutamenti sopravvenuti; e si discute se incidano sull'abitualità i lucidi intervalli e le ricadute. Nonostante le incertezze che possono sorgere nelle applicazioni concrete, in dipendenza della multiforme realtà delle vicende in fatto, resta chiara la diversità concettuale tra le due figure descritte dalla normativa: l'interdizione, quale misura da apprestare per situazioni tendenzialmente stabili di impossibilità di agire giuridicamente a causa di infermità mentale; l'amministrazione di sostegno, quale misura protettiva per condizioni di impossibilità di gestire i propri interessi di rilievo giuridico a causa di infermità o menomazioni, in genere, anche risolvibili e temporanee.

La giurisprudenza ha interpretato la normativa in un senso del tutto originale e avulso dai dati letterali. Essa ha attribuito rilevanza preminente alla funzione di protezione e all'utilità dello strumento da scegliere per fornire questa protezione: ravvisando tra i due istituti in oggetto non già una differenza quantitativa, ma una diversità nella qualità dello strumento da operare.

La giurisprudenza ha più volte affermato che, dopo l'introduzione dell'amministrazione di sostegno, l'interdizione va considerata un istituto residuale, cui ricorrere soltanto quando non è applicabile l'altro. Il giudice, si afferma, ha un potere — dovere di scelta tra l'amministrazione di sostegno e l'interdizione. Questo potere non può fondarsi sul grado più o meno intenso di infermità psichica del destinatario del provvedimento, quanto sull'idoneità della misura da adottare a fronteggiare le concrete esigenze del soggetto, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la fattispecie, e ciò sia in considerazione del tipo di attività che devono essere compiute per conto del beneficiario e sia della durata e della natura dell'impedimento (Cass. n. 18171/2013, in Foro it., 2013, 11, 3210, nota di Casaburi; conforme Cass. n. 13929/2014). Si è affermato espressamente che, in materia di misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, la l. n. 6/2004,  ha configurato l'interdizione come istituto di extrema ratio, nel perseguire l'obiettivo della minor limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l'assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente. Da questa affermazione si è desunta la necessità, prima che il giudice pronunci l'interdizione, di valutare l'eventuale conformità dell'amministrazione di sostegno alle esigenze del destinatario, alla stregua della peculiare flessibilità del nuovo istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa nonché della complessiva condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie: mentre non costituisce condizione necessaria all'applicazione di tale misura la circostanza che il beneficiario abbia chiesto, o quanto meno accettato, il sostegno ovvero abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare (Cass. n. 4866/2010).

L'orientamento giurisprudenziale è così enunciato riassuntivamente dal Tribunale di Pesaro (sent. 12 marzo 2018, n. 248): la l. n. 6/2004 ha determinato un rovesciamento della tradizionale prospettiva che dalla tipizzazione della patologia faceva rigidamente derivare la declaratoria di incapacità della persona, con la conseguenza che il sistema, oggi, impone di incentrare l'attenzione non tanto sulla patologia da cui risulta affetta la persona quanto, piuttosto, sulle specifiche esigenze di protezione della persona totalmente o parzialmente incapace di intendere e di volere: in tal modo consentendo il ricorso agli strumenti maggiormente limitativi della capacità soltanto in casi estremi. Ne deriva che l'interdizione può essere pronunciata soltanto quando si possa ritenere che il differente e più agile strumento dell'amministrazione di sostegno non risulti efficace in relazione alle esigenze di protezione manifestatesi nel caso concreto.

Le pronunce che hanno contribuito a formare l'orientamento così espresso sono ripetute. Può citarsi Cass. n. 17962/2015, per la quale il giudice del merito, nel giudizio di interdizione, deve considerare che, rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma alle residue capacità e all'esperienza di vita dallo stesso maturate, anche attraverso gli studi scolastici e lo svolgimento dell'attività lavorativa (nello stesso senso, Trib. Teramo, 14 febbraio 2013, n. 134, in Giur. merito, 2013, 11, 2372, nota di Buffone). Può ricordarsi, inoltre, Cass. II, n.6079/2020, la quale ha osservato che l'amministrazione di sostegno ha la finalità di offrire a chi si trovi nell'impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti di tutela degli incapaci, quali l'interdizione e l'inabilitazione. Rispetto a questi istituti, ha affermato la Corte, l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all'apprezzamento del giudice di merito, si è concluso, la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della malattia ovvero la natura e la durata dell'impedimento nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie (in senso conforme, Cass. n. 223332/2011; Cass. n. 13584/2006; Trib. Bari, I, 7 maggio 2018, n. 2032 App. Roma, 27 luglio 2012, n. 4025;Trib. Torre Annunziata, 13 gennaio 2014, n. 173).

L'orientamento riferito della giurisprudenza ha preso avvio dalle considerazioni svolte da Cass. n. 13584/2006, per la quale, l'amministrazione di sostegno si fa preferire non solo sul piano pratico, in considerazione dei costi meno elevati e delle procedure più snelle ma altresì su quello etico-sociale, per il maggior rispetto della dignità dell'individuo, in contrapposizione alle più invasive misure dell'interdizione e dell'inabilitazione, che attribuiscono uno status di incapacità, che non è invece riconoscibile in capo al beneficiario dell'amministrazione di sostegno. La giurisprudenza ha affermato  il principio per il quale l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno doveva essere individuato non in base ad una graduazione del grado di infermità o dell'impossibilità di attendere ai propri interessi ma piuttosto alla maggiore capacità del detto strumento ad adeguarsi alle esigenze del soggetto. Sulla scorta di queste premesse si è successivamente affermato che l'interdizione è un istituto di valore e applicazione residuale (Cass. n. 9628/2009; Cass. n. 4866/2010); e che la capacità di agire della persona deve essere sacrificata nella minor misura possibile (Cass. n. 12466/2007).

I presupposti attuali dell'interdizione

Linee generali

L'interpretazione fornita dalla giurisprudenza ha spostato l'attenzione dalla precisa lettura del testo normativo alla funzione assistenziale e utilitaristica da garantire nel caso concreto con una scelta tra i mezzi posti a disposizione dall'ordinamento. Il criterio guida è quello della minor limitazione possibile da arrecare alla capacità di agire del soggetto, che è aspetto integrante della sua personalità; e della privazione di questa capacità di agire esclusivamente quando non possano giovare a soccorrerne le condizioni minorate gli istituti che assicurano un semplice soccorso. In questo quadro di principi perdono di rilevanza le questioni che si ponevano in dottrina relativamente alla consistenza delle infermità impedienti della capacità, alla stabilità di queste condizioni ed al grado della conseguente impossibilità di provvedere ai propri interessi. Ciò che è divenuto rilevante è il modo con il quale superare la situazione di svantaggio: tutte le volte in cui è sufficiente affiancare al soggetto carente di una sua autonomia un amministratore di sostegno la scelta in tal senso è obbligata.

I presupposti dell'interdizione costituiti, in forza del disposto dell'art. 414, dall'abituale infermità di mente e dalla conseguente incapacità a provvedere ai propri interessi vanno dunque intesi in un senso di assolutezza tale da escludere la possibilità che nella fattispecie si rendano sufficienti misure meno restrittive della capacità di agire. Le nozioni di infermità di mente e della sua stabilità assumono un contenuto meno decisivo di quanto poteva essere considerato anteriormente alle modifiche apportate dalla legge introduttiva dell'amministrazione di sostegno. Il riferimento, per intendere tali nozioni, era rivolto ad un concetto di «normalità», impossibile da definire e affidato all'apprezzamento del giudice. Si discuteva se l'infermità dovesse essere permanente, continua e attuale: oggi l'indagine deve essere rivolta a confrontare le condizioni in cui versa il soggetto con gli strumenti giuridici a disposizione: considerando l'amministrazione di sostegno quale scelta prioritaria e l'interdizione quale extrema ratio cui ricorrere.

In questa ottica, una corretta applicazione delle norme conduce certamente ad escludere che possa essere dichiarata l'interdizione se non ricorre una infermità abituale o se l'infermità non è di mente (come richiede l'art. 414). Dovendosi, tuttavia, applicare con preferenza l'amministrazione di sostegno, al criterio della gravità delle condizioni menomate deve sostituirsi quello della convenienza, in concreto, dello strumento di assistenza da adottare.

In dottrina si è cercato di reperire un criterio di massima al quale attenersi sia per disporre di una distinzione concettuale tra l'amministrazione di sostegno e l'interdizione e sia per averne una guida operativa nelle situazioni concrete. Il Paladini ad esempio (in Amministrazione di sostegno e interdizione giudiziale, in Riv. dir. civ., 2005, II, 594) ha proposto la seguente schematizzazione. Quando è necessario offrire un supporto ad un soggetto «debole», al fine di compiere determinati atti, può applicarsi la misura dell'amministrazione di sostegno. Quando, invece, è necessario tutelare un soggetto «impedendo» allo stesso di compiere determinati atti, è necessario pronunciare l'interdizione. Questa ha, si sostiene, una funzione di tutela «passiva» dell'incapace, che deve essere protetto da sé stesso, come risulta chiaramente dal testo stesso dell'art. 414. Ogni schematizzazione va accolta con gli inevitabili limiti che le sono connaturati. Ma quella citata ha il pregio di dimostrare come ormai la differenza tra i due istituti in argomento vada rinvenuta nella loro difforme funzione, più che nella qualità o nella rilevanza delle condizioni in fatto che danno loro occasione.

Per Cass. n. 13929/2014, in caso di persona priva, in tutto o in parte, di autonomia, il giudice è tenuto, in ogni caso, a nominare un amministratore di sostegno perché la discrezionalità attribuita dall'art. 404 c.c. ha ad oggetto solo la scelta della misura più idonea (amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione) e non anche la possibilità di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei suoi interessi. La stessa Corte di cassazione ha affermato non si potesse impedire all'incapace, che aveva dimostrato di essere in grado di provvedere in forma sufficiente alle proprie quotidiane ed ordinarie esigenze di vita, il compimento, con il supporto di un amministratore di sostegno, di atti di gestione e di amministrazione del patrimonio posseduto; restando affidato al giudice tutelare il compito di conformare i poteri dell'amministratore e le limitazioni da imporre alla capacità del beneficiario in funzione delle esigenze di protezione della persona e di gestione dei suoi interessi patrimoniali, con l'eventuale ricorso all'ausilio di esperti e qualificati professionisti del settore (Cass. n. 17862/2015).

Il Trib. Bari 11 febbraio 2016, n. 736, ha accolto la domanda di interdizione in un caso in cui dall'istruttoria era emersa una complessiva condizione di menomazione psico-fisica dell'interdicendo tale da comportare la sua incapacità di comprendere, ricordare e volere nonché di compiere in autonomia gli atti anche semplici della vita quotidiana. Il medesimo Trib. 28 aprile 2014, n. 2114 aveva affermato che, in osservanza del principio secondo cui doveva essere limitata la capacità del soggetto nella minore misura possibile, non doveva farsi luogo all'interdizione di un soggetto (non deambulante da anni) la cui complessiva situazione di menomazione fisica non comportava la sua incapacità a comprendere, ricordare e volere e non influiva direttamente sulla sua autonomia a compiere gli atti della vita quotidiana. Il Trib. Salerno (11 gennaio 2016, n. 662) ha ritenuto l'amministrazione di sostegno non in grado di garantire una tutela efficace, nel caso esaminato, tenuto conto che l'interdicendo, oltre ad essere affetto da una grave patologia, era persona rigida, poco disponibile a valutare anche con una guida la realtà in maniera adeguata, incostante nelle cure farmacologiche ed incapace di valutare in modo minimamente adeguato la realtà economica propria della sua famiglia nonché le priorità esistenziali su cui una economia familiare si basa. L'interdizione è stata dichiarata anche in relazione ad un soggetto che, durante l'esame diretto, non rispondeva ad alcuna domanda e deambulava nell'aula, tenendosi vicino ai genitori; e che risultava assolutamente non in grado di provvedere ai propri interessi di carattere economico, oltre che pratico-quotidiano, in ragione di una patologia che lo affliggeva sin dalla tenera età (Trib. Torre Annunziata, 16 settembre 2013, n. 932). Analogamente, è stata dichiarata l'interdizione, quale unica misura idonea a garantire la corretta gestione del rilevantissimo e variegato patrimonio del destinatario, di un soggetto quasi centenario e ormai in condizioni di incapacità fisiopsichica (Cass. n. 18171/2013, che ha confermato la pronuncia di merito). L'interdizione è stata considerata misura adatta al caso in ragione della complessità dell'incarico da assolvere in una fattispecie in cui vi era la necessità di gestire un'attività complessa in ragione della potenzialità auto ed etero lesiva dell'incapace (Trib. Castrovillari, 15 novembre 2012, in Le corti calabresi, 2013, 1-3, 429). Per il Trib. Bologna 11 luglio 2005, in Foro it., 2005, I, 3482), al fine di decidere se disporre l'interdizione o se nominare un amministratore di sostegno, non assume rilievo il criterio della gravità o della natura dell'infermità ma quello delle concrete esigenze dell'incapace.

L'infermità di mente

Sebbene nelle pronunce successive alla l. n. 6/2004 , non si insista sul presupposto dell'interdizione costituito dall'infermità di mente del soggetto (che deve essere abituale e tale da renderlo incapace di provvedere ai suoi interessi), occorre pur sempre ricordare che l'art. 414 richiede, per farsi luogo a detta misura, la sussistenza di un presupposto siffatto. La non ricorrenza di questo elemento rende certamente illegittima l'interdizione e occorre pertanto stabilirne la relativa nozione, pur nel mutato quadro interpretativo di cui si è riferito.

Si afferma in dottrina non esser necessario che l'infermità comporti uno sconvolgimento intellettuale totale o di assoluta demenza. È sufficiente un grado di alterazione psichica che produca l'effetto rilevante per il diritto, che è quello dell'incapacità di provvedere da solo ai propri interessi. L'alterazione psichica può riguardare, indifferentemente, l'ambito intellettivo e quello volitivo, non essendo specificato nella normativa che essa debba riguardare la capacità di intendere piuttosto che quella di volere, e viceversa.

La valutazione in proposito è affidata alle circostanze del caso: la personalità del soggetto, la sua condizione sociale, la natura degli interessi, secondo una comparazione con quanto si reputa essere normale e ordinario (Forchielli, 5; Napoli, 30).

La condizione di infermità deve essere attuale, non ormai precorsa né ipotizzata in vista di possibili ricadute, se non siano previste con alta probabilità (Cass. n. 2013/1990).

Il requisito dell'abitualità rimanda ad una condizione tendenzialmente stabile e già esistente; ma una parte della dottrina ritiene che l'interdizione possa essere giustificata da un pericolo generico e astratto, tale da permettere che la misura (anche dell'inabilitazione, eventualmente) offra una tutela preventiva per l'incapace e per l'integrità del patrimonio, ed eviti che la stessa sia pronunciata solo in un momento in cui l'incapacità del soggetto abbia già avuto concrete manifestazioni negative (Forchielli, 8).

La dottrina rileva che la sussistenza di una malattia di mente può non essere, di per sé, sufficiente a giustificare l'interdizione, occorrendo che essa sia tale da escludere la capacità di provvedere ai propri interessi. D'altro lato, la malattia mentale può non essere necessaria, a tale scopo, bastando una compromissione delle facoltà mentali tale da generare una alterazione totale o parziale della capacità di provvedere a sé stessi. L'accertamento dell'esistenza e della misura di questa alterazione è compito del giudice di merito.

L'interdizione o l'inabilitazione devono ricollegarsi alle condizioni di salute psichica in atto al momento della relativa pronuncia e quindi devono prescindere tanto da precorsi episodi d'infermità quanto dall'eventualità di ricadute, ove prospettabile in termini di mera possibilità e non di alta probabilità (Cass. n. 2031/1990).

Il requisito dell'abitualità dell'infermità di mente sussiste quando l'alterazione psichica si prolunga nel tempo e diventa un habitus normale del soggetto, pure in presenza dei c.d. lucidi intervalli (Cass. n. 570/1985). Per il Trib. Potenza 1 aprile 2009, n. 263, è infermità che presenta i caratteri dell'abitualità la demenza causata dall'alzheimer. Il Trib. Modena 9 settembre 2000 ha affermato che l'abituale infermità mentale sussiste non soltanto quando risultino compromesse le facoltà intellettive superiori, con conseguente incapacità del soggetto di intendere e di volere ma anche quando, pur sussistendo tali capacità, il soggetto sia fisicamente impedito al punto da non essere in grado di manifestare la propria volontà in modo sufficientemente apprezzabile dagli altri, con conseguente incapacità assoluta di provvedere ai propri interessi. Per il Trib. Firenze 3 giugno 2004, in Foro it., 2005, I, 3482) deve essere pronunciata l'interdizione quando nel destinatario della misura richiesta manchi una residua capacità di intendere e di volere.

L'accertamento, in concreto, dell'esistenza e della misura dell'alterazione mentale è riservato al giudice di merito, il quale deve avere riguardo non solo degli affari di indole patrimoniale ma anche di tutti gli atti della vita civile, nelle sue espressioni giuridicamente rilevanti: cura della persona, adempimento di doveri familiari e pubblici, sempre che si tratti di interessi suscettibili di essere pregiudicati attraverso atti giuridici e per la cui difesa sia configurabile una supplenza del tutore (Cass. n. 11131/1991; Cass. n. 5652/1989). È riservato al giudice di merito l'accertamento in concreto dell'esistenza e della misura della patologica alterazione delle capacità mentali e della conseguente incapacità, da parte dell'interdicendo, di provvedere ai propri interessi; e, a tal fine, il giudice può recepire le conclusioni del consulente d'ufficio, senza necessità di esporre dettagliatamente tutte le ragioni per le quali ritenga di doverle accogliere (Cass. n. 18322/2007).

L'incapacità di provvedere ai propri interessi

Nella previsione di cui all'art. 414 l'infermità di mente deve cagionare l'incapacità di provvedere ai propri interessi. Il diritto tutela le relazioni interpersonali soprattutto nei loro risvolti economici: e gli interessi ai quali si riferisce la norma citata sono certamente interessi di rilevanza patrimoniale. Gli istituti di protezione degli incapaci non hanno una funzione assistenziale, alla quale è provveduto con altri mezzi. Essi tutelano questi soggetti dalle conseguenze negative di obbligazioni assunte senza discernimento e tendono a conservare il loro patrimonio dagli effetti di atti dispersivi. La dottrina sottolinea in genere questi aspetti di natura economica quali essenziali alle figure dell'amministrazione di sostegno, dell'interdizione e dell'inabilitazione. Per alcuni Autori, gli interessi da proteggere sono esclusivamente patrimoniali (Forchielli, 8). Altri studiosi ammettono considerazioni più ampie delle circostanze complessive in cui viene a trovarsi l'incapace, da porre in relazione alle attività che si rendono necessarie per suo conto e a suo vantaggio (Galgano, Dir. civ., 2010, I, 140; Napoli, 38).

È la giurisprudenza a porre l'accento sugli aspetti diversi da quelli strettamente economici e che presuppongono le capacità di discernimento e di autonomia della persona.

Nella sua valutazione il giudice deve avere riguardo agli interessi patrimoniali ma anche e soprattutto agli atti della vita civile, nelle sue espressioni giuridicamente rilevanti (Cass. n. 11131/1991 cit.; Cass. n. 2553/1976). Occorre considerare il tipo di attività che devono essere compiute per conto del beneficiario nonché della durata e della natura dell'impedimento (Cass. n. 18171/2013). Cass. n. 5652/1989 aveva ritenuto rilevante, nella valutazione dell'opportunità di pronunciare l'interdizione, la situazione cui dava luogo l'ipotesi di una supplenza del tutore per ovviare ai pericoli derivanti dal rifiuto, per infermità psichica, di cure o interventi medici.

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